Mettere in casa; mettere al mondo

Antonio Polito scrive sul Corriere un pezzo interessante, che dovrebbe destare un certo dibattito.
In sostanza il giornalista porta all’attenzione di tutti una riflessione pungente sul rapporto genitori/figli nell’Italia contemporanea; e per farci comprendere come la situazione dei figli non sia poi così scomoda, elenca una serie di pretese, o di diritti, di cui essi possono godere.

Secondo Il Post, Polito assume alcuni toni paternalistici, pur accusando i genitori proprio di paternalismo.

Ora, se paternalismo è l’atteggiamento di un governo, e quindi mutatis mutandis di un genitore, che protegge i propri cittadini/figli e nello stesso tempo non nutre alcune fiducia nella loro autonomia, è per me importante chiedersi non solo, e forse non tanto, come uscirne, se questa domanda prevede un giudizio senza appello sui genitori stessi, quanto il perché si sia diffuso questo atteggiamento medesimo.

Perché se è vero – e lo dico da insegnante e da persona che frequenta le giovani generazioni al di là dello spritz serale – che è sconsolante osservare come molti ragazzi appaiano collocare se stessi in una posizione di attesa passiva della propria realizzazione, quasi che essa debba “capitare” come una ventura, un caso, una combinazione di coincidenze fortunate, è altrettanto vero che – nella logica mediatica – chi tra di essi prova ad affrontare la complessità di questo mondo, sopportandone le contraddizioni, non riceve alcuna visibilità. Non ottiene cioè né riconoscimento economico, né riconoscimento tout court. Lo sguardo sui figli è insomma confinato in due macro-atteggiamenti, per lo più: il giudizio, alla Polito, per cui “dovresti darti da fare e non lamentarti tanto” oppure la super protezione dei «genitori-orsetto», contro cui scrive Polito stesso, che pretendono di salvare la propria prole da questo mondo brutto e cattivo.

Il sottrarsi al confronto con la realtà non dipende solo dalla campana di vetro costruita attorno al pargolo. Dipende nella stessa misura e con la stessa forza dall’invito a darsi da fare, perché esso contiene ugualmente un messaggio svalutativo. Questa sollecitazione si presenta come invito al confronto con i giovani di altri paesi, meno “mammoni” o “bamboccioni” e più pragmatici. E probabilmente questo contiene un elemento di verità. Ma è curioso che non si vadano a considerare, con la stessa intransigenza, le condizioni di vita delle società indicate come più virtuose. E’ interessante per esempio riflettere sul fatto che una legislazione apparentemente più protettiva, come quella che prevede in alcuni paesi nordici la paternità obbligatoria, si accompagni spesso alla presenza di giovani più intraprendenti.

Insomma, ritengo che i termini della questione non siano centrati. Non si tratta di invitare a “proteggere di meno”, perché l’alternativa a questo atteggiamento, e cioè il giudizio, è già presente e ugualmente infeconda. Penso si tratti di accompagnare all’autonomia. Da un lato assicurare una presenza, dall’altro mostrare con la propria esistenza quotidiana che il punto non è non avere problemi, ma saperli affrontare. Una questione di resilienza. E invece l’immagine minacciosa del futuro, dal quale vorremmo proteggere i figli o che invitiamo loro ad affrontare con i denti, è l’immagine della paura degli adulti medesimi. Che però non sanno di ospitare in sé, perché si ritengono forti e soddisfatti, e in diritto di educare gli altri, e non se stessi.

 

L’ora grande

Tutto continuava come prima, le sentinelle rimanevano al loro posto. camminando su e giù nello spazio prescritto. Gli scrivani copiavano i rapporti facendo scricchiolare le penne e intingendole nel calamaio con il ritmo consueto, ma dal nord stavano arrivando uomini sconosciuti ch’era lecito presumere nemici. Nelle scuderie gli uomini strigliavano le bestie, il camino delle cucine fumava flemmaticamente, tre soldati spazzavano il cortile, ma già incombeva un sentimento acuto e solenne, un’immensa sospensione di animi, come se l’ora grande fosse giunta e nulla più si potesse fermare.

Dino Buzzati, fumatore di pipa, si spense a Milano oggi, quarantanni fa.
Il brano è tratto dal suo celeberrimo Il deserto dei tartari.

 

 

Memoria, 27 gennaio 2012: Oltre la cerimonia

Ricevo dalla Newsletter di Sullasoglia queste righe. L’amico di penna fra Benito sottolinea che ci servono ad andare oltre la cerimonia, per far della memoria cultura.
Aggiungo di mio , su questa linea, alcune parole di Simha Guterman, da Il libro ritrovato (Einaudi).

Anniek Cojean dice che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, ad ogni inizio di anno scolastico, una lettera ai suoi insegnanti:
Caro professore,
 sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere:
camere a gas costruite da ingegneri istruiti; 
bambini uccisi con veleno da medici ben formati;
 lattanti uccisi da infermiere provette;
donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università.
Diffido –quindi – dall’educazione.
 La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
 La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani
.
Tratto da “Les mémoires de la Shoah” di Anniek Cojean (“Le Monde”, 29 aprile 1995).

…Risorgete, maestri tedeschi, Kant ed Hegel, Goethe e Bach! Mettetevi in fila a fianco dei vostri nipotini bruni, ai quali avete affidato la vostra spiritualità, le vostre dottrine filosofiche, i vostri capolavori letterari, le vostre creazioni musicali! Venite a sfilare davanti alle barre d’appoggio delle latrine, tra le baracche A e B. Dopo questa visita, non potrete sciacquarvi le mani né lavarvi il viso umiliato, perché nel campo d’internamento di Soldau, l’acqua è introvabile ed è vietato lavarsi…”.

 

 

 

Dieci (piccoli) inverni

Dieci inverni è il film d’esordio di Valerio Mieli, girato nel 2009.
Ambientato tra Venezia, le colline di Valdobbiadene e Mosca, racconta il lungo incontro di Camilla e Silvestro, un lento avvicinamento che dura appunto dieci anni, il tempo che va dai primi passi universitari all’ingresso nella vita adulta.
Il ritmo narrativo è rallentato e appare simile ad un racconto orale: qualche ora, o giorno, nella vita dei due protagonisti, istantanee raccolte e rubate dallo scorrere del tempo, dal quale sembra che la vita nella sua densa complessità rimanga fuori.
Non che la vicenda non sia complicata, perché complicato è il linguaggio della relazione che i due intrattengono, sempre spinti al passo decisivo, e poi trattenuti da una sorta di analfabetismo emotivo. Parla dell’amore nel tempo contemporaneo? No, se pensiamo che l’immaginario collettivo cinematografico, calcato sulla produzione statunitense, impone prima l’incontro e la fusione fisici, e poi il processo di conoscenza dell’intimità. Il corpo va avanti e decide il ritmo con il suo impulso: ci si prova, ci si sperimenta e se piace, allora si può provare a conoscersi. La storia da questo punto di vista va al contrario e, sebbene prenda avvio in una camera fredda di un’isoletta veneta, dove la precarietà crepuscolare delle pareti non può che spingere le persone a rintanarsi l’uno nell’altra, non concede nulla all’erotismo implicito della convivenza universitaria. Eppure l’immane fatica di dire se stessi – fosse solo una sillaba storta e secca, anche mal detta, su come io sto adesso qui con te – è la cifra dell’amore giovanile (ma non solo) di oggi: Silvestro non sa dire “io ti voglio per me” e Camilla rimane chiusa dietro alla porta dell’attesa. L’esistenza procede a tappe forzate, laurea-lavoro-e-persino-figli, per lei, ma con un altro, amico di Silvestro, dopo un’esperienza di “madre in prestito” con un uomo sposato, in Russia. Che cosa spinge a fare le scelte? Qual è il profondo amor che lega ogni decisione? Metafora del loro rincorrersi, le lumache allevate da Silvestro botanico: lente e inesorabili, dicono come il tempo dell’attesa sembri inumano e infatti, quando Silvestro rinuncia ad aspettare, finiscono in padella, sacrificate ad un’avventura “erasmica” di una notte con un’inglesina.
Venezia rimane malinconia e meravigliosa, espulso il viavai turistico e inquadrata nei suoi mesi più freddi. Persino l’ospedale è bello nella sua decadenza, come i bacari, le calli e le piazzette vuote. Mosca è caotica e lontana e concede una pausa solo nel silenzio dell’immensa biblioteca. Ma i libri non insegnano a vivere.

In particolare
cfr. questa licenza.
(e grazie a saramara per la segnalazione)

 

Mio cucchiaio (da dessert, anyway)

Ti amo, ti amo, è la canzone
e qui comincia la pazzia.

Ti amo, ti amo mio polmone,
ti amo, ti amo mia vite silvestre,
e se l’amore è come il vino:
sei tu la mia predilezione
dalle mani fino ai piedi:
sei la coppa del poi
e la bottiglia del destino.

Ti amo a diritto e a rovescio
e non ho suono né senno
per cantarti la mia canzone,
la mia canzone che non ha fine.

Nel mio violino che stona
te lo dichiara il mio violino
che t’amo, che t’amo mia viola,
mia donnina oscura e chiara,
mio cuore, mia dentatura,
mia chiarità e mio cucchiaio,
mio sale della settimana oscura,
mia luna di finestra chiara.

Pablo Neruda, fumatore di pipa

That prefers darkness to light

Owl
Latin name: Noctua
Other names: Bubo, Bubone, Chouette, Fresaie, Hibou, Huen, Huerans, Huhan, Hulotte, Nicticorax, Night raven, Night-owl, Noctua, Nycticorax, Strix, Ulula
The owl is a dirty bird that prefers darkness to light

(l’immagine della testata è tratta da questo sito)

 

ancora nella notte, come gufi

Questi brani sono tratti dall’omelia di Enzo Bianchi, nella Liturgia della Notte di Natale, a Bose.

Ma c’è soprattutto un’altra ragione per il nostro vegliare nella notte: nella notte noi cantiamo il nostro desiderio della luce. Vivere la liturgia nella notte è fare una battaglia contro la tenebra. Noi affermiamo che crediamo al giorno, che crediamo al nuovo Sole che spunta dall’alto, alla Luce radiosa senza tramonto, alla Stella del mattino. Non a caso tutti i nomi dati a Cristo dai profeti e dalla chiesa nascente evocano la luce. Noi uomini in realtà siamo tutti cercatori di luce, siamo tutti dei ciechi che abbiamo bisogno della luce, siamo creature sempre avvolte nelle tenebre. E anzi, più camminiamo verso la luce, più ci rendiamo conto delle tenebre che ci avvolgono (…).

Quel bambino non poteva parlare, non poteva imporre nulla, non poteva imporsi. Questo è il mistero vero del Natale che sta davanti a noi. E il cristianesimo è proprio la religione che, a differenza di tutte le altre, ci dice che un uomo, nient’altro che un uomo, deve essere da noi colto come un figlio di Dio, come una parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). E un uomo è sempre qualcuno che attende la nostra presenza, il nostro sguardo come dono. Noi questa sera dovremmo sentire quella voce che ci ha accompagnato lungo tutto l’Avvento e che ci accompagnerà anche nel tempo di Natale: «Io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre, io starò con lui e lui con me» (cf. Ap 3,20). Chi lo dice? Chi è colui che dice di stare alla porta? È il bambino di Betlemme? È il Gesù che passava sulle strade di Galilea? È il Signore veniente nella gloria? Sì, ma perché noi riconosciamo il bambino di Betlemme, il Gesù che passa sulle strade di Galilea, il Veniente nella gloria in quanto vivo e risorto, dobbiamo ancora e sempre guardare semplicemente un volto, un uomo che sta davanti a noi. Il Natale ci chiede questo”.