«Sembrava veramente come l’uomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Così Arturo Paoli descrive il suo maestro dei tempi del noviziato, nel deserto, con i Piccoli Fratelli.
Nei primi anni di università , quando la mia esperienza di chiesa cominciava ad essere messa in crisi da dinamiche parrocchiali sempre più anguste e dal sostanziale isolamento culturale vissuto dalla Fuci, trovai un luogo sicuro presso il Centro Universitario padovano. La sicurezza di cui parlo non aveva tuttavia nulla a che vedere con appartenenze forti o strutture solide e ben avviate. Al contrario, quel che incontravo durante l’Eucarestia del sabato sera e, ancor più forse, nella celebrazione mattutina delle Lodi, era la certezza di una possibilità fondamentale, e fondativa: l’inesauribile energia della fede come domanda continua.
E’ proprio questo sguardo disarmato, non violento, anti-ideologico ciò che mi torna nella mente e nel cuore, pensando a don Cristiano. Venivo dall’assidua lettura di Turoldo e trovai una persona illuminata che ne citava i versi durante o al termine delle omelie: intuivo la medesima radicalità del servita, ma con una dolcezza per me nuova. Don Cristiano, durante la consacrazione o per la benedizione finale, aveva un modo tutto suo di aprire le braccia, di spalancarle, precarie e accoglienti nello stesso istante.
Non sapendo quando verrà l’alba, io spalanco ogni porta: una disponibilità totale nel permetterci di partecipare dei suoi dubbi e interrogativi, nel farli risuonare – da lui a noi – senza vergognarsene mai. La sequela perdeva e caratteristiche del regime, delle rigidità di una Chiesa vincente e diveniva comunità danzante, fondata sulla misericordia.
Non ho mai avvertito semplice avvicinarmi a don Cristiano e ho spesso avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad uno spirito monastico, pronto per la solitudine, e nello stesso tempo dedito al lasciar essere, ad una tolleranza che sconfinava nella ritrosia. All’alba, nelle mattine degli inverni universitari, suonare al portone di via Zabarella rappresentava un’incognita. Eravamo spesso in due o tre, don Cristiano apriva e, dopo un cenno di saluto, le prime parole che sentivamo erano quelle del breviario di Bose, i cui salmi cercavamo di cantare intuendo una melodia talvolta troppo vaga per non sentirci in imbarazzo. Ma la fatica finiva presto: egli insisteva perché la colazione fosse condivisa, perché salissimo le strette scale fino al primo piano e ci accomodassimo in cucina. Dopo il caffè, don Cristiano si ritirava, come se fosse scontato che era tempo per ognuno di andare al proprio lavoro, al proprio banco di studio.
Aveva un’attenzione particolare per i fermenti della chiesa e della cultura: tra i primi a farci conoscere la liturgia di Taizé e padre Enzo Bianchi, non temeva di annoverare nel calendario delle conferenze del Centro (il cui poster giallo è rimasto tale penso da sempre) personalità marginali e talvolta scomode, purché genuinamente in ricerca. Era la nostra “cattedra dei non credentiâ€, uno spirito di ascolto che, nonostante il lento e non semplice passaggio, rimane ancora oggi la cifra del Centro. Ci sono stati anni in cui il salone nobile – o la chiesa di Santa Lucia – non bastavano a contenere le persone, non più solo universitari, o studenti di un tempo, ma gente qualsiasi, bisognosi di parole significative. Sentivo, nei preparativi all’interno della minuscola sagrestia del Corpus Domini, come non amasse esser considerato un riferimento imprescindibile, un “guruâ€, e che non desiderasse dar peso alle incomprensioni tra i gruppi che in tempi diversi si era trovato ad “allevareâ€. Come se volesse, per lo più in silenzio, rimanere solamente un veicolo verso il Maestro, più simile al Battista che non a Pietro.

Gettare lo sguardo sempre al di là : qualcuno avrebbe potuto trovarlo semplicemente eccentrico, specie chi non si fosse fermato ad ascoltarlo. Invero, la sua eccentricità era radicale: il centro a cui additava non era mai il suo discorso o la sua persona, ma sempre e comunque il Sacro. Ora ci ha preceduti, e nello stesso tempo ci sta alla spalle, come quella figura misteriosa posta dietro al piccolo Isacco delle vetrate di Taizé, che con una mano custodisce, con l’altra spinge verso il sogno del mondo: «guarda fuori al miracolo delle cose, oltre il tuo lavoro».