La nuova attenzione dei ragazzi

E’ dal 2015 che, periodicamente, escono dotti commenti sull’incapacità giovanile (ormai generalizzata) di concentrarsi piщ di otto secondi consecutivi. E’ nel 2015, d’altronde, che sono venuti fuori i dati di una ricerca condotta da Microsoft secondo la quale l’uso dei social avrebbe alterato per sempre la nostra attenzione. Eppure. Ci pensavo l’altro giorno osservando le mie studentesse e i miei studenti che sono nati con i social, e che leggono poco, e che al cinema ci vanno di rado, e che compulsano giorno e notte TikTok, e che non usano più carta e penna. E che però, l’altro giorno in università, erano attentissimi. Erano quasi due ore che parlavo, me ne sono accorta guardando di sfuggita l’orologio – ma quanto manca alla pausa? pensavo tra me e me, affaticata e stanca – mentre loro continuavano ad ascoltare. Certo, quando insegno, ogni tanto, provo a fare una battuta, sdrammatizzo o cambio discorso, ma le mie lezioni riesco ancora a farle tutte, senza dovermi arrabbiare con gli studenti o essere costretta a terminare prima della fine – ma com’è che alcuni colleghi non ci riescono? Certo, durante le mie ore mostro alcuni video, uso spesso un PowerPoint, proietto qualche estratto di film o una puntata di une serie, però loro partecipano e fanno domande e hanno dubbi e criticano e suggeriscono. E non è vero che dopo solo otto secondi non sono più attenti, non è vero affatto! In fondo, dipende dai temi che si affrontano e dal modo in cui li si affronta, no? Perché poi, se è vero che a forza di stare sui social abbiamo un po’ tutti tendenza a distrarci, è anche vero che siamo molto più capaci di prima di lavorare su svariate questioni simultaneamente, e che il famoso multitasking non è più solo una prerogativa femminile. Come spiega bene Bruce Morton, che è un ricercatore del Brain & Mind Institute dell’Università dell’Ontario, il nostro cervello si sta pian piano adattando a un contesto in cui le informazioni arrivano da ogni parte, e si sta quindi imparando a velocizzare la metabolizzazione delle fonti. Forse, è per questo che alcuni grandi romanzi del passato ci annoiano: troppe descrizioni, troppe lungaggini, qual è esattamente il punto? E’ che siamo tutte e tutti, indipendentemente dall’etа, affascinati dalle serie televisive, anche quando sono in originale e le si deve seguire leggendo i sottotitoli, altro che attenzione degna di un pesciolino rosso! Poi, ovviamente, bisogna fare la tara anche su quest’entusiasmo, spingere i più giovani a utilizzare carta e penna, cancellare e ricominciare, far funzionare la testa anche senza Internet. Perché è vero che non si scrive nello stesso modo quando si digita sulla tastiera di un PC e quando, invece, si utilizza la cara vecchia biro, e che persino il pensiero si srotola in maniera differente; ma anche basta con i rimpianti del passato! C’è del buono pure nella velocità, nel passare da una cosa all’altra e poi magari tornare alla precedente con uno sguardo nuovo e senza scorie.

Michela Marzano 12/11/23 La Stampa

La scuola diventerà un boomer-splaining?

ora-di-lezioneIl “programma di ricerca metafisica” costituito dalla psicanalisi – come lo definiva Karl Raimund Popper -, anche e forse ancor più nelle sue versioni (eterodosse e perciò feconde) junghiana e lacaniana, offre senza dubbio la possibilità  di leggere le dinamiche del presente, e in special modo le relazioni tra adulti e ragazzi.

Così ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, 2014), Massimo Recalcati potrebbe riuscire davvero a darci alcuni strumenti per interpretare parte di quello che avviene, o non avviene ma dovrebbe, nelle classi scolastiche di oggi. La tesi è subito chiara (p. 5): la funzione dell’insegnante è insostituibile. Eppure va ripensata, perché è cambiato il mondo fuori dalle pareti della Scuola, ad opera, soprattutto, di un attore invadente e inarrestabile: il mercato. La logica neoliberista, il capitalismo attuale, produce risposte ai bisogni e, se non ne trova, ne crea di sempre nuovi. Concretizzare questo meccanismo richiede velocità  e competenza: si tratta di saper cogliere ciò di cui ora (non dopo, o domani) c’è richiesta e predisporre la soluzione da vendere, la comunicazione per convincere di questa opportunità , la logistica per farla arrivare “a casa”.

Secondo Recalcati, che si richiama a Pasolini, il trionfo della società  dei consumi ha generato una «pedagogia neoliberale che riduce la Scuola ad un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema» (p. 12). La priorità  data alla performance cognitiva emargina tutto ciò che è deviante, divergente, critico, alternativo, zoppicante Elementi invece necessari in ogni autentico processo di formazione.

Questa critica, di principio condivisibile, intende colpire quel che la Scuola dovrebbe diventare (scuola-azienda con prèsidi-manager; valutazioni standardizzate; diffusione dell’iper-tecnologia) oppure si rivolge a quel che la Scuola per certi aspetti è già  nella misura in cui la centralità  della prestazione ben si comprende nell’ambito della «collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori» (p. 25)? Forse l’alternativa è falsa, per certi versi, e si tratta di due aspetti del medesimo fenomeno. Il trionfo dell’io della/nella Generation-Me, figlia della liberazione 68/77ina (o di un suo esito), si fonda insieme sulla estrema competenza nel focalizzare i desideri e sull’abilità  nel rendere il percorso per esaudirli quanto più lineare possibile. E’ la Scuola-Narciso (pp. 24 e sgg.), che, dopo le barricate della Contestazione, ha preso il posto della versione edipica dell’istituzione formativa (pp. 20 e sgg.).

Non diversamente, Laura Pigozzi, in Mio figlio mi adora (Nottetempo, 2016), sulla scia di Hegel letto da Lacan: «ogni sapere che si vuole tenere al riparo dal coinvolgimento e, quindi, da eros e pathos, è morto, vuoto. Il sapere che conta è quello che è costato la pelle, non quello della prestazione, dell’informazione, dei tecnicismi o dell’obbedienza, ma il sapere legato al rischio, commesso alla passione, che contrasta l’apatia e va in un’altra direzione rispetto all’anestesia contemporanea» (p. 43). Solo il ritiro dei genitori di fronte al percorso dei figli adolescenti (ma anche bambini) può aprire lo spazio necessario di una separazione che sia generativa in senso pieno, quello per cui la creatura è “messa al mondo” e non messa in casa.

Già  – si potrebbe dire, andando oltre questi saggi – ma non tutti i genitori sono disposti a far carte false per spianare la strada ai figli. Ve ne sono di esigenti, sia con loro che con la scuola.
Qui la richiesta performante pare allearsi a quella protettiva di “scuole come una volta”- specie in gruppi sociali benestanti e preoccupati – , e così incrociare e cibarsi fatalmente della tendenza conservatrice (per questioni di età, ma anche di autodifesa) di una parte del corpo insegnante, specie nel sistema dei licei. Creando la curiosa situazione di dirigenti disposti a comprendere (per forza di cose) le istanze di una certa parte dei genitori (narcisi e/o iperprotettivi, o solo in crisi) ma forse in aperto conflitto con porzioni del proprio corpo docente; oppure di docenti che, ripetendo modalità adottate da loro stessi decenni fa o mutuate dai propri insegnanti, si attestano su una frontalità che non è di per sé inefficace (almeno secondo studi di Evidence-based education, per es. QUI), ma che potrebbe non lasciar alcuno spazio al momento di rielaborazione e costruzione condivisa del sapere.
E così, rischiando di dividere i collegi docenti tra presunti docenti-colomba, che in realtà si pongono il problema non di spiegare il mondo, ma di capirlo insieme alla classe e presunti docenti-falco che invocano un maggior rigore (una narrazione riesplosa dopo la fase di restrizione pandemica).

Per i secondi, Dirigenti e Ministero (specie quello della nefanda Buona Scuola) rappresenterebbero quindi fenomeni di “corruzione” della sana istruzione, ormai mercificata e ridotta a test Invalsi, di contro alla maggioranza degli insegnanti (parlo dei segmenti superiori), arroccati sull’aventino. Sono essi davvero la parte più numerosa? Non si sa, ma non solo in occasione delle proteste contro i tentativi ministeriali, molti di costoro impiegano una retorica della minoranza in piena azione resistenziale. Nello stesso tempo, un insegnante o una insegnante che chiede molto rassicura una parte di genitori e insieme li preoccupa, quando vedono la prole «star su fino all’una di notte” (e la prole stessa si sente però ingaggiata) o raccontar loro dei compagni e compagne di classe che si ritirano da scuola (o il darwinismo scolastico è banco di prova del valore di mia figlia, mio figlio?).

Decenni di sacrosanta psicologia dell’apprendimento, dell’età evolutiva, dell’adolescenza sono però arrivati a informare il linguaggio anche di ragazze e ragazzi, che da oggetto non identificato osservato nel microscopio degli adulti, stanno diventando anche soggetto del proprio percorso educativo-formativo. Potrebbero, al rimbrotto, non rispondere più con un grugnito, chiudendosi alle spalle la porta della cameretta, ma rispondere a tono «che cosa vuoi da me, sono un adolescente!». Il meccanismo della ricompensa, struttura fondamentale dei social non è più un ladro che agisce nell’ombra: ragazze e ragazzi lo conoscono, e non ci fanno caso, prendendo semplicemente atto che non trovano alcuno stimolo a stare di fronte ad un’   i n t e r a   pagina di manuale. Il mercato dunque suggerisce video, brevi se possibile (ma nell’ansia preverifica anche una ventina di minuti è accettabile) che ti spiegano le leggi di Keplero o l’eterno ritorno di Nietzsche. La scuola tenta di rispondere con strategie come la flipper-classroom – ottima iniziativa. Ma poi, abbiamo gli strumenti (le griglie per es.) per valutare un dibattito in classe? Se il docente-colomba costruisce un modulo sulla base di un lavoro di gruppo, come potrà valutare la percentuale certa (minima spesso) di alunn* che, indaffarati a recuperare l’altra disciplina, o semplicemente underachiever, lasciano il lavoro a* compagn*? Perché, per gli e le altr*, il voto di un tal lavoro dovrebbe valere al 30, 50, 70 percento, di contro alla classica prova orale o scritta?

Il limite di tutto questo pippone è semplice: i docenti, le docenti, non hanno tempo (voglia?) di aprire uno spazio di riflessione tra loro o con la componente studentesca e genitoriale. O meglio, potrebbe anche accadere (raccontatemelo), ma non è certo prassi comune. E, poiché, in ogni caso, cascasse il mondo, si deve arrivare al numero congruo di valutazioni, che a scuola significa voti numerici (cosa per nulla ovvia), la macchina procede imperterrita. Ragazze e ragazzi (i bambini non ancora) ci osservano e spesso accettano, un po’ perché “si è sempre fatto così” (e la cosa rassicura), un po’ perché sono avvezzi a gente-adulta-che-spiega-loro-cose. AH! Vuoi vedere che – o tempora o mores – gli adulti non hanno più nemmeno il diritto di spiegare le cose? E se fosse proprio questo, il cambio di paradigma?

La cura nelle chiacchiere

Il seguito dell’editoriale del numero 121 di Madrugada sarà scaricabile, con il pdf dell’uscita, da questa pagina oppure si può leggere alla pagina del blog di Madrugada.

Il colore dei capelli di Elisa sembra seguire il suo umore: talvolta lo diresti rosso, poi ritorna indeciso e gioca con la luce, come lei con le sue domande. Mi racconta del corso che sta seguendo, in una prestigiosa università del Nordest. Si tratta di una disciplina importante, che il docente affronta parlando fitto in modalità online: più di cento ragazzi di cui si vede un pallino colorato nel rettangolo scuro. Così, per quasi quattro ore di seguito. Su sua accademica richiesta. Elisa si chiede se abbia senso; intanto segue, registra e poi trascrive – anche se gli appunti riproducono cose già dette, reperibili nei manuali o nelle dispense autoprodotte che si comprano in copisteria. 

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Gabriele Salvatores ha l’occhio del fotografo, colui che coglie il momento di singolarità, non ripetibile. Coglie e raccoglie, nel film collettivo â€œFuori era primavera” migliaia di momenti dell’isolamento italiano del 2020, attraverso video inviati o interviste. Tra le molte immagini degli operatori sanitari, una donna spiega con consapevolezza e rigore i limiti della struttura in cui opera. La voce, ferma sino a pochi secondi prima, si incrina, quando ella torna ai familiari dei ricoverati, quindi si ferma, rotta, al pensiero dei malati morti senza poter salutare nessuno.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

La notiziola rimbalza tra i siti che accalappiano click. Un padre canadese, di fronte alla fatica del figlio di accettare e mostrare una vistosa voglia sul torso, si sottopone a trenta ore di operazione per replicare, con un tatuaggio indelebile, la macchia su di sé, proporzionata al torace adulto. Il figlio, felice e confuso, commenta: “ogni volta che c’è papà posso togliermi la maglietta”. Il padre: “adesso avremo gli stessi segni per tutta la vita”.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Tutti

ESSI, TUTTI LO SANNO

Chiedete ai pittori da marciapiede di Parigi

Chiedete al sole su un cane addormentato

Chiedete ai 3 porcellini

Chiedete al giornalaio

Chiedete alla musica di Donizzetti

Chiedete al barbiere

Chiedete all’assassino

Chiedete all’uomo appoggiato al muro

Chiedete al predicatore

Chiedete all’ebanista

Chiedete al borsaiolo o al prestatore

Su pegno o al soffiatore di vetro

O al venditore di letame o al dentista

Chiedete al rivoluzionario

Chiedete all’uomo che ficca la testa

Nelle fauci d’un leone

Chiedete all’uomo che sgancerà la prossima bomba atomica

Chiedete all’uomo che si crede Cristo

Chiedete alla cutrettola che la sera torna al nido

Chiedete al guardone

Chiedete all’uomo che muore di cancro

Chiedete all’uomo che ha bisogno di un bagno

Chiedete all’uomo con una gamba sola

Chiedete al cieco

Chiedete all’uomo che parla bleso

Chiedete al mangiatore d’oppio

Chiedete al chirurgo tremante

Chiedete alle foglie sulle quali camminate

Chiedete allo stupratore o al bigliettario

Di un tram o a un vecchio che strappa le erbacce nel giardino

Chiedete a una sanguisuga

Chiedete a un domatore di pulci

Chiedete a un mangiatore di fuoco

Chiedete all’uomo più miserabile che riuscite a trovare nel suo miserabile momento

Chiedete a un maestro di judo

Chiedete a un guidatore di elefanti

Chiedete a un lebbroso, un ergastolano, un tisico

Chiedete a un professore di storia

Chiedete all’uomo che non si pulisce mai le unghie

Chiedete a un pagliaccio o alla prima faccia che vedete alla luce del giorno

Chiedete a vostro padre

Chiedete a vostro figlio e al suo figlio futuro

Chiedete a me

Chiedete a una lampadina bruciata in un sacchetto di carta

Chiedete ai tentati, ai dannati, agli stolti,

Ai saggi, agli adulatori

Chiedete ai costruttori di templi

Chiedete agli uomini che non hanno mai portato scarpe

Chiedete a Gesù

Chiedete alla luna

Chiedete alle ombre nel ripostiglio

Chiedete alla falena, al monaco, al pazzo

Chiedete all’uomo che disegna le vignette del “New Yorker”

Chiedete a un pesce rosso

Chiedete a una felce che balla il tiptap

Chiedete alla carta geografica dell’India

Chiedete a un viso gentile

Chiedete all’uomo che si nasconde sotto il vostro letto

Chiedete all’uomo che odiate di più a questo mondo

Chiedete all’uomo che ha bevuto con Dylan Thomas

Chiedete all’uomo che ha allacciato i guantoni di Jack Sharkey

Chiedete all’uomo dalla faccia triste che beve il caffè

Chiedete all’idraulico

Chiedete all’uomo che ogni notte sogna gli struzzi

Chiedete alla maschera di un baraccone

Chiedete al falsario

Chiedete all’uomo che dorme in un vicolo sotto un foglio di carta

Chiedete ai conquistatori di nazioni e pianeti

Chiedete all’uomo che si è appena tagliato un dito

Chiedete a un segnalibro nella Bibbia

Chiedete all’acqua che sgocciola da un rubinetto mentre

Squilla il telefono

Chiedete allo spergiuro

Chiedete alla vernice blu scuro

Chiedete al paracadutista

Chiedete all’uomo col mal di pancia

Chiedete all’occhio divino così mellifluo e lacrimoso

Chiedete al ragazzo che indossa calzoni attillati nell’accademia dispendiosa

Chiedete all’uomo che è scivolato nella vasca

Chiedete all’uomo azzannato dallo squalo

Chiedete a quello che mi ha venduto i guanti spaiati

Chiedete a questi e a tutti quelli che ho lasciato fuori

Chiedete al fuoco al fuoco al fuoco…

Chiedete anche ai bugiardi

Chiedete a chi vi pare quando vi pare il giorno che vi pare

Che stia piovendo o che sia nevicato o che stiate uscendo su una veranda gialla di sole caldo

Chiedete a questo chiedete a quello

Chiedete all’uomo con la cacca d’uccello sui capelli

Chiedete al torturatore d’animali

Chiedete all’uomo che ha visto molte corride in Spagna

Chiedete ai proprietari di cadillac nuove

Chiedete alle celebrità

Chiedete ai timidi

Chiedete agli albini e all’uomo di stato

Chiedete ai padroni di casa e ai giocatori di bigliardo

Chiedete ai cialtroni

Chiedete ai sicari prezzolati

Chiedete ai calvi e ai ciccioni

E agli uomini alti e a quelli bassi

Chiedete agli uomini con un occhio solo,

A quelli sempre arrapati e a quelli no

Chiedete agli uomini che leggono tutti gli articoli di fondo

Chiedete agli uomini che coltivano le rose

Chiedete agli uomini che quasi non sentono dolore

Chiedete ai moribondi

Chiedete a chi falcia il prato e a chi va alla partita di calcio

Chiedete a qualcuno (uno qualsiasi) di questi o a tutti questi

Chiedete chiedete chiedete e tutti vi diranno:

Una moglie brontolona affacciata alla ringhiera è più di quanto un uomo possa sopportare.

Henry Charles “Hank” Bukowski Jr.

Pensieri dal post

Mi guardo attorno, attraverso i vari schermi, e leggo che in tanti si misurano con l’immaginare il mondo, o l’Italia, al termine della crisi. La narrazione del post-virus dunque imperversa, in questa fine marzo a partire dalla cui reclusione sto scrivendo. Quando queste righe saranno su carta, abiteremo già in un qualche segmento di quel post, e allora qualcosa di questi esercizi sarà stato confermato, altro dimenticato, ritrattato.

Mi piacerebbe avere il coraggio di disegnare l’utopia che verrà, percorrere con la mente i sentieri del Giusto e dell’Impossibile, della Bellezza che ancora non esiste. Ma non lo farò, e non solo per incapacità. Più che mai oggi, vorrei trattenermi nel disordine fertile dello scantinato dell’esperienza, quella reale di questi giorni.

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Simposio in tempi di Dad

Uscire dal meccanismo della conferenza, della lezione. Provare ad elaborare un sapere collettivo. Ciò che a scuola è momento di grazia, può accadere anche nell’emergenza.

Non consideri – disse – che unicamente così, contemplando il bello attraverso ciò che lo rende visibile, gli avverrà di generare non immagini (eidola) di virtù, perché non afferra un’apparenza, ma virtù vera, in quanto afferra il vero? E che, avendo procreato e allevato virtù vera, gli sarà possibile diventare caro agli dei, e anch’egli immortale, se mai altro uomo? (Simposio; 212a) Traduzione di MC Pievatolo, QUI

Non aspettatevi risposte. Domande, tante. Nei link seguenti ho cercato di riassumere la sinuosa caoticità del dialogo.

QUI il PRIMO SIMPOSIO
QUI il SECONDO
QUI il TERZO

Galimberti e la questione dell’insegnamento

Adoro quanto Galimberti dice e come lo dice in questo scambio.
Penso che abbia ragione su tutto, sia nella sua parte distruttiva che nelle sue proposte radicali: l’assenza di desiderio, l’empatia necessaria, la conoscenza di base delle dinamiche dell’evoluzione della mente e del corpo degli adolescenti (la mia esperienza è nella secondaria superiore), l’opportuna capacità teatrale e la sua carica vitale, la selezione sulla base di un colloquio che implichi l’insufficienza del mero titolo di laurea, l’emozione come principio dell’apprendimento (su questo, anche Daniela Lucangeli), lo schiacciamento dell’istituzione sulla professione docente, il numero degli alunni per classe, la formazione indispensabile.

Eppure penso che il tutto sia nel complesso sbagliato.
Ciò di cui non si tiene conto- in primo luogo – è che la nostra è scuola di massa, intendendo con questo non una critica alla massificazione dei saperi, quanto la necessità inderogabile di realizzare il principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla nostra Costituzione. La scuola pubblica deve essere per tutti. Ma per tutti (anche in fase di collasso demografico) devono esserci moltissimi insegnanti. Come formare un così alto numero di addetti? Si dirà, giustamente: con l’ingresso di nuove abbondanti risorse e la revisione del processo di entrata. D’accordo.
Ma intanto? Possiamo azzerare la situazione attuale? Evidentemente no. Alcune delle riforme, dei ritocchi, degli ultimi anni cercano di apportare alcune novità, spesso incomprese e criticate senza essere per lo meno capite. Concepisco per esempio l’insistere sulle competenze non tanto come la volontà di aziendalizzare la scuola, o finalizzarla al lavoro, quanto come tentativo di relativizzare un insegnamento costituito da mere nozioni, che tuttavia appare indispensabile nell’ottica della valutazione quantitativa: se dobbiamo mettere un numero dobbiamo partire da una quantità. In questo senso dovremmo formarci di più sulla valutazione formativa, sulla diversificazione delle prove, sulla personalizzazione della richiesta.
E qui entra perfettamente la questione del numero di alunni per classe.

Ma c’è dell’altro. Probabilmente pecco di hybris o di supponenza nell’affermare che quotidianamente cerco di interpretare tutto ciò che di costruttivo Galimberti afferma e di realizzarlo al meglio. Così dico a me stesso nei giorni buoni, così – sempre nei giorni buoni – mi pare mi venga riportato, circa il mio operato, da ragazzi, genitori e talvolta colleghi.
Supponendo sia vero, come possono uno o due insegnanti per consiglio di classe apportare un cambiamento? Nel tempo in cui costruisco una lezione partecipata, che coinvolga il piano emotivo, che venga proposta in modo efficace (io dico: faccio la scimmia), che tenga conto dei ragazzi che ho di fronte, e che soprattutto dia strumenti per indagare se stessi e il mondo di oggi… La maggioranza dei miei colleghi ha fissato una sfilza di compiti e interrogazioni che risucchiano le energie della classe. Mi dice una collega e amica, raccontandomi di una confidenza del figlio: mamma, vorrei poter godere delle cose belle che mi vengono dette in quest’ora, se solo non fossi catturato dall’ansia della verifica dell’ora successiva.
E non possiamo nasconderci, come docenti, dietro alla pretesa di “insegnare a vivere” creando situazioni di stress “che poi la vita blablabla”.

Infine, la cosa che mi fa più paura: la modalità di istruzione che abbiamo costruito nel tempo conduce i ragazzi ad imparare subito una cosa, la strategia migliore per sopravvivere. Sono abilissimi nel comprendere la richiesta e tenersi a galla nel modo più efficace, cioè risultati quanto più alti con lo sforzo minore (non parlo di chi non faccia questo calcolo: egli o ella è in uno di questi due casi, o non ha bisogno della scuola – arriva da sé – oppure ha stabilito con me una qualche relazione di lealtà, di fiducia). Posta sempre la premessa di cui sopra, alcuni di questi ragazzi entrano perfettamente nella modalità “insegnante-tollerante ON” e sostanzialmente sfruttano i miei sforzi. Per fare di meno. Triste, ma accade.

Talvolta penso che tutto quanto di meglio io possa fare è l’opzione migliore per quello studente che ero io (e i miei compagni al Cornaro) trent’anni fa. E che, se è vero che l’insegnamento di Platone è immortale, è altrettanto vero che l’uomo sta cambiando. Non penso per forza che cambi verso il peggio, anche se i toni di Galimberti stesso in altri interventi non sembrano lasciare troppe speranze. Eppure, se mi percepissi senza speranza dovrei decidere di non entrare più in classe. Pertanto continuo, fidando nell’unica risorsa, il lento miglioramento, la paziente convivenza con colleghi alieni a me, la bella alleanza con colleghi, studenti e genitori che credono in altre possibilità.

PS#1: Luca Illetterati mi segnala questo suo intervento di alcuni anni fa, ma sempre valido.


E saranno tanto più duri quanto più sono giovani

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione, ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.
Platone, Apologia di Socrate, trad. it. di Maria Chiara Pievatolo

Leggere il discorso finale di Socrate, per intero, in classe, è una pratica che porto avanti sin quasi dal mio primo anno di insegnamento. Certo, una pratica anomala dal punto di vista didattico: non è in senso stretto un dialogo, genere letterario scelto da Platone e essenziale alla comprensione del suo pensiero; racconta solo alcuni particolari della vita di Socrate, importantissimi per certi versi, ma relativi per lo più al periodo finale della sua esperienza; necessiterebbe della ripresa del contesto politico dell’Atene di allora, cosa che non faccio mai; non riguarda direttamente alcune tematiche che sono molto appetibili per una classe di sedicenni, come l’amore (Il Simposio) o la speranza (il Fedone); occupa molte ore di lezione, ritardando lo svolgimento dell’unico vero idolo ancora in vita nella scuola, il programma.


Eppure ascoltare Socrate che parla, e poi dialogare con lui attraverso l’insegnante, diviene decisivo. Non sempre nello stesso modo: talvolta magicamente d’incanto, altre a scoppio ritardato. Accade quello che, secondo lo storico della filosofia Pierre Hadot, è il cuore di tutto il pensiero antico: «la vera questione che è in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla». Ascoltare dunque l’esistenza di questo antico maestro, in una narrazione imbevuta di ironia e di passione, interpellarla chiedendo chiarimenti, commentarla senza remore, porta i ragazzi, ognuno con il proprio tempo, a fare i conti con se stesso. Perché la fase evolutiva in cui il cervello svolta decisamente, l’adolescenza, «è anche il momento in cui fa la sua comparsa la propensione umana all’autoanalisi», come suggerisce David Bainbridge, il quale sostiene che la complessità dell’Homo sapiens dipenda essenzialmente dall’apparizione dell’adolescenza stessa.
E anche perché non c’è altra età in cui »la Signora vestita di nulla/e che non ha forma», come Gozzano chiama la morte, non venga presa più seriamente come in adolescenza. E Socrate narra la sua vita guardando la fine in faccia, “con gli occhi asciutti/nella notte triste” degli ateniesi.

Poi l’anno scolastico prosegue, costringendo a mirabolanti slalom tra le verifiche e le pagine dei manuali. Ma nel frattempo qualcosa si è attivato, e scava in modo carsico. Per dar voce a questo lavorio del pensiero, ho lanciato la proposta di portare avanti il dialogo con Socrate nelle giornate estive: il vaticinio socratico (quello riportato nelle prime righe di questa pagina) si sta avverando? Ho proposto la scrittura di una riflessione ai membri delle classi a me affidate: chiunque avrebbe potuto intervenire, con la penna o la macchina fotografica. Il risultato sono i pezzi e le immagini che trovate di seguito: non ho rifiutato nulla (non l’avrei comunque fatto) e l’intervento redazionale si è rivelato minimo. Ciascuna delle ragazze, ciascuno dei ragazzi ha lavorato in autonomia, senza il confronto con i pari, né con l’assillo di una valutazione. Qualcuno mi ha solo chiesto una copia della rivista. A fianco, compaiono alcuni scritti “adulti”: si tratta di persone che, di persona o attraverso i loro saggi, ho constatato essere decisamente innamorate dei giovani, della politica, delle domande, della vita degna di essere vissuta.

La raccolta dei testi dei ragazzi esce con il numero di Marzo di Madrugada.

Aule al Pianoterra #7 L’età geniale

Non so se la serie TV sarà all’altezza del libri di Elena Ferrante, né quale sia il valore di questa misteriosa scrittrice. So che molte persone attorno a me, che avverto come “accese”, hanno apprezzato entrambi i prodotti culturali. E che altre, pure intelligenti, li rifiutano, forse perché, affetti da una qualche sindrome “fofica”, allontanano da sé tutto ciò che divenga mainstream.

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Alla fontana di piazza Cesare Battisti

Giac aveva appena deciso di sperimentare le virtù subacquee del suo mini camietto della spazzatura gettandolo nella antica fontana ottagonale al centro di piazza Cesare Battisti. Eccitato, comunicava al mondo che accidenti l’acqua è proprio didda didda, cioè fredda. E pure umida, pensavo mentre, girandomi, in un salto acrobatico tra il Biancaneve Disney e la realtà  mi trovavo di fronte il naso esatto di Brontolo, un tubero bitorzoluto sormontato da due limpidi occhi azzurri. Non era il nano moralista, ma uno splendido vecchietto che, guardandomi, mi fa: cerco mia moglie. Il sorriso ospita un solo molare, che pare vagare nella bocca semiaperta. E’ un guaio, dico io, o forse no. Non intende l’humour da due soldi, ma mi osserva. Poi, girandosi appena, la felpa poggiata sulle spalle si muove e vedo il moncherino del braccio destro. Mi guarda e fa un cenno come a dire: non la posso toccare, l’acqua, con questa mano che non c’è più. E come è successo? Faccio io, avvertendo nella pancia che il discorso si poteva fare. Mio papà  era contadino, giù in Romagna, e alla fine della guerra ha detto che i tedeschi erano andati via e che dovevamo iniziare a fare ordine; tira di qui, spingi di là … Una mina. Gli porta via la mano destra, un occhio, un tratto della gamba e ferisce l’intestino, che verrà  rattoppato in 41 punti. Dovevano lasciarmi là, dice – ma senza nessuna tristezza, né gioia. Un dato di fatto: ero irrecuperabile. E invece mi curano e poi uno dice: questo qui deve studiare. E ho studiato e studiato bene: le maestre si stupivano che capivo le cose, che volevo impegnarmi – non come gli altri mutilati, sa, che li lasciavano perdere. Sa, una famiglia di contadini, abituati a sgobbare. E così sono diventato insegnante: 42 anni ho fatto scuola, matematica e scienze alle inferiori. E non ho mai mandato uno fuori dalla porta, ché se lo vedevo fuori anzi gli dicevo, cosa fai fuori, dai vieni dentro. E quando facevano birichinate, li chiamavo: vien qui, tu. Che fa professore mi manda fuori? Mai fatto. E – mi ripete più volte, e io ci leggo un intero corso di pedagogia – che se li vedevo fuori me li portavo dentro. E aggiunge, col sorriso di sole labbra, non come le professoresse, sa, quelle tutte… (e mi fa un gesto inimitabile in cui vedo schiere di siorette col foulard e la giacchetta appesa alle spalle ossute, col naso grifagno e il lamento pronto). Gli occhi azzurri sono ridenti, e io non so quale dei due non funzioni più, perché sono entrambi pieni di ragazzi incontrati e custoditi. E tanta soddisfazione. Mi scusi sa, che le ho fatto perdere tempo. Adesso devo trovare mia moglie, che se no è un guaio.