Antiquitas saeculi est juventus mundi. Per Paolo

«Ombra mai fu,

di vegetabile cara

ed amabile soave più»

(G. F. Haendel, Serse)

Distensio animi

Ci sono una voce e un’immagine.

Incastrate in quella zona del corpo situabile all’altezza dello sterno. Né ventre né testa: se Cartesio non si fosse perso dietro ai vaneggiamenti notturni sulla ghiandola pineale, avrebbe individuato qui l’origine vera delle nostre passioni. Qui siamo colpiti e qui ci ritroviamo rannicchiati in quei particolari momenti in cui un odore, un sapore, l’alito di vento sulle guance, l’inflessione data ad una parola, un gesto ci scaraventano fuori dall’ordinato uno-dopo-l’altro dei secondi per portarci in una zona dell’animo senza spazio né tempo.

Fuori di noi – solo in un attimo, ma per l’intera durata di quell’attimo – il resto si ferma, sbiadisce, risulta senza alcuna importanza: l’attività alla quale ci applicavamo perde significato, la persona nostra interlocutrice si fa trasparente, il normale meccanico scorrere dei pensieri si perde e si aggroviglia. Ci troviamo adagiati in una precisissima sensazione che, come una chiave, spalanca la porta del ricordo: un’altra stanza, un altro giorno, un’altra persona. Rivivono.

Fragmenta

La voce è il modo con cui Paolo mi ha sempre chiamato. Non è solo la scelta di un diminutivo – Giovi – ma è quel modo sussurrato di pronunciarlo, carico di sonorità veronese e di affetto palpabile. Mi scopro spesso a riascoltarlo nella memoria: non è un richiamo, un ordine o una richiesta, non ha mai dopo di sé un punto esclamativo, ma è un nome inserito in una frase gentile, un parlar di me sottovoce.

E’ vero forse che i nomi possono diventare simboli, tessere spezzate di cui conserviamo in mano solo una metà monca: dei piccoli segnali che abbiamo presenti e che inviano a ciò che è assente, portandolo qui. Allora questo nome, detto proprio così, è quel che mi rimane del mio essere stato nipote di Paolo.

Non: solo quel che rimane, ma: tutto quel che rimane. Tutto: quello che ci accomunava e ci divideva, i pensieri affini e quelli lontani, le sue giornate in biblioteca al Conservatorio di Verona e le mie nelle aule di filosofia del Liviano a Padova. Non ci sono state parole sufficienti per raccontarci tutto questo, questo tutto. Ma al posto di parole, un nome.

L’immagine è lo zio che avanza sull’erba, per noi due gelati in mano. Un pomeriggio di fine estate, una visita in montagna e quattro chiacchiere all’ombra dei pini del Trentino, ad accogliere i miei nonni lontano dal sole della pianura. Sarebbe stato con noi qualche minuto, seduto in terra, il volto un po’ tirato: faceva la spola tra l’alberghetto e la casa dove altri parenti erano ospitati. La cura: che tutti potessero star bene, meglio possibile. Riconosco adesso quella sua attenzione, quel porsi in silenzio perché tutti trovassero il proprio posto. Un andare e venire perché tutti potessero stare, un guardare dall’alto tutti i frammenti d’affetto per ricostruirne il filo comune, la comune storia.

Ex libris

C’era nel suo fare quotidiano un segno chiaro di ciò che professionalmente lo abitava nel profondo. Paolo era uno storico in un senso radicale, quello per cui questo mestiere non può essere confuso con l’arguzia dell’antiquario o con la nobile arte del rigattiere. Paolo possedeva quello che Marc Bloch, mago francese della storia, ha chiamato il dono delle fate: la capacità di afferrare il vivente, di riconoscere la vita là dove apparentemente essa non è più, cioè nel passato. Il fremito della vita umana è stato l’orizzonte costante di Paolo come storico del teatro e della musica: una ricerca di frammenti di esistenza, fatti di epistolari e dialoghi, di “parrucche e ciacole”, di pizzicagnoli e ciarlatani, di salotti nobili e organi parrocchiali, di segreti e ricette, di fanfare e orchestre da camera, di bande e teatri, dalla Serenissima al Garda.

«In verità – dice Bloch – è sempre alle nostre esperienze quotidiane che, per sfumarle, là dove occorre, di nuovi colori, noi chiediamo in prestito, in ultima analisi, gli elementi che ci servono per ricostituire il passato». Paolo ha attraversato ad occhi aperti il mondo in cui è vissuto e ci lascia una tavolozza con decine di colori inediti: costringe e convince, ora, chi ha fatto parte di quel mondo a ritrovare il filo della propria storia.

«e non capivo che quell’uomo

era il mio volto,

era il mio specchio,

finché non verrà il tempo

in faccia a tutto il mondo

per rincontrarlo»

(F. Guccini, Amerigo)

per don Cristiano

Tra pochi giorni saranno i dieci anni dalla scomparsa di Don Cristiano Bortoli.

QUI il mio ricordo di allora.

Non chiamiamoli
neppure “I morti”
poiché essi sono più vivi dei “vivi”;
E ci sono più vicini e presenti,
E ci vedono dal di dentro…
Chiamiamoli
“Coloro che ci hanno preceduti”
E che attendono anche noi
all’incontro col Signore:
E ora essi stessi
pregano per noi. Amen

Davide Maria Turoldo

Chiedere in prestito occhiali altrui

La cultura della pace ancora oggi si presenta come un’autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un’ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l’aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell’altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l’altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d’odio.

Alessandro Bruni recensisce il libro di Achille Rossi su Panikkar, QUI


The final cut

Attraverso le lenti a occhio di pesce di occhi bagnati di lacrime
Posso a malapena definire la forma di questo momento nel tempo
E lontano dall’alto volando in cieli chiari e blu
Cado a spirale verso il buco nel terreno dove mi nascondo
Se attraversi il campo minato nel percorso
E confondi i cani e eludi i freddi occhi elettronici
E se riesci a evitare il fucile nell’entrata
Usa la combinazione, apri la cassaforte
E se là ci sarò io ti dirò cosa c’è dietro il muro
C’è un ragazzo che ha avuto una grossa allucinazione
Facendo all’amore con ragazze sulle riviste
Si chiede se dormite con la vostra nuova fede ritrovata
Può amarlo qualcuno
O è solo un sogno pazzo
E se ti mostro il mio lato oscuro
Mi stringerai ancora stanotte
E se ti apro il mio cuore
E ti mostro il mio lato debole
Che cosa farai
Venderai la tua storia al Rolling Stone?
Porterai via i bambini e mi lascerai solo?
E sorridi per rassicurarmi
Mentre bisbigli al telefono
Mi farai fare le valige
O mi porterai a casa?
Pensavo di voler metteresvelare i miei nudi sentimenti
Pensavo di voler tirar via giù il sipario
Tenevo il coltello nelle mani tremanti
Disposto a farlo ma poi dopo suona il telefono
Non ho avuto il coraggio di dare il colpo finale.

Traduzione tratta da qui.

Parlare di Misericordia

  

Oragiovane ha un certo coraggio, perché mette le mani in pasta nell’ovvio sapendo che non è affatto tale. E l’ovvio, per molti di noi, è quella istituzione in crisi che è la parrocchia. Ovvio perché molti noi l’hanno relegata al proprio passato idealista e adolescenziale, fatto di “buone cose di pessimo gusto” abbondonate quando si è preteso di divenir grandi. Ovvio perché parlare di preti – non quelli degli scandali o quelli con i super appartamenti – pare noioso e sa di muffa. Eppure la parrocchia, se non si è corrotta dai se e dai ma, rimane uno dei pochi luoghi, come la scuola, in cui non ti scegli con chi stare. Potrebbe essere, e talvolta lo è, una palestra di diversità. Non è fatta per gente con la puzza sotto il naso, con o senza talare. E allora Oragiovane ci prova, a trasformare l’ovvio in conosciuto, e a strutturare un percorso serio, ma non serioso, per i GrEst. Sì, quella cosa con i bambini d’estate. Molti di noi non si rendono conto delle sue potenzialità finché non hanno figli in età scolare. Finché non si rendono conto che i luoghi di socializzazione non sono affatto scontati, né disponibili.

Il tema del 2016 è, in linea con la Chiesa, la Misericordia. E qui sta la sfida, perché non si tratta di UN tema, ma DEL tema. Oragiovane mi affida qualche riflessione, e io ci provo

Metti a Venezia, l’8 di Novembre

Insieme all’aggiornamento dell’immagine della testata (grazie a Sara, da QUI), segnalo due appuntamenti nella città lagunare, il secondo e più tardivo dei quali mi vede come collaboratore. Che cosa li accomuna, a parte il giorno? La creatività.
Alle 17 si inaugura una mostra su Bohumil Hrabal, grande scrittore boemo (clicca sulla foto). Dalle 19,30, a Metricubi, riparte M’Interest (clicca sul poster by StufioFludd).

hrabalSono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis… (QUI il testo completo)

 

 

Essere artigiano, qualunque lavoro si faccia, vuol dire minterest2_spensare a quanto puoi crescere migliorando le tue abilità, ed avere tutto il tempo che serve per riuscirci. Questo non dipende solo dalla motivazione, che è importante ma non sufficiente, ma dal contesto organizzativo, che deve essere favorevole e valorizzare le persone, investendo su di loro a lungo termine. Invece nelle aziende il focus è brevissimo. Il modello artigiano del passato ci insegna una cosa importante: il senso del tempo. Per diventare maestri ai tempi antichi ci volevano anni. (da un’INTERVISTA a Richard Sennett)

 

 

 

Un uomo senza travestimenti. Per don Cristiano Bortoli

donCristianoBortoli

«Sembrava veramente come luomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Così Arturo Paoli descrive il suo maestro dei tempi del noviziato, nel deserto, con i Piccoli Fratelli.
Nei primi anni di università , quando la mia esperienza di chiesa cominciava ad essere messa in crisi da dinamiche parrocchiali sempre più anguste e dal sostanziale isolamento culturale vissuto dalla Fuci, trovai un luogo sicuro presso il Centro Universitario padovano. La sicurezza di cui parlo non aveva tuttavia nulla a che vedere con appartenenze forti o strutture solide e ben avviate. Al contrario, quel che incontravo durante l’Eucarestia del sabato sera e, ancor più forse, nella celebrazione mattutina delle Lodi, era la certezza di una possibilità  fondamentale, e fondativa: l’inesauribile energia della fede come domanda continua.

donCristiano

E’ proprio questo sguardo disarmato, non violento, anti-ideologico ciò che mi torna nella mente e nel cuore, pensando a don Cristiano. Venivo dall’assidua lettura di Turoldo e trovai una persona illuminata che ne citava i versi durante o al termine delle omelie: intuivo la medesima radicalità  del servita, ma con una dolcezza per me nuova. Don Cristiano, durante la consacrazione o per la benedizione finale, aveva un modo tutto suo di aprire le braccia, di spalancarle, precarie e accoglienti nello stesso istante. Non sapendo quando verrà  l’alba, io spalanco ogni porta: una disponibilità  totale nel permetterci di partecipare dei suoi dubbi e interrogativi, nel farli risuonare – da lui a noi – senza vergognarsene mai. La sequela perdeva e caratteristiche del regime, delle rigidità  di una Chiesa vincente e diveniva comunità danzante, fondata sulla misericordia.


Non ho mai avvertito semplice avvicinarmi a don Cristiano e ho spesso avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad uno spirito monastico, pronto per la solitudine, e nello stesso tempo dedito al lasciar essere, ad una tolleranza che sconfinava nella ritrosia. All’alba, nelle mattine degli inverni universitari, suonare al portone di via Zabarella rappresentava un’incognita. Eravamo spesso in due o tre, don Cristiano apriva e, dopo un cenno di saluto, le prime parole che sentivamo erano quelle del breviario di Bose, i cui salmi cercavamo di cantare intuendo una melodia talvolta troppo vaga per non sentirci in imbarazzo. Ma la fatica finiva presto: egli insisteva perché la colazione fosse condivisa, perché salissimo le strette scale fino al primo piano e ci accomodassimo in cucina. Dopo il caffè, don Cristiano si ritirava, come se fosse scontato che era tempo per ognuno di andare al proprio lavoro, al proprio banco di studio.

Aveva un’attenzione particolare per i fermenti della chiesa e della cultura: tra i primi a farci conoscere la liturgia di Taizé e padre Enzo Bianchi, non temeva di annoverare nel calendario delle conferenze del Centro (il cui poster giallo è rimasto tale penso da sempre) personalità  marginali e talvolta scomode, purché genuinamente in ricerca. Era la nostra “cattedra dei non credenti”, uno spirito di ascolto che, nonostante il lento e non semplice passaggio, rimane ancora oggi la cifra del Centro. Ci sono stati anni in cui il salone nobile – o la chiesa di Santa Lucia – non bastavano a contenere le persone, non più solo universitari, o studenti di un tempo, ma gente qualsiasi, bisognosa di parole significative. Sentivo, nei preparativi all’interno della minuscola sagrestia del Corpus Domini, come non amasse esser considerato un riferimento imprescindibile, un “guru”, e che non desiderasse dar peso alle incomprensioni tra i gruppi che in tempi diversi si era trovato ad allevare. Come se volesse, per lo più in silenzio, rimanere solamente un veicolo verso il Maestro, più simile al Battista che non a Pietro.

IsaccoTaize

Gettare lo sguardo sempre al di là : qualcuno avrebbe potuto trovarlo semplicemente eccentrico, specie chi non si fosse fermato ad ascoltarlo. Invero, la sua eccentricità  era radicale: il centro a cui additava non era mai il suo discorso o la sua persona, ma sempre e comunque il Sacro. Ora ci ha preceduti, e nello stesso tempo ci sta alla spalle, come quella figura misteriosa posta dietro al piccolo Isacco delle vetrate di Taizé, che con una mano custodisce, con l’altra spinge verso il sogno del mondo: «guarda fuori al miracolo delle cose, oltre il tuo lavoro».