Se non so

Szymborska(closeup)

SOTTO UNA PICCOLA STELLA
Wislawa Szymborska

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del  mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
E poi fatico per farle sembrare leggere.
(da Vista con granello di sabbia, Adelphi 1998)

Dedicata al caro Ivo e al suo interpellare (custodente) le mie fragilità.

Elogio della fragilità

elenaEdera

Questo nostro tempo complesso sembra chiederci eroismo e sacrificio.
Avere la soluzione, governare il caos, vincere la crisi, non perdere l’informazione, essere all’altezza delle aspettative, sapere educare sempre, conservare occhi asciutti “nella notte triste”.
E se ci venisse chiesto invece di lasciar essere? Di resistere custodendo qualcosa d’altro, di minoritario, invisibile, sussurrato?
Se questo tempo ci chiedesse invece di affrontare il nostro limite, di condividere la nostra insufficienza? Se questo nostro tempo ci invitasse a chinarci sulle gioie e i dolori di chi proprio adesso è accanto a me?
C’è un filo che ci lega e noi non vogliamo vederlo; ci scostano lo sguardo altrove. Ma seguirlo, per quanto esile, è vitale.

Così ho provato a sintetizzare il senso dell’incontro con IVO LIZZOLA nell’ambito della Scuola del Legame Sociale, sabato 16 marzo prossimo venturo.
(foto di Elena, dal suo blog – clicca su di essa)

 
Aggiornamento video del 23 marzo 2013.

Germi di salvezza universale

Sul “Corriere della Sera” del 18 febbraio scorso, Guido Ceronetti scrive un articolo denso, che si rivela provocatorio solo per chi avesse il tempo di intenderlo. Gioca infatti interamente sul binomio pazienza/comprensione del mondo, anche se titolo (Un servizio civile come antidoto alla brama del posto) e sottotitolo (I guai della disoccupazione mentale) parrebbero andare in altra direzione.

La proposta di Ceronetti non è nuova, ma raramente – mi pare – è stata presa sul serio: istituire un servizio civile obbliglatorio per maschi e femmine, italiani d’origine o acquisiti, da svolgersi tra i 18 e i 20 anni.

“Voglio accennare al mai disoccupato problema della disoccupazione giovanile, stufo di sentirne trattare con adulazione oscurante e retoricaccia di finta compassione, lontano da ogni buon senso. Perché questo ho veduto. La fine della dannatissima naja (il servizio militare costituzionalmente obbligatorio) ha nociuto ai giovani maschi italiani. L’esercito ridotto e a base volontaria era la soluzione più giusta e razionale: ma tra i diciotto e i venti anni per innumerevoli altri si è aperto uno sbadiglio di noia, frustrazione, poltroneria, caccia nevrotica del posto sfruttata per fini di potere da falsi amici avidi di consenso facile, di voto futuro. La mia proposta di utopistico bene sociale è di istituire un servizio civile ovviamente disarmato per tutti i giovani, uomini e donne di diciotto-diciannove e vent’ anni, della durata di un anno e mezzo, fatto di servizi utili alla collettività, apprendimento di mestieri, studio, giochi, sport, teatro, pronto impiego nelle calamità. I figli degli immigrati con cittadinanza italiana ne farebbero parte alla pari e insieme con tutti gli altri”.

Non so se nelle cose accade davvero che ci si lanci, terminata la secondaria di secondo grado, alla ricerca del posto. Temo che un certo numero di ragazzi intercetti piuttosto le altre possibilità evocate: noia, frustrazione, poltroneria. Confezionate talvolta con l’abito rispettabile di un corso universitario.
Ma la statistica non è il cuore della questione. Quel che Ceronetti evoca è la deificazione del “mercato del lavoro”, quale unico orizzonte di senso possibile. Certo: lavorare bisogna, e persino lavorare è bello, ancorché stanchi. Ma la logica del mercato applicata a tutto (lo spot della “MasterCard” sembra innocuo, ma rivela la potenza che il denaro possiede di divenire metro di giudizio del cosmo), svuota il significato del lavoro come veicolo di creatività trasformativa della terra, perché il lavoro diviene mezzo per il denaro, cioè per l’acquisto, e quindi la risoluzione di bisogni (più o meno indotti).

Ceronetti, correttamente – ma ben lungi dall’accarezzare il cosiddetto politically correct, elegante maniera per dire che rinunciamo a scannarci dicendo come le cose stanno perché gli interessi comuni alle due parti sono più invitanti – denuncia sin dalle prime righe il posto che si è preso e che non gli verrà tolto,

l’idea che, lavorando nella parola, piegando a dare musica il ferro del verbo poetico, dispiegando ai crocicchi e sulle piazze filosofia etica, fumata fino all’intossicazione con la pipa del povero giudeo portoghese Baruch Spinoza – si potrebbe produrre il miracolo di una particella minima di bene sociale, in cui fermentassero germi di salvezza universale”.

Delinea da subito il manifesto dell’inutilità, proprio di poesia e filosofia. O meglio, dell’apparente inservibilità, in quanto incommerciabilità, di esse. Espulse loro, come Spinoza dalle chiese-sinagoghe-congregazioni di mezz’Europa, però, espelleremo anche la sana capacità di attendere, lavoro o amore non importa, la possbilità di non divorare il mondo, e quindi noi stessi, gli uni gli altri.
Ecco che l’azione civile di un servizio annuale dedicato ad altri avrebbe la funzione di antidoto alla corsa insensata: una sorta di poesia delle mani, di filosofia delle relazioni, per imparare ad aspettare.

(QUI, l’articolo completo)

parole#1: aporia

Questo abbinamento è divertente e – trovo – profondo. L’aporia è incertezza di un batter d’ali, ma è volo verso il limite inacessibile alla ragione, come nei dialoghi socratici.

apòria s. f. [lat. scient. Aporia, der. del gr. ἄπορος «inaccessibile», perché queste farfalle frequentano spesso le cime degli alberi]. – Genere di farfalle della famiglia pieridi; la specie più conosciuta, comune in tutta Europa fino ai 2000 m d’altezza, è la farfalla del biancospino (Aporia crataegi), dal corpo nero con ali bianche e nervature nere.

aporìa s. f. [dal gr. ἀπορία «difficoltà, incertezza», der. di ἀπορέω «essere incerto»]. – In filosofia, difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua ricerca, sia che di tale difficoltà si ritenga raggiungibile la soluzione sia che essa appaia intrinseca alla natura stessa della cosa e quindi ineliminabile: le a. eleatiche; la discussione aristotelica delle a. del concetto di moto; un’a. insolubile.

Le definizioni sono tratte da qui, vera miniera sapienziale.