Memoria, 27 gennaio 2012: Oltre la cerimonia

Ricevo dalla Newsletter di Sullasoglia queste righe. L’amico di penna fra Benito sottolinea che ci servono ad andare oltre la cerimonia, per far della memoria cultura.
Aggiungo di mio , su questa linea, alcune parole di Simha Guterman, da Il libro ritrovato (Einaudi).

Anniek Cojean dice che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, ad ogni inizio di anno scolastico, una lettera ai suoi insegnanti:
Caro professore,
 sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere:
camere a gas costruite da ingegneri istruiti; 
bambini uccisi con veleno da medici ben formati;
 lattanti uccisi da infermiere provette;
donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università.
Diffido –quindi – dall’educazione.
 La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
 La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani
.
Tratto da “Les mémoires de la Shoah” di Anniek Cojean (“Le Monde”, 29 aprile 1995).

…Risorgete, maestri tedeschi, Kant ed Hegel, Goethe e Bach! Mettetevi in fila a fianco dei vostri nipotini bruni, ai quali avete affidato la vostra spiritualità, le vostre dottrine filosofiche, i vostri capolavori letterari, le vostre creazioni musicali! Venite a sfilare davanti alle barre d’appoggio delle latrine, tra le baracche A e B. Dopo questa visita, non potrete sciacquarvi le mani né lavarvi il viso umiliato, perché nel campo d’internamento di Soldau, l’acqua è introvabile ed è vietato lavarsi…”.

 

 

 

delle nevi. Se resisto

L’immagine della testata è tratta da questo bel sito.

Approfitto della neve, sperando di vederla solo in questa foto, per suggerire una poesia di Clemente Rebora, adatta per la fine dell’Avvento.

Ma deve venire,

verrà, se resisto

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà forse già viene

il suo bisbiglio”.

 Qui sotto, nell’immagine di Elena, che ne coglie lo spirito.

effetto telecomando

Al momento, dovrei soffermarmi sull’Aquinate. Tommaso, insomma. Essere e essenza, prove dell’esistenza di Dio, Deus Absconditus et cetera.
Il fatto è che ho la mania, compulsiva a tratti, di sbirciare Fb o Tw per curiosare e vedere che cosa fa il mio “micro mondo”.
Ecco: non dovrei farlo.

Non parlo di questioni di etica professionale, secondo cui, come qualcuno sostiene, è necessario che i professori non annoverino tra i propri contatti gli studenti, né di etica personale, secondo cui non dovrei proprio perdere tempo in quisquilie.

Si tratta di estetica, di teoria del gusto. Il fatto è che mentre al mattino, spremendo l’enorme agrume della storia e della filosofia, cerco di offrire ai miei studenti, con tanto di vassoio e livrea, un concentrato di provocazioni, illuminazioni (altrui), intuizioni… Durante il pomeriggio vedo molti di loro bearsi e beotarsi di riferimenti – veloci link su Fb, battute magrissime e autoreferenziali – che volutamente e consapevolmente raschiano sul fondo ambiguo del barile del linguaggio del Pop, intrattenendosi tuttavia non con le mutande di quella cantante o con l’attore di quella fiction, insomma con materiali ugualmente pop, ma con argomenti cui la storia dell’uomo ha dedicato le energie migliori.

Dio, Cristo, Allah, Buddha. Le sofferenze e i dolori, la malvagità della creatura umana. Le sue soddisfazioni profonde nell’interesse collettivo e non egoistico. L’elenco potrebbe essere lungo. Pensate a qualcosa cui avete dedicato qualche spazio di pensiero e di emozione; qualcosa per cercare il cui nome avete percorso metri e metri di letteratura e di filosofia; qualcosa che ha inchiodato parte (o tutta) delle vostre giornate. Qualcosa di valore, insomma.

E una volta pensatolo, guardate il primo venuto che ci gioca nel fango. Che lo sbatacchia, lo stropiccia, lo sprimaccia e poi passa ad altro, insoddisfatto, l’occhio vacuo che nemmeno un bue. Un po’ un bambino prima, come si dice, di “affrontare il suo Edipo”, prima di prendere atto che i desideri/impulsi possono essere rinviati, o – assurdo! – disattesi. Non voglio evocare il monaco cieco del Nome della Rosa, secondo cui ridere del poco porterà inevitabilmente a ridere del Tutto. Ma rimane la domanda: si può davvere ridere di tutto?

Ecco io penso che la risposta sia no. No, perché è brutto ridere di fronte alla morte, alla sofferenza, alla ricerca, alla soddifazione altrui, banalizzandola . Non moralmente errato. Proprio brutto, come un abbinamento sbagliato in una sera di gala o un palazzone abusivo, una stecca alla Scala o un lago inquinato. Banale è da bannum che sta per legge divenuta consuetudine. E’ la normalità di cui non ci si accorge, paesaggio ordinario, un canale dopo l’altro nell’atto autoconsolatorio del dito sulla tastiera del telecomando. Come se non ci fossero più vette, in questo che sembra talvolta un deserto della mente e del cuore.

No taxation without representation

Lo slogan del titolo è arcifamoso, e il princìpio che esso enuncia non è l’unico in nome del quale dovremmo appoggiare il cosiddetto “voto degli stranieri”. Anzi, proprio perché “straniero” è una parola che dobbiamo sottoporre a disoccupazione, il voto di domenica prossima ha un senso ideale.

Così lo spiegano Paolini, Segre e Bonsembiante.

NOI SIAMO TUTTI QUI
Non è una domenica qualsiasi quella che Padova si appresta a vivere e celebrare
questo 27 novembre.
Il Comune ha indetto le elezioni della Commissione per la rappresentanza dei cittadini
stranieri, il cui Presidente farà poi parte ufficialmente (sia pur senza diritto di voto) del
Consiglio Comunale della città.
Domenica tutti gli oltre 30mila cittadini stranieri residenti a Padova potranno andare ad
esprimere il loro voto nei locali della Fiera; potranno esprimere e veder riconosciuta la
loro partecipazione a quella che per la gran parte di loro è ormai una nuova e stabile
cittadinanza.
E’ un atto che non può essere vissuto né come accidentale né come puramente
formale. E’ un momento di reciproco riconoscimento: io sono qui e posso prendere la
parola.Tu sei qui e puoi ascoltarmi. Io esisto in questa società, in questo tempo e mi
viene chiesto di mettere in gioco il mio ruolo democratico di cittadino, mi viene chiesto di
aiutare la costruzione di una convivenza civile che non devo supplicare ma che posso
agire. Io straniero divento parte del tessuto sociale della mia città. Tu italiano puoi
finalmente conoscere la mia opinione.
D’altronde, lo ha detto chiaramente anche Napolitano, è ormai inaccettabile pensare di
continuare a costruire e gestire la vita democratica del nostro Paese senza creare
occasioni di dialogo e inclusione multiculturale non solo informali, ma anche ufficiali. La
decisione del Comune di Padova non può che essere letta come uno stimolo
coraggioso all’attuazione di due riforme necessarie : l’introduzione del diritto di voto
amministrativo dei cittadini stranieri residenti in Italia e l’introduzione dello ius soli nella
legislazione sul diritto di cittadinanza.
Il voto di questa domenica  può per questo diventare una cerimonia laica per celebrare
la nascita di una città e di una società più aperta e meno vittima di facili demagogie
xenofobe.
Certamente non può e non deve rimanere iniziativa isolata e di facciata, ma ha in sé un
grande valore politico e culturale.
Non c’è più spazio per i professionisti della paura, per chi continua ad alimentare facili
paure al solo scopo di mietere consensi elettoriali. Sono vecchi e noiosi tromboni che
tengono il Paese incollato ad una chiusura anacronistica e controproducente.
Padova, nel cuore di una delle regioni più multiculturali d’Europa, può lanciare un
segnale forte di cambiamento: non abbiamo più paura, ma siamo pronti a vivere il
cambiamento. E per farlo abbiamo bisogno di conoscere e ascoltare le opinioni dei
nuovi cittadini, dei nuovi elettori.
Perché ora non siamo più soli, ma siamo tutti qui. Insieme.
Ci auguriamo che siano molti i cittadini stranieri residenti a Padova che andranno a
votare.
E ci auguriamo ugualmente che siano molti i cittadini padovani che celebrino questo
importante momento invitando  i loro vicini di casa, compagni di studio, colleghi di
lavoro, collaboratrici domestiche, gestori di bar e negozi, operai, ristoratori,
commercianti, infermieri, benzinai, parrucchieri e amici ad andare a votare.
Buona domenica a tutti.
Andrea Segre, Marco Paolini e Francesco Bonsembiante

 

But don’t try to talk to me

But don’t try to talk to me
I won’t listen to your lies
You’re just an object in my eyes
You’re just an object in my eyes
(The Cure,  Object, 1978)

Va beh: nel ’78 avevo cinque anni e ascoltavo la musica di mio papà, Bach. Ma alle scuole superiori ho avuto una fase, se così possiamo dire, dark. Adesso forse si definirebbe goth che sta per “gotico”: prevalenza del nero, aria depressa, bassa motivazione nei confronti di qualunque cosa e di chiunque, maniche lunghe a coprire le mani. Col popolo dark non potevo essere però confuso: troppo ansioso per permettermi il nichilismo, troppo in carne per assumere l’aria giusta, quella dell’emaciato esistenzialista senza-Sartre.
Mi ha colpito il fatto che più di uno dei miei studenti e delle mie studentesse di quinta si sia posto il problema di che cosa votare alle passate elezioni amministrative, o al referendum. Mi ha colpito perché i miei diciotto anni erano mescolati a quelle fosche atmosfere adolescenziali e mi coglievano del tutto sprovveduto sul piano politico. Mi ha colpito perché talvolta anch’io rischio di cadere nella vulgata secondo cui “i giovani non si interessano di nulla, men che meno di politica”. Giravano per la classe fogli stampati da internet, con tutti i programmi dei candidati. Qualcuno se li è letti per filo e per segno, prima di andare al seggio.
La sorpresa è proseguita quando, parlandone, è emerso che questa frangia consapevole non disdegna il voto disgiunto: centrosinistra per le europee, centrodestra per le amministrative. Una sorta di attenta ricerca della persona di cui potersi fidare, al di là del colore, dello schieramento, delle ideologie. Qualcuno intuisce che sia questa la strada della morte del partitismo.

Inexperience sweet delirious
Supernatural superserious
wow!
(R.E.M., Supenatural Superserious, 2008)

Partitismo o personalismo? Gli analisti osservano la scena italiana e registrano quotidianamente sui giornali l’apporto dei cosiddetti “vent’anni di berlusconismo”. Il mio pensiero corre subito alla scena europea, o addirittura mondiale, per cercare di dare senso al quadro. Perché mi pare evidente che in Italia ci siamo come ammalati, abbiamo succhiato un morbo funesto, che ci costringe subito a schierarci pro o contro questa persona. E così l’opposizione, qualsiasi colore sbiadito abbia, non pare costruire parole e pensieri alternativi, ma fa da sponda all’innominabile. Quando parlo di “alternativi”  non intendo quindi opposti e contrari a lui, ma capaci di stare su da soli, e per tanto decisamente nuovi. E guardando oltre – già Blair, Zapatero, Obama, in parte Merkel – ho l’impressione che come in ogni tempo di crisi, emergano figure più o meno forti: in questo senso abbiamo anticipato i tempi, come già successe alla fine del primo conflitto mondiale.
L’analogia con quell’altro Ventennio viene del resto invocata da più parti, alla ricerca delle trappole di un nuovo totalitarismo. A me pare che la più profonda somiglianza stia nell’assuefazione con cui il cosiddetto popolo italiano accetta gli attori della scena politica.
C’è un certo interesse, nelle classi quinte, per il periodo fascista e osservo come l’attenzione si faccia più acuta quando cerco di spiegare come in determinate fasi storiche il Parlamento subisca una sorta di svuotamento di potere. Il fatto che anche oggi si riconosca senza troppi drammi che gli onorevoli sono troppi e che il loro numero vada tagliato non è colto tuttavia come un segno cupo: in realtà – come allora – prevale la nausea per la sfera pubblica e quindi ben venga uno sfoltimento di teste e di stipendi. Qualunquismo a go-go?
Si, se pensiamo al fatto che l’unico percorso che pare più efficace per mettere alle strette questo governo è quello di indagare le frequentazioni erotiche del premier. Senza però pensare che esse destano meraviglia e invidia in molti dei maschi italiani, gli stessi che cliccano sui sederi nudi nelle pagine web dei medesimi giornali che per altro invocano lo scandalo. Come sempre c’è qualcosa che tira di più di un carro di buoi.
Ma qui non sta l’alternativa, e il fichista di Arcore non cadrà per questo. Ancora analogie, perché il comportamento è il medesimo di quell’altro “premier”, come ricorda Meneghello in Fiori italiani, facendo riferimento al direttore del quotidiano per cui giovanissimo scriveva.
A Mussolini, che chiamava il Professore, riconosceva una dote suprema, di essere stato «un grande regista»: ma ora gli era capitata la sventura di cadere in mano a una donna che gli succhiava le energie, letteralmente, con la bocca; diceva che questa donna chiamava il Duce Lulù.
Lulù o Papi, non c’è molta differenza. Ma Mussolini non cadde per le sue abitudini sessuali.

Cogliere segni

Più di una volta mi è capitato che uno studente o una studentessa mi abbia detto, facendomi arrossire: si candidi, prof, io la voto! Beata ingenuità? Eppure è proprio questo il fatto: cercare persone di cui fidarsi.
Nel paradigma democratico nel quale siamo inseriti è necessario proprio fare attenzione ai meccanismo di creazione della fiducia, e su quali basi intellettuali ed emotive la fiducia dei singoli si fonda. Mi pare che il percorso sia lunghissimo, e fondamentalmente apolitico: non è l’orizzonte pubblico quello su cui incidere, ma la frequentazione di uomini e donne a tu per tu. Il Partito Democratico deve ricominciare dai quartieri, se davvero ha qualcosa da far dire a qualcuno.
E per far questo deve rinunciare alla caratteristica spocchia dei militanti cattolici e di sinistra, quella per cui c’è qualcuno che possiede la verità e si piega per concederla al popolo bue. Ricordo un incontro in una sperduta parrocchietta fuori Padova, un consiglio pastorale in cerca di formazione, dodici-quindici persone tra i cinquanta e i settanta. Si era allora candidato un noto direttore di quotidiano, di larghissime forme e di strettissime vedute, sulla base della “difesa della vita”. Ebbene, quale terreno migliore di un gruppo di parrocchiani? Eppure quelle stesse pasionarie di Cristo mi fecero caldamente presente che non si sarebbero lasciate fregare!
Altroché popolo bue. Si tratta di far emergere con pazienza quello che già c’è: un misto di buon senso che nasce dallo svegliarsi alle cinque per andare al lavoro, di capacità di cogliere il valore delle persone, di quella forza che ha la meglio quando tacitiamo per un attimo le ansie indotte e ascoltiamo le nostre paure. Davvero, c’è. E’ quella resistenza fisiologica che non ama gli “uomini forti”.
IL PRESIDENTE ha una caratteristica che balza agli occhi di chiunque lo avvicini: mentre gioca a bocce o beve birra, durante la notte o quando copula; persino nelle sedute parlamentari che presiede da quando si è verificato il gran cambiamento. Più di un movimento delle sue mani lascia trasparire questa sua caratteristica, inspiegabile a tutti, e che tuttavia appare così evidente da non sfuggire nemmeno ai profani. Si sostiene che la sua origine vada ricercata in un processo che non si può, né si vuole, più arrestare. Si richiamano alla memoria momenti in cui si sono percepiti fenomeni che potrebbero averla determinata. In realtà tutti sanno di cosa si tratti. Nel timore di poter essere chiamati a risponderne, evitano di parlarne o discuterne in pubblico. Anzi, confondono accuratamente le tracce. Ma non la si trova solamente nella coda dell’occhio del presidente. C’è anche in altri punti del suo corpo, opulento e inquieto. Nei suoi stessi sogni. In chiunque la riconosca produce una tensione che col tempo si tramuta in contagio. Sino ad esserne invasi. Non è nient’altro che la brutalità“. (Thomas Bernhard, Eventi, 1969)

[questo è un mio Pianoterra del 2009 – m’è parso attuale]