I bambini sono tornati a giocare?

(Editoriale per Madrugada – giugno 2024)
Tante di voi avranno osservato bambini giocare. E’ una possibilità che capita a molte persone e tuttavia è meno ovvia di quel che appare, e non solo perché ci sono meno creature in giro. Lo è perché adottare una posizione di pura contemplazione, dall’esterno, di un gioco infantile, prevede per un qualche lasso di tempo la sospensione delle azioni di cura. Questo astenersi mi pare difficile, in questi tempi di iper-attenzione spesso ansiosa.
Eppure accade, e quando accade ci si può render facilmente conto almeno di due cose: che buona parte del gioco, per loro, consiste nella preparazione, nell’allestimento del gioco stesso, del suo setting, delle sue regole; che, una volta adottate le parti nel gioco, una volta iniziato il gioco delle parti, per la bambina o il bambino non c’è distinzione tra reale e virtuale. O meglio, è tutto vividamente reale.
Se è vero che lo spirito critico di Macondo aveva anni fa rilanciato l’esigenza di restituire spazio all’infanzia (ricordate “I bambini torneranno a giocare” e lo sguardo di Giuseppe per i bambini stessi?), è altrettanto vero che – nel frattempo – il capitalismo ha superato a destra la nostra sollecitudine, facendo diventare l’infanzia una prodigiosa occasione di mercato. Nella sua diabolica capacità di permeare ogni aspetto dell’esistenza, il capitale ha ingurgitato anche la predisposizione alla cura, costruendo nel contempo condizioni efferate di miopia: i bambini di Gaza non esistono, se non per qualche reel strappa-click.
Laggiù in condizioni non immaginabili, come anche dalle nostre placide parti, i bambini e le bambine continuano a giocare. Come ebbe a scrivere Pessoa: un bambino sa che la logica e il significato/ sono solo un nulla che nulla nasconde, /e un bambino ha la divina consapevolezza /che tutto è un giocattolo e tutto è bello, / un ditale, una pietra e un rocchetto di cotone / sono cose che possiamo sentire perfettamente, / e se ne facciamo degli uomini, /essi sono uomini reali, non fantasie.


Facevamo che eravamo
Ogni gioco, non solo sportivo, ha le sue regole. Sono i limiti e le possibilità che si contrattano, con se stessi o con gli altri partecipanti, nel tempo dedicato. Alcune sono stabilite a priori (non è necessario spiegare prima di ogni partitella cosa faccia il portiere, né quale siano le operazioni da compiere per muovere il personaggio di pixel sul piccolo schermo), per le altre c’è la creatività del momento. Fingersi venditori in un negozio allestito in salotto, principi e draghi, ladri o spie, costruire una tenda con vecchie lenzuola, ombrelli e tappetini, inventare un assist oppure un’astuta finta, o ancora capire come muoversi in un ambiente nuovo di Minecraft sono dimensioni tutto sommato simili. La presenza di determinate possibilità e di altrettanti limiti fa sì che, in situazione di gioco, si assuma una precisa identità: quel che io sono aderisce perfettamente alle condizioni in atto.
Poi l’allenamento termina, l’arbitro dichiara la fine del match, arriva l’ora della merenda o dei compiti – oppure solo si cambia gioco. Più o meno docilmente si esce da quella identità per sperimentarne di diverse, tenendo però come sfondo irrinunciabile tutti gli altri aspetti necessari della vita. Diciamo, della realtà.
Se all’interno del gioco posso aver acquisito le capacità e il potere di realizzarmi (vincere la partita, divertirmi), fuori le esigenze del mondo costringono a rinunciare ad avere sempre la meglio. Se un qualche tipo di pensiero “magico” persiste, se per esempio arrivo tardi al lavoro perché non posso non calpestare tutte le fughe che dividono le mattonelle del marciapiede, verrò invitato prima o poi a prendere atto di una qualche forma di nevrosi. Se l’identità come giocatore seriale tracima dagli spazi ben definiti e diventa senso di intere giornate, si parla di ludopatia. Se, infine, so stare dentro e fuori dal gioco – e posso farlo anche interpretando le incombenze quotidiane come un qualche tipo di gioco, attraversandone così diversi – possiedo al contrario la capacità di distinguere identità e appartenenza. La seconda apre, la prima chiude.


A chi appartengo?
Potrei avvertire come urgente il rigore della meditazione, cercando di realizzarla, ispirato da un maestro zen; potrei continuare a praticare la vita di una comunità cattolica, apprezzandone la potenza dei simboli liturgici, se ben eseguiti, come la potenzialità delle sue iniziative sociali; potrei adottare uno stile di alimentazione quanto meno carnivoro possibile, pur con la nostalgia di grandi abbuffate bovine; potrei apprezzare alcune partite di calcio e insieme cercare di approfondire lo sport del rugby, senza disdegnare i set di pallavolo; potrei restare affascinato dall’eleganza della cultura giapponese e ascoltare il folk irlandese; potrei donare del tempo alle Variazioni Goldberg di Bach, suonate da Gould, e non cambiare stazione radio se inciampo in un notevole pezzo dei Led Zeppelin; potrei pormi, ogni mattina, il problema di non ignorare le ingiustizie sostanziali che persistono vicino e lontano da me, senza abbandonarmi alla narrazione per cui tutto sta andando verso il peggio. Potrei insomma appartenere a tante cose, senza far di nessuna di esse la-mia-identità. Potrei giocare su tanti tavoli, senza diventare dipendente.


Mi viene in mente un brano dell’antropologo Ralph Linton, citato da Marco Aime (Eccessi di culture, 2001), di cui riporto solo la conclusione, che ne conserva lo spirito: «Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera delle sedie e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o
fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano
». Si prega di maneggiare con cura le identità.


Un bel gioco dura poco
Stare dentro e poi fuori dal gioco, per poterne giocare altri, ma in modo mai conclusivo – coltivare le proprie molteplici appartenenze – significa in fin dei conti tollerare il limite fondamentale del game stesso, cioè la possibilità di perdere, di essere sconfitti. Bambine e bambini lo sanno bene, per quanto poi si arrabbino e ci facciano capire la loro delusione: il giorno dopo ricominceranno con gli stessi giochi. Solo quando, un poco più grandi, con l’adolescenza entreranno nella sfida di definire se stesse e se stessi – costruire la propria identità – i giochi si faranno duri, per sé e chi li circonda. La lenta rabbiosa operazione di capire chi si è, chi si desideri essere, chi ci tocchi essere, sembra davvero difficile da prendere come un gioco: ora il come sono passa attraverso il come vengo visto, corpo capelli abbigliamento assumono importanza, il giudizio altrui viene soppesato di sottecchi e poi, sembra, ostentatamente ignorato – ma anche questo è un gioco.
Quando albeggia una certezza, essa diviene capitale (uno sport, la squadra del cuore, il gruppo di amici, una passione – anche scolastica, un amore, una chitarra elettrica).
Dovremmo permetter loro di stare in questa creativa confusione e invece – forse perché, come prof, sono parecchio concentrato su di loro – spesso penso che alcuni tratti della società in cui siamo non siano maturi, ma a loro volta adolescenziali. C’è lo scetticismo di non accettare per buona alcuna verità, o anche solo la realtà delle cose, e insieme l’esigenza continua di costruire conferme alla propria identità. Alcune personalità della politica e dell’economia non hanno in fondo atteggiamenti da super-adolescenti? Le scarpe e i cappellini, nonché l’ottusa autoreferenzialità, dell’Americano; la sicumera anabolizzata dell’Esploratore auto-spaziale; l’offesa prosopopea del Padano; la ridanciana aggressività della Romana. Se smettono di giocare rischiano di perdere molto. E non accade solo perché loro sono personaggi pubblici costruiti (dalla vita e dai propri social media manager). Fate questo gioco: fermatevi a guardare le persone adulte con cui dovete confrontarvi e provate a cogliere prima il bambino, la bambina che è in loro, e poi l’adolescente che le abita – le molteplici appartenenze e il disperato sforzo di essere qualcosa.


A cosa giochiamo?
Tra il momento in cui scrivo e quello in cui leggete accadranno le elezioni europee. Quale sarà l’alternativa? Tra una destra radicale e una destra liberale? PPE e Socialdemocratici incasseranno il colpo o lo subiranno? Prevarrà la nostalgia per i princìpi originari dell’UE o per le soluzioni di forza? Avremo tutto il tempo di esser nauseati dal fiume mediatico dei commenti. Per ora, desidero condividere il criterio che vorrei adottare: nei proclami e nei programmi, cercherò parole che mi suggeriscano cose reali (la famiglia in trasformazione, le migrazioni come dato di fatto umano, la paga oraria delle giovani lavoratrici e dei giovani lavoratori, il denaro effettivamente investito nella salute e nella scuola, gli ambiti di ricerca alimentare o tecnologica in espansione etc.). Mi guarderò invece da chi, parlandomi di fantasie, tornerà ossessivamente sull’unica cosa che fa ben finta di avere: cristiana, occidentale, eterosessuale, bianca – una qualsiasi identità.

All’ombra di nessuna torre

Frammenti dall’11/09

Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

W. Szymborska, Fotografia dell’11 settembre, da “Attimo” (2002)

Materiali per/da Genova_2001

Raccolta di materiali vari ad uso didattico e mnestico, dunque resistenziale (in aggiornamento).

  1. Documentario Carlo Giuliani, ragazzo [link funzionanti al 10/07/21]

2. La trappola
Nel 2006 il Comitato “Piazza Carlo Giuliani” ha prodotto un documentario intitolato La trappola. Da allora lo ha più volte arricchito man mano che si acquisivano nuovi elementi. La trappola è oggi il compendio più fruibile delle verità  emerse da un enorme, pluriennale lavoro di indagine. Riassume, per dirla con un compagno che conosciamo, «lo stato dell’arte nella ricostruzione della morte di Carlo». Nelle parole di chi lo ha prodotto, il documentario «ricostruisce l’uccisione di Carlo e le violenze efferate compiute sul suo corpo, partendo da tutto ciò che deve essere considerato causa e premessa dell’omicidio». [dal sito di WUMING, qui, dove si trova anche il link all’inchiesta].

Dal sito del Comitato è possibile trarre anche informazioni sui PROCESSI avviati in questi anni: QUI (link dal menù di testa). Sui processi cfr. anche la parte finale della ricostruzione del ILPOST.

3. La Diaz (e Bolzaneto)
Per capire cosa sia stata: QUI, QUI (audio). Di seguito, il documentario di Carlo A. Bachschmidt.

4. Due podcast benfatti (clicca sull’immagine)

(a cura, tra gli altri, di Jonathan Zenti)

5. Libri (clicca sulla copertina)

6. Sommari e punti della situazione

Ricostruzione a cura di Stefano Nazzi de ILPOST.

Wu Ming dal 2009 ma attualissimo QUI

Genova 2001. Un seme sotto la neve – di Alessandro Leogrande QUI

La cura nelle chiacchiere

Il seguito dell’editoriale del numero 121 di Madrugada sarà scaricabile, con il pdf dell’uscita, da questa pagina oppure si può leggere alla pagina del blog di Madrugada.

Il colore dei capelli di Elisa sembra seguire il suo umore: talvolta lo diresti rosso, poi ritorna indeciso e gioca con la luce, come lei con le sue domande. Mi racconta del corso che sta seguendo, in una prestigiosa università del Nordest. Si tratta di una disciplina importante, che il docente affronta parlando fitto in modalità online: più di cento ragazzi di cui si vede un pallino colorato nel rettangolo scuro. Così, per quasi quattro ore di seguito. Su sua accademica richiesta. Elisa si chiede se abbia senso; intanto segue, registra e poi trascrive – anche se gli appunti riproducono cose già dette, reperibili nei manuali o nelle dispense autoprodotte che si comprano in copisteria. 

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Gabriele Salvatores ha l’occhio del fotografo, colui che coglie il momento di singolarità, non ripetibile. Coglie e raccoglie, nel film collettivo â€œFuori era primavera” migliaia di momenti dell’isolamento italiano del 2020, attraverso video inviati o interviste. Tra le molte immagini degli operatori sanitari, una donna spiega con consapevolezza e rigore i limiti della struttura in cui opera. La voce, ferma sino a pochi secondi prima, si incrina, quando ella torna ai familiari dei ricoverati, quindi si ferma, rotta, al pensiero dei malati morti senza poter salutare nessuno.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

La notiziola rimbalza tra i siti che accalappiano click. Un padre canadese, di fronte alla fatica del figlio di accettare e mostrare una vistosa voglia sul torso, si sottopone a trenta ore di operazione per replicare, con un tatuaggio indelebile, la macchia su di sé, proporzionata al torace adulto. Il figlio, felice e confuso, commenta: “ogni volta che c’è papà posso togliermi la maglietta”. Il padre: “adesso avremo gli stessi segni per tutta la vita”.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Chiedere in prestito occhiali altrui

La cultura della pace ancora oggi si presenta come un’autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un’ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l’aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell’altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l’altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d’odio.

Alessandro Bruni recensisce il libro di Achille Rossi su Panikkar, QUI

Città  sommersa

Marta Barone
Città sommersa
Bompiani, 2020

«Il ragazzo corre nella notte». La scena, onirica, del giovane che percorre la città in pigiama e a piedi nudi, mentre tutti dormono, costituisce un ulteriore inizio della storia, che mi permetto di affiancare ai due indicati dall’autrice. Il primo, dedicato alla madre, presenza lieve che consegna, nel libro, poche ma decisive parole: se è vero che è la madre a costruire l’origine della figura del padre nella psiche del figlio, che apre all’incontro con lo straniero per eccellenza, allora lo spazio vuoto, come il «buco in testa» che immediatamente rapisce il lettore, è quello lasciato dalla sospensione di giudizio da parte di questa donna, spazio che permette alla figlia di ricostruire la relazione con il padre ridefinendone la figura.

Il secondo inizio, poche righe sotto, riguarda Marta e parla, a sua volta, di una figura da ridefinire, questa volta la propria, attraverso la ricerca delle informazioni sul papà, ma soprattutto le parole per dirlo e quindi dirsi. Marta dunque, come Atena, viene partorita dalla testa, ma non di Zeus, giacché egli è assente. E’ dunque una sapienza diversa, non trionfante o disvelatrice di verità marziali quanto di possibilità, per lo più irrealizzabili, come le parole che avrebbe potuto scambiare con il padre Leonardo o come le finalità politiche della lotta armata.

Il “terzo inizio“, se lecito, ha il potere di inserire il lettore nel dramma di questa città sommersa che è dramma di una notte di follia omicida, e insieme di anni insanguinati così vicini da sembrare impossibili e di una storia personale di un uomo irregolare, anti-eroico, perché chiamato sempre – da se medesimo – a ripudiare il piano astratto delle teorie rivoluzionarie, pur così attraenti, o delle istituzioni sanitarie, così potenzialmente – borghesemente – comode, attratto dal «diminuire aritmeticamente il dolore del mondo», come avrebbe detto Camus. Un uomo in rivolta, dunque – e per questo incompatibile con i tentati rovesciamenti totali del sistema.

Può essere davvero questo il modo per interloquire con i cosiddetti Anni di piombo, attraverso cioè la memoria individuale, necessariamente famigliare, che non viene ripercorsa in maniera intimista ma con uno sguardo informato sulla storia.
Viene in mente, con diversissimo stile ma eguale intensità, “I Senza memoria”, di Géraldine Schwarz, perché in entrambi i libri non si corteggia mai il lettore, né le sue emozioni. Marta Barone anzi ci interpella lucidamente, costruendo una certa complicità che senza artefizi conduce (o per lo meno mi ha condotto) alla nostalgia per questa persona e per altre come lui, alla fine vittime come la gente che ha sempre difeso.

La corsa del Leonardo giovane uomo richiama un altro attraversamento di città, stavolta davvero onirico, quello di Herlitzka/Moro, in “Buongiorno, notte”, di Marco Bellocchio. Due vicende nate dalla medesima follia, patologica e ideologica allo stesso tempo; lì la passeggiata melanconica cadenzata all’alba da Schubert, dopo le immagini tragiche dei funerali di Stato commentata dai Pink Floyd, qui una fuga con i piedi feriti, in cui “l’unica cosa autentica che irradia la notte è il sangue”, l’unico suono il fiato spezzato, le parole nella testa. Sullo sfondo, due città, Roma e Torino, addormentate, anestetizzate, sommerse dalla mancanza di senso.

Pensieri dal post

Mi guardo attorno, attraverso i vari schermi, e leggo che in tanti si misurano con l’immaginare il mondo, o l’Italia, al termine della crisi. La narrazione del post-virus dunque imperversa, in questa fine marzo a partire dalla cui reclusione sto scrivendo. Quando queste righe saranno su carta, abiteremo già in un qualche segmento di quel post, e allora qualcosa di questi esercizi sarà stato confermato, altro dimenticato, ritrattato.

Mi piacerebbe avere il coraggio di disegnare l’utopia che verrà, percorrere con la mente i sentieri del Giusto e dell’Impossibile, della Bellezza che ancora non esiste. Ma non lo farò, e non solo per incapacità. Più che mai oggi, vorrei trattenermi nel disordine fertile dello scantinato dell’esperienza, quella reale di questi giorni.

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Simposio in tempi di Dad

Uscire dal meccanismo della conferenza, della lezione. Provare ad elaborare un sapere collettivo. Ciò che a scuola è momento di grazia, può accadere anche nell’emergenza.

Non consideri – disse – che unicamente così, contemplando il bello attraverso ciò che lo rende visibile, gli avverrà di generare non immagini (eidola) di virtù, perché non afferra un’apparenza, ma virtù vera, in quanto afferra il vero? E che, avendo procreato e allevato virtù vera, gli sarà possibile diventare caro agli dei, e anch’egli immortale, se mai altro uomo? (Simposio; 212a) Traduzione di MC Pievatolo, QUI

Non aspettatevi risposte. Domande, tante. Nei link seguenti ho cercato di riassumere la sinuosa caoticità del dialogo.

QUI il PRIMO SIMPOSIO
QUI il SECONDO
QUI il TERZO

una cosa antica

Queste righe sono state scritte su invito della Diocesi di Padova, per questa pagina.

Cinque centimetri dalla realtà
Il fatto è che lo star fermi conduce obbligatoriamente ad aumentare il tempo di pensiero. E se nessuno ci ha insegnato come e cosa pensare, noi semplicemente ospiteremo in testa quanto ci troviamo di disponibile, e quindi – di questi tempi, ben prima dell’epidemia – quanto di letteralmente disponibile troviamo tra le mani, scorrendo le schermate del telefono.
Nulla di male. E’ che, direbbe Foster Wallace, non stiamo facendo nessuno sforzo, non stiamo affatto scegliendo a cosa dedicare il tempo, su cosa accendere la luce della ragione. Immersi nello streaming, nel flusso di notizie, meme, video, audio, immagini possiamo persino convincerci di esserci fatti un’idea del mondo.

Possiamo certo alleviare lo spirito, qualora esso sia appesantito dal dolore. Se tuttavia perseveriamo in un costante status di leggerezza, è perché abbiamo scordato il momento esatto in cui tutto è diventato pesante. In cui noi ci siamo fatti pesanti.

Da pesanti a pensanti: si rende necessario uno sforzo, salire un gradino un poco alto, alzarsi dalla sedia. Uno stacco, un’interruzione forzata. La corrente salta, tutto resta buio. Ecco che reagiamo, cerchiamo una candela – metaforica si intende, nulla da mostrare alla finestra.

Se per cause da noi indipendenti ci sia restituito un poco di tempo, usiamolo per prenderci la distanza di cinque centimetri dalla realtà. Per guardarla da fuori.
Ma se ora ci pensiamo, non facciamolo solo per pensarci su – ricadremmo nella corrente e invece abbiamo voluto togliere la spina.

Ecco: la preghiera – questo millenario istituto – è un modo per galleggiare sulla realtà, senza essere palloni gonfiati. E’ un modo per non affogare nella realtà, facendoci un poco più leggeri, non piume, ma pomici.
Prendere le distanze vuol dire prendere atto che anche oggi possiamo mangiare; vuol dire celebrare che siamo qui e possiamo vederci e parlarci; vuol dire confessarci che la notte fa paura, e che possiamo raccontarci i mostri che stanno sotto i letti; vuol dire riportare alla memoria chi non ha nulla di questo, perché è nato in Siria, o in Libia, o…
Vuol dire sentire sul viso, come nella primavera che inizia, il sole, che dice: voi siete figli amati. Da pesanti, a pensanti, a pensati.