La filosofia fuori di sé. La felicità è possibile nella scuola.

Quel che segue è una sorta di sintesi del progetto che, con un gruppo meraviglioso di studentesse e studenti dell’ultimo anno, abbiamo realizzato tra dicembre 2023 e dicembre 2024, in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin. Quel che segue ospita allora un azzardo: la filosofia può sopportare la contraddizione di parlare di felicità anche dopo la morte, senza ridere di essa. E’ un modo per dimostrare come la filosofia sia ancora possibile a scuola e come, con essa, si possa non chiudere gli occhi di fronte alla complessità del presente.

Propriamente nostalgia

«La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque»

Ci sono vari modi per fare filosofia, o per essere filosofi. Quel che mi è stato concesso, è di praticarla a scuola. E a scuola, vi sono altrettanti vari modi di far filosofia.
C’è quello rassicurante – storico e dossologico, la “galleria di opinioni”, la chiama Hegel, per cui “Talete è quello dell’acqua, Anassimandro dell’apeiron, Eraclito del fuoco”. A ciascuno la sua parolina, il suo posto, come barattoli al supermercato. C’è quello dinamico – smart – che si fa concreto soprattutto negli esperimenti di debate, di dialettica muscolare. Quello per cui, si dice, la competizione è la più alta forma di collaborazione.
Tutti hanno punti di forza e tutti sono impiegati con fecondità.
Eppure, se posso, inizio con una poesia e accetto che il discorso si faccia scivoloso, perché i poeti, sapienti di emozioni, sanno giocare con le parole e dunque manipolare. Ma da essi, i filosofi hanno imparato una cosa di importanza capitale, che è proprio quella di scegliere le parole da usare. Nel poeta nessuna parola accade a caso.

Chiedo a Novalis in prestito questa parola e la prendo con me. Nostalgia. Perché prima di tutto so che alcune ragazze e alcuni ragazzi mi mancheranno. Mi mancano di già. E mi mancano le scuse per riveder i loro volti.
Uso Novalis per iniziare, al terzo anno, il percorso della storia della filosofia. Novalis e poi l’interpretazione di Heidegger: la totalità come bisogno di una filosofia che è malattia, che non può fare a meno di cercare. E poi il kosmos greco, quindi l’arché. In quelle prime precarie spiegazioni, gioca un poco ogni volta la nostalgia per le lezioni di chi, all’università, mi ha fatto conoscere queste cose. E’ un passaggio di testimone, forse.

Iniziare con la nostalgia è tuttavia prendersi un impegno, o meglio: fare una promessa. È stabilire un patto con la classe e impegnarsi in prima persona. Ciò che faremo insieme dovrà avere un senso per me, per voi, per noi. Ciò che potrebbe soffiare in questo spazio che è aula è aria diversa, sensazioni da ricordare. Parrà forse insensato ai cinici e ai codardi, quelli che scordano che chi c’è davanti non rimpiangerà le alte torri della verità, ma la fertile pianura dell’esperienza.

Filosofia tra tutte

La domanda quindi è lecita: che c’entra la nostalgia con la scuola? La prima cosa che ci torna in mente degli anni delle superiori sono le nostre compagne e i nostri compagni, le situazioni ironiche o assurde, le pessime figure, la fatica in fondo fatta insieme. Potremo mai avere nostalgia di una verifica di matematica o di storia? Può darsi, ciascuno ha le sue perversioni. Più facilmente, potremmo avere nostalgia di una gita, di una partita di pallavolo contro quelli di 5B, di un lavoro fatto in gruppo, di un dibattito, di un momento in cui in aula ci si è parlati liberamente e col cuore.
La filosofia è necessariamente una materia tra le materie – fa parte della logica dell’istituzione scolastica. Ma non è solo tale. Si badi, questo vale per ciascuna disciplina. La filosofia non è più di qualcos’altro. Semplicemente, sa di non esser di più. Questo è il suo di più. Ora, le discipline diventano altro da materie nell’orario settimanale, quando cogliamo il fatto che chimica o storia dell’arte, elettrotecnica o geografia, matematica o filosofia sono anche e soprattutto linguaggi per comprendere il mondo, per costruire e decostruire il mondo.

«Rifare il mondo, dopo il discorso devastante del mercante», dice Turoldo.

Talvolta, alla fine della quinta ora, mi resta questo briciolo di certezza: non si tratta più di spiegar loro il mondo, quanto piuttosto di capirlo insieme a loro. O la scuola fa sua questa urgenza, o andrà a scomparire per come l’abbiamo conosciuta. Ma, se fa sua questa esigenza, andrà a scomparire per come l’abbiamo conosciuta, perché il come l’abbiamo conosciuta oggi è insufficiente e della scuola per il come l’abbiamo conosciuta non dovremmo avere nostalgia.
Non è un vaticinio, né una minaccia; è una speranza.

Ragionevole speranza

Il Fedone è il dialogo della speranza, vissuto da Socrate mentre il veleno serpeggia e fa il suo implacabile effetto. E’ il dialogo in cui il filosofo e i suoi compagni sperimentano tutti i limiti della logica e in cui si capisce che l’unico modo per vivere il silenzio spettrale della morte è quello di non cederle parola, cioè di cercare ancora parole, ma in altro modo.
Il motivo per cui siamo giunti a questo punto è la morte – puzzolente bastarda, la chiama Hemingway, quando ne avverte l’alito. La morte di Giulia non è stato un pretesto: ragazze e ragazzi, con modalità diversissime, hanno avvertito più che di fronte ad altri, cosiddetti, fatti di cronaca, che qualcosa bisognava fare. Ragazze e ragazzi, sin dalle classi prime, hanno accettato di fermare tutto per mettersi a parlare, accompagnati non da adulti, ma dalle loro compagne e dai loro compagni di quinta. Queste ultime e questi ultimi hanno ragionato su come aprire il discorso senza imporre risposte, su come raccogliere balbettìi e proteste, sofferenze e perplessità. Non ci sono state esperte o esperti, ma solo persone, ciascuna delle quali è di certo la più esperta della propria vita.
Così, l’unico modo per vivere il silenzio della morte è, ad Atene migliaia di anni fa come per noi, quello di parlarne e di parlarsi. Quando mancano la spiegazioni, l’unica via è quella di cambiare linguaggio e cantare insieme – o rivolgersi agli dei se volete. Questo fece Socrate.
Di fronte alla morte del pensiero che l’istituzione-scuola spesso produce, l’unica possibilità è cambiare linguaggio.
Di fronte alla morte di Giulia, l’unica possibilità è stata quella di cambiare linguaggio.
Cambiarlo significa tornare a dargli peso, tornare a ponderare le parole (violenza, patriarcato, ascolto, cura, indifferenza…) senza darle per assodate. Tornare a ricordare che ogni parola ha un sottofondo emotivo, una storia dietro.
Il cambio del linguaggio è stato quello di pensare assieme, di ascoltare/ascoltarci e accettare di non avere soluzioni. Non ha certo potuto alleviare in nulla il peso che grava sui cuori della famiglia di Giulia, e tuttavia, proprio nel rispetto e sulla scia di come essa intende dare fecondità a questa morte, il silenzio della paura non ha prevalso.
La filosofia è tornata alla domanda senza risposta – non vuol dire che non ne abbia, di risposte, ma che possa cercare un senso senza imporle, pur con la sua tragica urgenza di trovarle. «Quando la ragione nacque, nei bei giorni di Grecia – dice Maria Zambrano – fu la depositaria, il veicolo della speranza».

Comune praxis

Abbiamo cercato un senso, e lo abbiamo cercato insieme. I cinici e i codardi, ancora loro, diranno che è insufficiente, che è forse impossibile. Nelle nostre aule serpeggia quel risentimento che Nietzsche, spiega Deleuze, ha cercato di stanare: è quell’atteggiamento per cui, per dirsi buoni, prima di tutto si ha bisogno di individuare “i cattivi”, ciò che è sbagliato, quel che non funziona. Una versione impoverita e volgare della dialettica spinge molte e molti di noi a cercare la rassicurazione di non-essere-come-loro, a sprecare energia in uno scetticismo disperato. Platone non intende arrestarsi al dolore e al silenzio della morte del maestro e, per bocca di Cebete, invoca: «Socrate, prova a convincerci come se effettivamente avessimo paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi che vi fosse in noi un bambino terrorizzato da queste cose. Cerca, quindi, di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio». E’ solo una suggestione forse, ma penso che l’intero sistema platonico nasca dal canto conclusivo di Socrate, nel Fedone. Quasi una ninna nanna per accompagnare i bimbi nel sonno della notte.

Aristotele dimostra che la felicità è nel pensiero, nel pensare, nella nostra capacità più autonoma. La Teoria è la più alta forma di Praxis e Praxis è vita. Certo, dice il Filosofo, si può far da soli, ma quando si fa insieme è forse ancora meglio. Mi affascina questo dubbio aristotelico, questo “forse” in cui si nascondono le ore in discussione con il suo maestro e con i compagni di scuola.
Anche noi abbiamo sperimentato questa forma di felicità nella filosofia. In sostanza, abbiamo camminato insieme.
«Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo?». Così, ascoltando ancora Maria Zambrano, la parola conclusiva va a Fernando Pessoa, poeta:

Se potessi mordere la terra intera
e sentirne il sapore,
sarei per un momento più felice…
Ma io non sempre voglio essere felice.
Ogni tanto è necessario essere infelici
per poter essere naturali…

Non tutti sono giorni di sole,
e la pioggia, quando manca, la si invoca.
Perciò prendo l’infelicità e la felicità
naturalmente, come chi non si sorprende
che esistano monti e pianure,
che esistano rocce ed erba…

L’importante è essere naturali e tranquilli
nella felicità e nella infelicità,
sentire come chi guarda,
pensare come chi cammina,
e in punto di morte, ricordarsi che il giorno
muore,
che il tramonto è bello e bella è la notte che resta…
Così è e così sia…

Questo contributo è stato pensato per questo blog e per un monografico di Madrugada in uscita nel 2025

I bambini sono tornati a giocare?

(Editoriale per Madrugada – giugno 2024)
Tante di voi avranno osservato bambini giocare. E’ una possibilità che capita a molte persone e tuttavia è meno ovvia di quel che appare, e non solo perché ci sono meno creature in giro. Lo è perché adottare una posizione di pura contemplazione, dall’esterno, di un gioco infantile, prevede per un qualche lasso di tempo la sospensione delle azioni di cura. Questo astenersi mi pare difficile, in questi tempi di iper-attenzione spesso ansiosa.
Eppure accade, e quando accade ci si può render facilmente conto almeno di due cose: che buona parte del gioco, per loro, consiste nella preparazione, nell’allestimento del gioco stesso, del suo setting, delle sue regole; che, una volta adottate le parti nel gioco, una volta iniziato il gioco delle parti, per la bambina o il bambino non c’è distinzione tra reale e virtuale. O meglio, è tutto vividamente reale.
Se è vero che lo spirito critico di Macondo aveva anni fa rilanciato l’esigenza di restituire spazio all’infanzia (ricordate “I bambini torneranno a giocare” e lo sguardo di Giuseppe per i bambini stessi?), è altrettanto vero che – nel frattempo – il capitalismo ha superato a destra la nostra sollecitudine, facendo diventare l’infanzia una prodigiosa occasione di mercato. Nella sua diabolica capacità di permeare ogni aspetto dell’esistenza, il capitale ha ingurgitato anche la predisposizione alla cura, costruendo nel contempo condizioni efferate di miopia: i bambini di Gaza non esistono, se non per qualche reel strappa-click.
Laggiù in condizioni non immaginabili, come anche dalle nostre placide parti, i bambini e le bambine continuano a giocare. Come ebbe a scrivere Pessoa: un bambino sa che la logica e il significato/ sono solo un nulla che nulla nasconde, /e un bambino ha la divina consapevolezza /che tutto è un giocattolo e tutto è bello, / un ditale, una pietra e un rocchetto di cotone / sono cose che possiamo sentire perfettamente, / e se ne facciamo degli uomini, /essi sono uomini reali, non fantasie.


Facevamo che eravamo
Ogni gioco, non solo sportivo, ha le sue regole. Sono i limiti e le possibilità che si contrattano, con se stessi o con gli altri partecipanti, nel tempo dedicato. Alcune sono stabilite a priori (non è necessario spiegare prima di ogni partitella cosa faccia il portiere, né quale siano le operazioni da compiere per muovere il personaggio di pixel sul piccolo schermo), per le altre c’è la creatività del momento. Fingersi venditori in un negozio allestito in salotto, principi e draghi, ladri o spie, costruire una tenda con vecchie lenzuola, ombrelli e tappetini, inventare un assist oppure un’astuta finta, o ancora capire come muoversi in un ambiente nuovo di Minecraft sono dimensioni tutto sommato simili. La presenza di determinate possibilità e di altrettanti limiti fa sì che, in situazione di gioco, si assuma una precisa identità: quel che io sono aderisce perfettamente alle condizioni in atto.
Poi l’allenamento termina, l’arbitro dichiara la fine del match, arriva l’ora della merenda o dei compiti – oppure solo si cambia gioco. Più o meno docilmente si esce da quella identità per sperimentarne di diverse, tenendo però come sfondo irrinunciabile tutti gli altri aspetti necessari della vita. Diciamo, della realtà.
Se all’interno del gioco posso aver acquisito le capacità e il potere di realizzarmi (vincere la partita, divertirmi), fuori le esigenze del mondo costringono a rinunciare ad avere sempre la meglio. Se un qualche tipo di pensiero “magico” persiste, se per esempio arrivo tardi al lavoro perché non posso non calpestare tutte le fughe che dividono le mattonelle del marciapiede, verrò invitato prima o poi a prendere atto di una qualche forma di nevrosi. Se l’identità come giocatore seriale tracima dagli spazi ben definiti e diventa senso di intere giornate, si parla di ludopatia. Se, infine, so stare dentro e fuori dal gioco – e posso farlo anche interpretando le incombenze quotidiane come un qualche tipo di gioco, attraversandone così diversi – possiedo al contrario la capacità di distinguere identità e appartenenza. La seconda apre, la prima chiude.


A chi appartengo?
Potrei avvertire come urgente il rigore della meditazione, cercando di realizzarla, ispirato da un maestro zen; potrei continuare a praticare la vita di una comunità cattolica, apprezzandone la potenza dei simboli liturgici, se ben eseguiti, come la potenzialità delle sue iniziative sociali; potrei adottare uno stile di alimentazione quanto meno carnivoro possibile, pur con la nostalgia di grandi abbuffate bovine; potrei apprezzare alcune partite di calcio e insieme cercare di approfondire lo sport del rugby, senza disdegnare i set di pallavolo; potrei restare affascinato dall’eleganza della cultura giapponese e ascoltare il folk irlandese; potrei donare del tempo alle Variazioni Goldberg di Bach, suonate da Gould, e non cambiare stazione radio se inciampo in un notevole pezzo dei Led Zeppelin; potrei pormi, ogni mattina, il problema di non ignorare le ingiustizie sostanziali che persistono vicino e lontano da me, senza abbandonarmi alla narrazione per cui tutto sta andando verso il peggio. Potrei insomma appartenere a tante cose, senza far di nessuna di esse la-mia-identità. Potrei giocare su tanti tavoli, senza diventare dipendente.


Mi viene in mente un brano dell’antropologo Ralph Linton, citato da Marco Aime (Eccessi di culture, 2001), di cui riporto solo la conclusione, che ne conserva lo spirito: «Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera delle sedie e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o
fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano
». Si prega di maneggiare con cura le identità.


Un bel gioco dura poco
Stare dentro e poi fuori dal gioco, per poterne giocare altri, ma in modo mai conclusivo – coltivare le proprie molteplici appartenenze – significa in fin dei conti tollerare il limite fondamentale del game stesso, cioè la possibilità di perdere, di essere sconfitti. Bambine e bambini lo sanno bene, per quanto poi si arrabbino e ci facciano capire la loro delusione: il giorno dopo ricominceranno con gli stessi giochi. Solo quando, un poco più grandi, con l’adolescenza entreranno nella sfida di definire se stesse e se stessi – costruire la propria identità – i giochi si faranno duri, per sé e chi li circonda. La lenta rabbiosa operazione di capire chi si è, chi si desideri essere, chi ci tocchi essere, sembra davvero difficile da prendere come un gioco: ora il come sono passa attraverso il come vengo visto, corpo capelli abbigliamento assumono importanza, il giudizio altrui viene soppesato di sottecchi e poi, sembra, ostentatamente ignorato – ma anche questo è un gioco.
Quando albeggia una certezza, essa diviene capitale (uno sport, la squadra del cuore, il gruppo di amici, una passione – anche scolastica, un amore, una chitarra elettrica).
Dovremmo permetter loro di stare in questa creativa confusione e invece – forse perché, come prof, sono parecchio concentrato su di loro – spesso penso che alcuni tratti della società in cui siamo non siano maturi, ma a loro volta adolescenziali. C’è lo scetticismo di non accettare per buona alcuna verità, o anche solo la realtà delle cose, e insieme l’esigenza continua di costruire conferme alla propria identità. Alcune personalità della politica e dell’economia non hanno in fondo atteggiamenti da super-adolescenti? Le scarpe e i cappellini, nonché l’ottusa autoreferenzialità, dell’Americano; la sicumera anabolizzata dell’Esploratore auto-spaziale; l’offesa prosopopea del Padano; la ridanciana aggressività della Romana. Se smettono di giocare rischiano di perdere molto. E non accade solo perché loro sono personaggi pubblici costruiti (dalla vita e dai propri social media manager). Fate questo gioco: fermatevi a guardare le persone adulte con cui dovete confrontarvi e provate a cogliere prima il bambino, la bambina che è in loro, e poi l’adolescente che le abita – le molteplici appartenenze e il disperato sforzo di essere qualcosa.


A cosa giochiamo?
Tra il momento in cui scrivo e quello in cui leggete accadranno le elezioni europee. Quale sarà l’alternativa? Tra una destra radicale e una destra liberale? PPE e Socialdemocratici incasseranno il colpo o lo subiranno? Prevarrà la nostalgia per i princìpi originari dell’UE o per le soluzioni di forza? Avremo tutto il tempo di esser nauseati dal fiume mediatico dei commenti. Per ora, desidero condividere il criterio che vorrei adottare: nei proclami e nei programmi, cercherò parole che mi suggeriscano cose reali (la famiglia in trasformazione, le migrazioni come dato di fatto umano, la paga oraria delle giovani lavoratrici e dei giovani lavoratori, il denaro effettivamente investito nella salute e nella scuola, gli ambiti di ricerca alimentare o tecnologica in espansione etc.). Mi guarderò invece da chi, parlandomi di fantasie, tornerà ossessivamente sull’unica cosa che fa ben finta di avere: cristiana, occidentale, eterosessuale, bianca – una qualsiasi identità.

La nuova attenzione dei ragazzi

E’ dal 2015 che, periodicamente, escono dotti commenti sull’incapacità giovanile (ormai generalizzata) di concentrarsi piщ di otto secondi consecutivi. E’ nel 2015, d’altronde, che sono venuti fuori i dati di una ricerca condotta da Microsoft secondo la quale l’uso dei social avrebbe alterato per sempre la nostra attenzione. Eppure. Ci pensavo l’altro giorno osservando le mie studentesse e i miei studenti che sono nati con i social, e che leggono poco, e che al cinema ci vanno di rado, e che compulsano giorno e notte TikTok, e che non usano più carta e penna. E che però, l’altro giorno in università, erano attentissimi. Erano quasi due ore che parlavo, me ne sono accorta guardando di sfuggita l’orologio – ma quanto manca alla pausa? pensavo tra me e me, affaticata e stanca – mentre loro continuavano ad ascoltare. Certo, quando insegno, ogni tanto, provo a fare una battuta, sdrammatizzo o cambio discorso, ma le mie lezioni riesco ancora a farle tutte, senza dovermi arrabbiare con gli studenti o essere costretta a terminare prima della fine – ma com’è che alcuni colleghi non ci riescono? Certo, durante le mie ore mostro alcuni video, uso spesso un PowerPoint, proietto qualche estratto di film o una puntata di une serie, però loro partecipano e fanno domande e hanno dubbi e criticano e suggeriscono. E non è vero che dopo solo otto secondi non sono più attenti, non è vero affatto! In fondo, dipende dai temi che si affrontano e dal modo in cui li si affronta, no? Perché poi, se è vero che a forza di stare sui social abbiamo un po’ tutti tendenza a distrarci, è anche vero che siamo molto più capaci di prima di lavorare su svariate questioni simultaneamente, e che il famoso multitasking non è più solo una prerogativa femminile. Come spiega bene Bruce Morton, che è un ricercatore del Brain & Mind Institute dell’Università dell’Ontario, il nostro cervello si sta pian piano adattando a un contesto in cui le informazioni arrivano da ogni parte, e si sta quindi imparando a velocizzare la metabolizzazione delle fonti. Forse, è per questo che alcuni grandi romanzi del passato ci annoiano: troppe descrizioni, troppe lungaggini, qual è esattamente il punto? E’ che siamo tutte e tutti, indipendentemente dall’etа, affascinati dalle serie televisive, anche quando sono in originale e le si deve seguire leggendo i sottotitoli, altro che attenzione degna di un pesciolino rosso! Poi, ovviamente, bisogna fare la tara anche su quest’entusiasmo, spingere i più giovani a utilizzare carta e penna, cancellare e ricominciare, far funzionare la testa anche senza Internet. Perché è vero che non si scrive nello stesso modo quando si digita sulla tastiera di un PC e quando, invece, si utilizza la cara vecchia biro, e che persino il pensiero si srotola in maniera differente; ma anche basta con i rimpianti del passato! C’è del buono pure nella velocità, nel passare da una cosa all’altra e poi magari tornare alla precedente con uno sguardo nuovo e senza scorie.

Michela Marzano 12/11/23 La Stampa

Antiquitas saeculi est juventus mundi. Per Paolo

«Ombra mai fu,

di vegetabile cara

ed amabile soave più»

(G. F. Haendel, Serse)

Distensio animi

Ci sono una voce e un’immagine.

Incastrate in quella zona del corpo situabile all’altezza dello sterno. Né ventre né testa: se Cartesio non si fosse perso dietro ai vaneggiamenti notturni sulla ghiandola pineale, avrebbe individuato qui l’origine vera delle nostre passioni. Qui siamo colpiti e qui ci ritroviamo rannicchiati in quei particolari momenti in cui un odore, un sapore, l’alito di vento sulle guance, l’inflessione data ad una parola, un gesto ci scaraventano fuori dall’ordinato uno-dopo-l’altro dei secondi per portarci in una zona dell’animo senza spazio né tempo.

Fuori di noi – solo in un attimo, ma per l’intera durata di quell’attimo – il resto si ferma, sbiadisce, risulta senza alcuna importanza: l’attività alla quale ci applicavamo perde significato, la persona nostra interlocutrice si fa trasparente, il normale meccanico scorrere dei pensieri si perde e si aggroviglia. Ci troviamo adagiati in una precisissima sensazione che, come una chiave, spalanca la porta del ricordo: un’altra stanza, un altro giorno, un’altra persona. Rivivono.

Fragmenta

La voce è il modo con cui Paolo mi ha sempre chiamato. Non è solo la scelta di un diminutivo – Giovi – ma è quel modo sussurrato di pronunciarlo, carico di sonorità veronese e di affetto palpabile. Mi scopro spesso a riascoltarlo nella memoria: non è un richiamo, un ordine o una richiesta, non ha mai dopo di sé un punto esclamativo, ma è un nome inserito in una frase gentile, un parlar di me sottovoce.

E’ vero forse che i nomi possono diventare simboli, tessere spezzate di cui conserviamo in mano solo una metà monca: dei piccoli segnali che abbiamo presenti e che inviano a ciò che è assente, portandolo qui. Allora questo nome, detto proprio così, è quel che mi rimane del mio essere stato nipote di Paolo.

Non: solo quel che rimane, ma: tutto quel che rimane. Tutto: quello che ci accomunava e ci divideva, i pensieri affini e quelli lontani, le sue giornate in biblioteca al Conservatorio di Verona e le mie nelle aule di filosofia del Liviano a Padova. Non ci sono state parole sufficienti per raccontarci tutto questo, questo tutto. Ma al posto di parole, un nome.

L’immagine è lo zio che avanza sull’erba, per noi due gelati in mano. Un pomeriggio di fine estate, una visita in montagna e quattro chiacchiere all’ombra dei pini del Trentino, ad accogliere i miei nonni lontano dal sole della pianura. Sarebbe stato con noi qualche minuto, seduto in terra, il volto un po’ tirato: faceva la spola tra l’alberghetto e la casa dove altri parenti erano ospitati. La cura: che tutti potessero star bene, meglio possibile. Riconosco adesso quella sua attenzione, quel porsi in silenzio perché tutti trovassero il proprio posto. Un andare e venire perché tutti potessero stare, un guardare dall’alto tutti i frammenti d’affetto per ricostruirne il filo comune, la comune storia.

Ex libris

C’era nel suo fare quotidiano un segno chiaro di ciò che professionalmente lo abitava nel profondo. Paolo era uno storico in un senso radicale, quello per cui questo mestiere non può essere confuso con l’arguzia dell’antiquario o con la nobile arte del rigattiere. Paolo possedeva quello che Marc Bloch, mago francese della storia, ha chiamato il dono delle fate: la capacità di afferrare il vivente, di riconoscere la vita là dove apparentemente essa non è più, cioè nel passato. Il fremito della vita umana è stato l’orizzonte costante di Paolo come storico del teatro e della musica: una ricerca di frammenti di esistenza, fatti di epistolari e dialoghi, di “parrucche e ciacole”, di pizzicagnoli e ciarlatani, di salotti nobili e organi parrocchiali, di segreti e ricette, di fanfare e orchestre da camera, di bande e teatri, dalla Serenissima al Garda.

«In verità – dice Bloch – è sempre alle nostre esperienze quotidiane che, per sfumarle, là dove occorre, di nuovi colori, noi chiediamo in prestito, in ultima analisi, gli elementi che ci servono per ricostituire il passato». Paolo ha attraversato ad occhi aperti il mondo in cui è vissuto e ci lascia una tavolozza con decine di colori inediti: costringe e convince, ora, chi ha fatto parte di quel mondo a ritrovare il filo della propria storia.

«e non capivo che quell’uomo

era il mio volto,

era il mio specchio,

finché non verrà il tempo

in faccia a tutto il mondo

per rincontrarlo»

(F. Guccini, Amerigo)

per don Cristiano

Tra pochi giorni saranno i dieci anni dalla scomparsa di Don Cristiano Bortoli.

QUI il mio ricordo di allora.

Non chiamiamoli
neppure “I morti”
poiché essi sono più vivi dei “vivi”;
E ci sono più vicini e presenti,
E ci vedono dal di dentro…
Chiamiamoli
“Coloro che ci hanno preceduti”
E che attendono anche noi
all’incontro col Signore:
E ora essi stessi
pregano per noi. Amen

Davide Maria Turoldo

Etty Hillesum

“Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano di percorrere le strade verso la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori, col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. Certo, ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia siamo soprattutto noi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. […] Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo si sarà liberato dell’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. E’ l’unica soluzione possibile”.

(grazie Angelo Casati, per questa citazione dal diario)

La scuola diventerà un boomer-splaining?

ora-di-lezioneIl “programma di ricerca metafisica” costituito dalla psicanalisi – come lo definiva Karl Raimund Popper -, anche e forse ancor più nelle sue versioni (eterodosse e perciò feconde) junghiana e lacaniana, offre senza dubbio la possibilità  di leggere le dinamiche del presente, e in special modo le relazioni tra adulti e ragazzi.

Così ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, 2014), Massimo Recalcati potrebbe riuscire davvero a darci alcuni strumenti per interpretare parte di quello che avviene, o non avviene ma dovrebbe, nelle classi scolastiche di oggi. La tesi è subito chiara (p. 5): la funzione dell’insegnante è insostituibile. Eppure va ripensata, perché è cambiato il mondo fuori dalle pareti della Scuola, ad opera, soprattutto, di un attore invadente e inarrestabile: il mercato. La logica neoliberista, il capitalismo attuale, produce risposte ai bisogni e, se non ne trova, ne crea di sempre nuovi. Concretizzare questo meccanismo richiede velocità  e competenza: si tratta di saper cogliere ciò di cui ora (non dopo, o domani) c’è richiesta e predisporre la soluzione da vendere, la comunicazione per convincere di questa opportunità , la logistica per farla arrivare “a casa”.

Secondo Recalcati, che si richiama a Pasolini, il trionfo della società  dei consumi ha generato una «pedagogia neoliberale che riduce la Scuola ad un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema» (p. 12). La priorità  data alla performance cognitiva emargina tutto ciò che è deviante, divergente, critico, alternativo, zoppicante Elementi invece necessari in ogni autentico processo di formazione.

Questa critica, di principio condivisibile, intende colpire quel che la Scuola dovrebbe diventare (scuola-azienda con prèsidi-manager; valutazioni standardizzate; diffusione dell’iper-tecnologia) oppure si rivolge a quel che la Scuola per certi aspetti è già  nella misura in cui la centralità  della prestazione ben si comprende nell’ambito della «collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori» (p. 25)? Forse l’alternativa è falsa, per certi versi, e si tratta di due aspetti del medesimo fenomeno. Il trionfo dell’io della/nella Generation-Me, figlia della liberazione 68/77ina (o di un suo esito), si fonda insieme sulla estrema competenza nel focalizzare i desideri e sull’abilità  nel rendere il percorso per esaudirli quanto più lineare possibile. E’ la Scuola-Narciso (pp. 24 e sgg.), che, dopo le barricate della Contestazione, ha preso il posto della versione edipica dell’istituzione formativa (pp. 20 e sgg.).

Non diversamente, Laura Pigozzi, in Mio figlio mi adora (Nottetempo, 2016), sulla scia di Hegel letto da Lacan: «ogni sapere che si vuole tenere al riparo dal coinvolgimento e, quindi, da eros e pathos, è morto, vuoto. Il sapere che conta è quello che è costato la pelle, non quello della prestazione, dell’informazione, dei tecnicismi o dell’obbedienza, ma il sapere legato al rischio, commesso alla passione, che contrasta l’apatia e va in un’altra direzione rispetto all’anestesia contemporanea» (p. 43). Solo il ritiro dei genitori di fronte al percorso dei figli adolescenti (ma anche bambini) può aprire lo spazio necessario di una separazione che sia generativa in senso pieno, quello per cui la creatura è “messa al mondo” e non messa in casa.

Già  – si potrebbe dire, andando oltre questi saggi – ma non tutti i genitori sono disposti a far carte false per spianare la strada ai figli. Ve ne sono di esigenti, sia con loro che con la scuola.
Qui la richiesta performante pare allearsi a quella protettiva di “scuole come una volta”- specie in gruppi sociali benestanti e preoccupati – , e così incrociare e cibarsi fatalmente della tendenza conservatrice (per questioni di età, ma anche di autodifesa) di una parte del corpo insegnante, specie nel sistema dei licei. Creando la curiosa situazione di dirigenti disposti a comprendere (per forza di cose) le istanze di una certa parte dei genitori (narcisi e/o iperprotettivi, o solo in crisi) ma forse in aperto conflitto con porzioni del proprio corpo docente; oppure di docenti che, ripetendo modalità adottate da loro stessi decenni fa o mutuate dai propri insegnanti, si attestano su una frontalità che non è di per sé inefficace (almeno secondo studi di Evidence-based education, per es. QUI), ma che potrebbe non lasciar alcuno spazio al momento di rielaborazione e costruzione condivisa del sapere.
E così, rischiando di dividere i collegi docenti tra presunti docenti-colomba, che in realtà si pongono il problema non di spiegare il mondo, ma di capirlo insieme alla classe e presunti docenti-falco che invocano un maggior rigore (una narrazione riesplosa dopo la fase di restrizione pandemica).

Per i secondi, Dirigenti e Ministero (specie quello della nefanda Buona Scuola) rappresenterebbero quindi fenomeni di “corruzione” della sana istruzione, ormai mercificata e ridotta a test Invalsi, di contro alla maggioranza degli insegnanti (parlo dei segmenti superiori), arroccati sull’aventino. Sono essi davvero la parte più numerosa? Non si sa, ma non solo in occasione delle proteste contro i tentativi ministeriali, molti di costoro impiegano una retorica della minoranza in piena azione resistenziale. Nello stesso tempo, un insegnante o una insegnante che chiede molto rassicura una parte di genitori e insieme li preoccupa, quando vedono la prole «star su fino all’una di notte” (e la prole stessa si sente però ingaggiata) o raccontar loro dei compagni e compagne di classe che si ritirano da scuola (o il darwinismo scolastico è banco di prova del valore di mia figlia, mio figlio?).

Decenni di sacrosanta psicologia dell’apprendimento, dell’età evolutiva, dell’adolescenza sono però arrivati a informare il linguaggio anche di ragazze e ragazzi, che da oggetto non identificato osservato nel microscopio degli adulti, stanno diventando anche soggetto del proprio percorso educativo-formativo. Potrebbero, al rimbrotto, non rispondere più con un grugnito, chiudendosi alle spalle la porta della cameretta, ma rispondere a tono «che cosa vuoi da me, sono un adolescente!». Il meccanismo della ricompensa, struttura fondamentale dei social non è più un ladro che agisce nell’ombra: ragazze e ragazzi lo conoscono, e non ci fanno caso, prendendo semplicemente atto che non trovano alcuno stimolo a stare di fronte ad un’   i n t e r a   pagina di manuale. Il mercato dunque suggerisce video, brevi se possibile (ma nell’ansia preverifica anche una ventina di minuti è accettabile) che ti spiegano le leggi di Keplero o l’eterno ritorno di Nietzsche. La scuola tenta di rispondere con strategie come la flipper-classroom – ottima iniziativa. Ma poi, abbiamo gli strumenti (le griglie per es.) per valutare un dibattito in classe? Se il docente-colomba costruisce un modulo sulla base di un lavoro di gruppo, come potrà valutare la percentuale certa (minima spesso) di alunn* che, indaffarati a recuperare l’altra disciplina, o semplicemente underachiever, lasciano il lavoro a* compagn*? Perché, per gli e le altr*, il voto di un tal lavoro dovrebbe valere al 30, 50, 70 percento, di contro alla classica prova orale o scritta?

Il limite di tutto questo pippone è semplice: i docenti, le docenti, non hanno tempo (voglia?) di aprire uno spazio di riflessione tra loro o con la componente studentesca e genitoriale. O meglio, potrebbe anche accadere (raccontatemelo), ma non è certo prassi comune. E, poiché, in ogni caso, cascasse il mondo, si deve arrivare al numero congruo di valutazioni, che a scuola significa voti numerici (cosa per nulla ovvia), la macchina procede imperterrita. Ragazze e ragazzi (i bambini non ancora) ci osservano e spesso accettano, un po’ perché “si è sempre fatto così” (e la cosa rassicura), un po’ perché sono avvezzi a gente-adulta-che-spiega-loro-cose. AH! Vuoi vedere che – o tempora o mores – gli adulti non hanno più nemmeno il diritto di spiegare le cose? E se fosse proprio questo, il cambio di paradigma?