La scuola diventerà un boomer-splaining?

ora-di-lezioneIl “programma di ricerca metafisica” costituito dalla psicanalisi – come lo definiva Karl Raimund Popper -, anche e forse ancor più nelle sue versioni (eterodosse e perciò feconde) junghiana e lacaniana, offre senza dubbio la possibilità  di leggere le dinamiche del presente, e in special modo le relazioni tra adulti e ragazzi.

Così ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, 2014), Massimo Recalcati potrebbe riuscire davvero a darci alcuni strumenti per interpretare parte di quello che avviene, o non avviene ma dovrebbe, nelle classi scolastiche di oggi. La tesi è subito chiara (p. 5): la funzione dell’insegnante è insostituibile. Eppure va ripensata, perché è cambiato il mondo fuori dalle pareti della Scuola, ad opera, soprattutto, di un attore invadente e inarrestabile: il mercato. La logica neoliberista, il capitalismo attuale, produce risposte ai bisogni e, se non ne trova, ne crea di sempre nuovi. Concretizzare questo meccanismo richiede velocità  e competenza: si tratta di saper cogliere ciò di cui ora (non dopo, o domani) c’è richiesta e predisporre la soluzione da vendere, la comunicazione per convincere di questa opportunità , la logistica per farla arrivare “a casa”.

Secondo Recalcati, che si richiama a Pasolini, il trionfo della società  dei consumi ha generato una «pedagogia neoliberale che riduce la Scuola ad un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema» (p. 12). La priorità  data alla performance cognitiva emargina tutto ciò che è deviante, divergente, critico, alternativo, zoppicante Elementi invece necessari in ogni autentico processo di formazione.

Questa critica, di principio condivisibile, intende colpire quel che la Scuola dovrebbe diventare (scuola-azienda con prèsidi-manager; valutazioni standardizzate; diffusione dell’iper-tecnologia) oppure si rivolge a quel che la Scuola per certi aspetti è già  nella misura in cui la centralità  della prestazione ben si comprende nell’ambito della «collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori» (p. 25)? Forse l’alternativa è falsa, per certi versi, e si tratta di due aspetti del medesimo fenomeno. Il trionfo dell’io della/nella Generation-Me, figlia della liberazione 68/77ina (o di un suo esito), si fonda insieme sulla estrema competenza nel focalizzare i desideri e sull’abilità  nel rendere il percorso per esaudirli quanto più lineare possibile. E’ la Scuola-Narciso (pp. 24 e sgg.), che, dopo le barricate della Contestazione, ha preso il posto della versione edipica dell’istituzione formativa (pp. 20 e sgg.).

Non diversamente, Laura Pigozzi, in Mio figlio mi adora (Nottetempo, 2016), sulla scia di Hegel letto da Lacan: «ogni sapere che si vuole tenere al riparo dal coinvolgimento e, quindi, da eros e pathos, è morto, vuoto. Il sapere che conta è quello che è costato la pelle, non quello della prestazione, dell’informazione, dei tecnicismi o dell’obbedienza, ma il sapere legato al rischio, commesso alla passione, che contrasta l’apatia e va in un’altra direzione rispetto all’anestesia contemporanea» (p. 43). Solo il ritiro dei genitori di fronte al percorso dei figli adolescenti (ma anche bambini) può aprire lo spazio necessario di una separazione che sia generativa in senso pieno, quello per cui la creatura è “messa al mondo” e non messa in casa.

Già  – si potrebbe dire, andando oltre questi saggi – ma non tutti i genitori sono disposti a far carte false per spianare la strada ai figli. Ve ne sono di esigenti, sia con loro che con la scuola.
Qui la richiesta performante pare allearsi a quella protettiva di “scuole come una volta”- specie in gruppi sociali benestanti e preoccupati – , e così incrociare e cibarsi fatalmente della tendenza conservatrice (per questioni di età, ma anche di autodifesa) di una parte del corpo insegnante, specie nel sistema dei licei. Creando la curiosa situazione di dirigenti disposti a comprendere (per forza di cose) le istanze di una certa parte dei genitori (narcisi e/o iperprotettivi, o solo in crisi) ma forse in aperto conflitto con porzioni del proprio corpo docente; oppure di docenti che, ripetendo modalità adottate da loro stessi decenni fa o mutuate dai propri insegnanti, si attestano su una frontalità che non è di per sé inefficace (almeno secondo studi di Evidence-based education, per es. QUI), ma che potrebbe non lasciar alcuno spazio al momento di rielaborazione e costruzione condivisa del sapere.
E così, rischiando di dividere i collegi docenti tra presunti docenti-colomba, che in realtà si pongono il problema non di spiegare il mondo, ma di capirlo insieme alla classe e presunti docenti-falco che invocano un maggior rigore (una narrazione riesplosa dopo la fase di restrizione pandemica).

Per i secondi, Dirigenti e Ministero (specie quello della nefanda Buona Scuola) rappresenterebbero quindi fenomeni di “corruzione” della sana istruzione, ormai mercificata e ridotta a test Invalsi, di contro alla maggioranza degli insegnanti (parlo dei segmenti superiori), arroccati sull’aventino. Sono essi davvero la parte più numerosa? Non si sa, ma non solo in occasione delle proteste contro i tentativi ministeriali, molti di costoro impiegano una retorica della minoranza in piena azione resistenziale. Nello stesso tempo, un insegnante o una insegnante che chiede molto rassicura una parte di genitori e insieme li preoccupa, quando vedono la prole «star su fino all’una di notte” (e la prole stessa si sente però ingaggiata) o raccontar loro dei compagni e compagne di classe che si ritirano da scuola (o il darwinismo scolastico è banco di prova del valore di mia figlia, mio figlio?).

Decenni di sacrosanta psicologia dell’apprendimento, dell’età evolutiva, dell’adolescenza sono però arrivati a informare il linguaggio anche di ragazze e ragazzi, che da oggetto non identificato osservato nel microscopio degli adulti, stanno diventando anche soggetto del proprio percorso educativo-formativo. Potrebbero, al rimbrotto, non rispondere più con un grugnito, chiudendosi alle spalle la porta della cameretta, ma rispondere a tono «che cosa vuoi da me, sono un adolescente!». Il meccanismo della ricompensa, struttura fondamentale dei social non è più un ladro che agisce nell’ombra: ragazze e ragazzi lo conoscono, e non ci fanno caso, prendendo semplicemente atto che non trovano alcuno stimolo a stare di fronte ad un’   i n t e r a   pagina di manuale. Il mercato dunque suggerisce video, brevi se possibile (ma nell’ansia preverifica anche una ventina di minuti è accettabile) che ti spiegano le leggi di Keplero o l’eterno ritorno di Nietzsche. La scuola tenta di rispondere con strategie come la flipper-classroom – ottima iniziativa. Ma poi, abbiamo gli strumenti (le griglie per es.) per valutare un dibattito in classe? Se il docente-colomba costruisce un modulo sulla base di un lavoro di gruppo, come potrà valutare la percentuale certa (minima spesso) di alunn* che, indaffarati a recuperare l’altra disciplina, o semplicemente underachiever, lasciano il lavoro a* compagn*? Perché, per gli e le altr*, il voto di un tal lavoro dovrebbe valere al 30, 50, 70 percento, di contro alla classica prova orale o scritta?

Il limite di tutto questo pippone è semplice: i docenti, le docenti, non hanno tempo (voglia?) di aprire uno spazio di riflessione tra loro o con la componente studentesca e genitoriale. O meglio, potrebbe anche accadere (raccontatemelo), ma non è certo prassi comune. E, poiché, in ogni caso, cascasse il mondo, si deve arrivare al numero congruo di valutazioni, che a scuola significa voti numerici (cosa per nulla ovvia), la macchina procede imperterrita. Ragazze e ragazzi (i bambini non ancora) ci osservano e spesso accettano, un po’ perché “si è sempre fatto così” (e la cosa rassicura), un po’ perché sono avvezzi a gente-adulta-che-spiega-loro-cose. AH! Vuoi vedere che – o tempora o mores – gli adulti non hanno più nemmeno il diritto di spiegare le cose? E se fosse proprio questo, il cambio di paradigma?

Un 25 aprile, ad Este

L’amministrazione comunale di Este mi ha chiesto di tenere l’orazione per il Giorno della Liberazione. Questo il testo.

Ho di cuore, e con una certa emozione, accettato l’invito della dottoressa Businarolo, nonostante i tempi stretti, dovuti alla malattia del prof. Angelini, che ringrazio da lontano per il suo impegno nell’ANPI.

Lo scopo di questo discorso è quello di commemorare, cioè di riportare alla memoria. Cum – memorare: rimettere al centro i fatti degni di essere ricordati. Questo è un primo senso della Festa odierna. Ma cum – memorare può essere inteso come il radunare coloro che sono memori, coloro che non dimenticano. Qui ci troviamo perché intendiamo ricordare.

Ecco, la prima fatica è proprio questa: non separare i fatti da ricordare da coloro che si sforzano di riportarli alla memoria. E’ legittima infatti la domanda, che immagino possa essere formulata da una delle ragazze o dei ragazzi che incontro a scuola, nelle ore di storia: ma tu, perché vuoi ricordare questi fatti?

Ma tu, perché vuoi ricordarCI questi fatti?

Se dimentichiamo questa domanda, quei fatti diventano dei fossili. Segni di una vita che non c’è più. Se dimentichiamo questa domanda, i morti vengono sepolti di nuovo, i sopravvissuti sono ridotti a monumento. Se dimentichiamo questa domanda, il motivo per cui essi sono morti, il motivo per cui hanno combattuto – anche se scolpiti nel marmo delle nostre lapidi – vengono ridotti a una delle tante scelte individuali, che in quanti tali, appaiono tutte uguali.

Se dimentichiamo questa domanda, facciamo
della nostra scelta di ricordare
una pratica di retorica.

Permettetemi allora di rifare questa domanda, a partire dalle parole di uno scrittore che si è posto la questione di una narrazione antiretorica della Resistenza e della Guerra civile

Luigi Meneghello,

parole di cui tra qualche giorno potrete godere appieno, nell’iniziativa che la Città di Este ha previsto per il 30 aprile.

Luigi Meneghello, di cui ricordiamo i cento anni dalla nascita.

In Fiori italiani leggiamo

S. sapeva che c’erano “antifascisti”, da tempo ne frequentava uno, una persona che ammirava e da cui era vivamente attratto. Stranamente invece (sembrano cose assurde, ma è la verità) non aveva pensato in modo esplicito che ci fossero dei “fascisti”, separabili dagli altri italiani, salvo in contesti banali, per esempio i professori di ginnastica, o i federali. Si affacciava un pensiero semplice e sconvolgente: S. non sapeva ancora che cosa fosse, ma sentiva con un misto di umiliazione e di paura che stava per saperlo.

Qual è questo PENSIERO SCONVOLGENTE che si affaccia alla mente e al cuore di questo giovane universitario?

Lo leggiamo poco dopo:

Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestri di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora: credevamo di avere incontrato una personalità straordinaria animata da forze miracolose.
Oggi si potrebbe pensare che questo fosse soltanto un riflesso nei nostri occhi: effetto dello shock di avere incontrato un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo.

Lo shock di incontrare un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo.

Il riferimento non è a chi, come per esempio Gobetti, o i fratelli Rosselli, nati tra il 1899 e il 1901, comprendono già nei primi anni Venti quale fosse la direzione presa dall’Italia.
Meneghello, nato nel ’22, l’anno prima della Riforma Gentile della scuola, cresce come fascista: per lui, per la sua generazione, la medesima di Beppe Fenoglio o ancora di Claudio Pavone e di David Maria Turoldo poco più vecchi, il fascismo non è una opzione, è la normalità. E’ l’acqua in cui nuotano i pesci, che di essa nulla sanno, perché sono lì da sempre.

Scrive Meneghello (p. 28)
Quanto al fascismo, la scuola elementare risultava efficace: ciò che c’era da imparare s’imparava in modo definitivo, e non occorreva più tornarci sopra per tutto l’arco degli studi successivi.
e ancora (p. 31), parlando dell’Italia
il fascismo non è al centro: è dappertutto. Il ricordo della lotta ai sovversivi è distanziato, ora sembrano scomparsi (…); da qualunque parte la si guardi, la vita italiana appare fascistizzata senza residui.
Vi è più curiosità che rammarico, in queste parole di Meneghello.

Senza dubbio il fascismo agì come un potere coercitivo, con continuità e poi sistematicità. Ma – a spanne – tra il ’25 e la guerra, agisce nel fascismo anche un’altra forma di potere, ben più efficace, la capacità di PLASMARE IL FUTURO DELLE PERSONE, di prendere il posto nell’anima delle persone, di dar loro l’illusione avere un senso, una qualche collocazione.

«Lo studio dei regimi totalitari
dice lo storico Paul Corner,
suggerisce che violenza/repressione e partecipazione/consenso sono due facce della stessa medaglia (…) La maggior parte della gente probabilmente si trovava a metà: consapevole della brutalità fascista ma anche sensibile ai cambiamenti che il fascismo stava operando (…); non sposò necessariamente le politiche dittatoriali ed espansionistiche, ma era consapevole delle opportunità in termini di benefici personali e per la famiglia. E soprattutto sapeva di non aver scelta: i fascisti controllavano tutto (tranne la Chiesa) e l’accesso a lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, permessi, licenze e così via dipendeva dal non contrastare il regime»

e Geraldine Schwarz, nel saggio I senza memoria. Storia di una famiglia europea
I genitori di mio padre non erano stati né dalla parte delle vittime né da quella dei carnefici. Non si erano segnalati per atti di coraggio, ma non avevano neanche peccato per eccesso di zelo. Erano semplicemente Mitläufer, persone “che seguono la corrente”, conformisti, gregari. Semplicemente: nel senso che il loro atteggiamento era stato quello della maggioranza del popolo tedesco, un accumulo di piccole cecità e piccole viltà che, messe l’una accanto all’altra, avevano creato le condizioni necessarie al compiersi di uno dei peggiori crimini di Stato organizzati che l’umanità abbia conosciuto.

Che cosa era accaduto?
Il potere del regime è stato quello di prendere le organizzazioni, specie giovanili, ma non solo, organizzazioni che avevano avuto un ruolo di unificazione sociale e di averle rese perverse, oppure di crearne altrettante, artificiali e egualmente perverse.

Là dove la perversione non era entrata,

pensiamo ai gruppi clandestini, ai gruppi in carcere o al confino (Il manifesto di Ventotene), pensiamo all’esperienza bellica in Russia di Nuto Revelli, ma anche agli insegnanti sospesi per motivi politici o a molti gruppi cattolici – per esempio parte della Fuci di Aldo Moro – o ancora alla cerchia di persone che gravitava attorno ad Aldo Capitini a Pisa –

in questi contesti era stato conservato lo spazio, direi l’energia mentale e spirituale, per una visione diversa della realtà.

Almeno due sono gli elementi che accomunano questo spazio:

da un lato, l’incontro personale, come quello descritto da Meneghello, con una persona non domata, non gregaria

Giuriolo per Meneghello, Piero Chiodi per Fenoglio, Eugenio Colorni o Nestore Tursi per Pavone, Eugenio Curiel per Turoldo e De Piaz.
Sono solo alcuni.

Ancora Meneghello

Un modo nuovo per fare i vasi ha una sua potenza educativa immediata; ma se si tratta di invece di fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne, non c’è forse altro modo che quello antico, paziente, difficile di esemplarli su modelli viventi. Un metodo che non si può importare, né copiare.
L’influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio.

Dall’altro lato il percepire nella carne e nel sangue una tensione alla libertà, che diventa imperativo, dovere interiore

La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici (p. 168)

E’ la stessa capacità di dire di NO che abita Piero Chiodi quando decide di reagire, o meglio ancora di agire altrimenti (da Banditi)

Una ventina di militi (della Repubblica Sociale Italiana, ndr) caricavano su un camion quattro giovani legati mani e piedi. Ho sentito uno gridare: – No, sono innocente! – Un’ora dopo ho rivisto i militi che cantavano in un caffé. Si è sparsa fulminea la notizia che i quattro giovani sono stati massacrati al Mussotto sul luogo in cui, giorni fa, era stata uccisa una SS.
Non posso trattenermi dall’infilare la bicicletta e recarmi al Mussotto. A cento metri dalla cantoniera, sul bordo della strada, una gran pozza di sangue. Un vecchio cantoniere mi descrive, piangendo come un bambino, la orribile scena. Allontanandosi dice: – E’ meglio morire che sopportare tutto questo.

“Meglio morire” per Piero significa: piuttosto sfidare la morte
perché
e torno a Meneghello

Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di vivere.

Questa libertà, che si concretizza nella Liberazione,
non è UN valore tra tanti valori
è piuttosto un PRINCIPIO
cioè apre una direzione,
nelle parole di Pavone (Una guerra civile)
La ricostruzione di un più profondo sistema di umana solidarietà

o in quelle della non-violenza di Capitini
prendere le distanze da una civiltà che valuta positivamente soltanto chi fa, chi rende, chi è forte, chi è attivo

Non si è trattato di andare solo contro il fascismo, ma anche contro le condizioni che lo hanno permesso.
Non si tratta solo di rifiutare il fascismo, ma di comprendere in che modo esso si ripresenti, come dice Umberto Eco, in abiti civili, o con Foucault, nelle minute forme che fanno l’amara tirannia delle nostre vite quotidiane.
Questa potrebbe essere una riposta valida alla domanda che ci siamo posti all’inizio:
perché ricordare questi fatti?
Perché il compito di ricostruire un più profondo sistema di umana solidarietà non si è ancora concluso.

Grazie.

padre, David

Papa, amore ci ridoni al silenzio.
Dio è silenzio: muriamo
di pietra le porte del tempio
della cella, del cuore. Diremo poi
la sola parola
capace di spegnere l’incendio: dopo,
dopo i lunghi anni di silenzio
di amato, divino, salvatore
silenzio.

Papa, non sappiamo nulla
e ne sapremo ogni giorno di meno.
Nulla della vita, della morte
del tempo; nulla
della fine e del principio.
Forse gli uomini apprenderanno
ancor più dal silenzio,
da una vita murata in silenzio,
offerta, consunta
dal fuoco nel deserto
dell’abbandono e della “Non-curanza”,
il fiore del deserto tra le aride pietre.

Papa, non dire di quanto un uomo è responsabile
e poi lo espropri della sua coscienza. Non dire
di come Dio è coinvolto:
di fronte a un bimbo deforme,
irrimediabilmente deforme,
legittima è la bestemmia.

Papa, non dire di queste cose troppo alte,
di cosa è il tempo e la storia,
e ogni apocalisse e la profezia.
Soli o insieme lo Spirito ci guidi
a ritrovare il metro delle cose.
Ritorni il contemplativo,
uomo della misura: lui solo!

E dopo anni di benedetto silenzio
ritorni a dirci, lui solo
cosa veramente importa. – Ma dopo!

(David Maria Turoldo, + 6 gennaio 1992)

turoldo


All’ombra di nessuna torre

Frammenti dall’11/09

Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

W. Szymborska, Fotografia dell’11 settembre, da “Attimo” (2002)

Materiali per/da Genova_2001

Raccolta di materiali vari ad uso didattico e mnestico, dunque resistenziale (in aggiornamento).

  1. Documentario Carlo Giuliani, ragazzo [link funzionanti al 10/07/21]

2. La trappola
Nel 2006 il Comitato “Piazza Carlo Giuliani” ha prodotto un documentario intitolato La trappola. Da allora lo ha più volte arricchito man mano che si acquisivano nuovi elementi. La trappola Ã¨ oggi il compendio più fruibile delle verità emerse da un enorme, pluriennale lavoro di indagine. Riassume, per dirla con un compagno che conosciamo, “lo stato dell’arte nella ricostruzione della morte di Carlo”. Nelle parole di chi lo ha prodotto, il documentario Â«ricostruisce l’uccisione di Carlo e le violenze efferate compiute sul suo corpo, partendo da tutto ciò che deve essere considerato causa e premessa dell’omicidio». [dal sito di WUMING, qui, dove si trova anche il link all’inchiesta]

https://youtu.be/bC-dy_gp17c

3. La Diaz (e Bolzaneto)
Per capire cosa sia stata: QUI, QUI (audio). Di seguito, il documentario di Carlo A. Bachschmidt.

4. Due podcast benfatti (clicca sull’immagine)

(a cura, tra gli altri, di Jonathan Zenti)

5. Libri (clicca sulla copertina)

6. Sommari e punti della situazione

Wu Ming dal 2009 ma attualissimo QUI

Genova 2001. Un seme sotto la neve – di Alessandro Leogrande QUI

La cura nelle chiacchiere

Il seguito dell’editoriale del numero 121 di Madrugada sarà scaricabile, con il pdf dell’uscita, da questa pagina oppure si può leggere alla pagina del blog di Madrugada.

Il colore dei capelli di Elisa sembra seguire il suo umore: talvolta lo diresti rosso, poi ritorna indeciso e gioca con la luce, come lei con le sue domande. Mi racconta del corso che sta seguendo, in una prestigiosa università del Nordest. Si tratta di una disciplina importante, che il docente affronta parlando fitto in modalità online: più di cento ragazzi di cui si vede un pallino colorato nel rettangolo scuro. Così, per quasi quattro ore di seguito. Su sua accademica richiesta. Elisa si chiede se abbia senso; intanto segue, registra e poi trascrive – anche se gli appunti riproducono cose già dette, reperibili nei manuali o nelle dispense autoprodotte che si comprano in copisteria. 

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Gabriele Salvatores ha l’occhio del fotografo, colui che coglie il momento di singolarità, non ripetibile. Coglie e raccoglie, nel film collettivo â€œFuori era primavera” migliaia di momenti dell’isolamento italiano del 2020, attraverso video inviati o interviste. Tra le molte immagini degli operatori sanitari, una donna spiega con consapevolezza e rigore i limiti della struttura in cui opera. La voce, ferma sino a pochi secondi prima, si incrina, quando ella torna ai familiari dei ricoverati, quindi si ferma, rotta, al pensiero dei malati morti senza poter salutare nessuno.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

La notiziola rimbalza tra i siti che accalappiano click. Un padre canadese, di fronte alla fatica del figlio di accettare e mostrare una vistosa voglia sul torso, si sottopone a trenta ore di operazione per replicare, con un tatuaggio indelebile, la macchia su di sé, proporzionata al torace adulto. Il figlio, felice e confuso, commenta: “ogni volta che c’è papà posso togliermi la maglietta”. Il padre: “adesso avremo gli stessi segni per tutta la vita”.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Sulla collina

The Hill We Climb
When day comes we ask ourselves,
where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry,
a sea we must wade
We’ve braved the belly of the beast
We’ve learned that quiet isn’t always peace
And the norms and notions
of what just is
Isn’t always just-ice
And yet the dawn is ours
before we knew it
Somehow we do it
Somehow we’ve weathered and witnessed
a nation that isn’t broken
but simply unfinished
We the successors of a country and a time
Where a skinny Black girl
descended from slaves and raised by a single mother
can dream of becoming president
only to find herself reciting for one
And yes we are far from polished
far from pristine
but that doesn’t mean we are
striving to form a union that is perfect
We are striving to forge a union with purpose
To compose a country committed to all cultures, colors, characters and
conditions of man
And so we lift our gazes not to what stands between us
but what stands before us
We close the divide because we know, to put our future first,
we must first put our differences aside
We lay down our arms
so we can reach out our arms
to one another
We seek harm to none and harmony for all
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew
That even as we hurt, we hoped
That even as we tired, we tried
That we’ll forever be tied together, victorious
Not because we will never again know defeat
but because we will never again sow division
Scripture tells us to envision
that everyone shall sit under their own vine and fig tree
And no one shall make them afraid
If we’re to live up to our own time
Then victory won’t lie in the blade
But in all the bridges we’ve made
That is the promise to glade
The hill we climb
If only we dare
It’s because being American is more than a pride we inherit,
it’s the past we step into
and how we repair it
We’ve seen a force that would shatter our nation
rather than share it
Would destroy our country if it meant delaying democracy
And this effort very nearly succeeded
But while democracy can be periodically delayed
it can never be permanently defeated
In this truth
in this faith we trust
For while we have our eyes on the future
history has its eyes on us
This is the era of just redemption
We feared at its inception
We did not feel prepared to be the heirs
of such a terrifying hour
but within it we found the power
to author a new chapter
To offer hope and laughter to ourselves
So while we once we asked,
how could we possibly prevail over catastrophe?
Now we assert
How could catastrophe possibly prevail over us?
We will not march back to what was
but move to what shall be
A country that is bruised but whole,
benevolent but bold,
fierce and free
We will not be turned around
or interrupted by intimidation
because we know our inaction and inertia
will be the inheritance of the next generation
Our blunders become their burdens
But one thing is certain:
If we merge mercy with might,
and might with right,
then love becomes our legacy
and change our children’s birthright
So let us leave behind a country
better than the one we were left with
Every breath from my bronze-pounded chest,
we will raise this wounded world into a wondrous one
We will rise from the gold-limbed hills of the west,
we will rise from the windswept northeast
where our forefathers first realized revolution
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states,
we will rise from the sunbaked south
We will rebuild, reconcile and recover
and every known nook of our nation and
every corner called our country,
our people diverse and beautiful will emerge,
battered and beautiful
When day comes we step out of the shade,
aflame and unafraid
The new dawn blooms as we free it
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it
If only we’re brave enough to be it.

Amanda Gorman

Chiedere in prestito occhiali altrui

La cultura della pace ancora oggi si presenta come un’autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un’ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l’aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell’altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l’altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d’odio.

Alessandro Bruni recensisce il libro di Achille Rossi su Panikkar, QUI