Nascosti portatori di spirito: don Piero Tubino

Il 12 aprile scorso si è spento a Genova don Piero Tubino.
E’ una persona che non ho conosciuto, né incontrato. Ma un amico me ne ha fatto un ritratto semplice e commovente, che riporto.
Mi pare un esempio di chi, lontano, come si dice, dai riflettori, ha seminato tanto.

“Ieri sera qui a Genova è morto don Piero Tubino,
primo direttore di Caritas Genova.
E’ della generazione di Nervo.
Uomo coltissimo, di famiglia agiata,
ha sempre mantenuto un aplomb impeccabile
pur girando come una trottola tra le pieghe della società
e su e giù per i Balcani ai tempi della guerra.
Anni fa siamo stati a Venzone, in Friuli,
zona assegnata ai volontari liguri dopo il sisma del ’76.
C’era ovviamente anche lui,
che al tempo si era occupato dell’emergenza,
e tutti lo circondavano con un affetto commovente.
L’ultimo ricordo che ne ho è di pochi giorni prima del Natale. Con il mio capo, siamo andati a prenderlo dal dentista per riaccompagnarlo in casa di riposo
e così, per trasbordarlo dalla carrozzella allo stretto ascensore e poi viceversa
l’ho preso letteralmente tra le braccia come facevo coi vecchietti da obiettore.
Peso e fragilità al tempo stesso, l’impressione che ne ebbi.
“Verrà il giorno in cui altri ti cingeranno le vesti e ti porteranno dove tu non vuoi…”.

Caro fratello,
più questi uomini se ne vanno,
più è chiaro che, degni o meno,
tocca ogni giorno di più a noi” (D. L.)

Omaggio a Tabucchi

Antonio Tabucchi si è spento a Lisbona. Pessoa può ricordarlo così.
Che i suoi occhi possano veder il sorger del sole.

Va’: non hai niente da perdonare.
Sognare è meglio che vivere.

Ma vedrà il sorgere del sole
colui che lascia ogni cosa incompiuta;
il cui pensiero si allontana dal dover pensare
come il sostituirsi di una maschera.

Solo errerà attraverso valli ancora più verdi
di quelle che splendono dalle finestre
delle favole per bambini
colui che pensa che il mondo si rinnova.

Solo per colui che siede e canta
presso gli steccati dimenticando la propria strada
il passero fatato spiega le sue ali
e i fiori magici crescono più rigogliosi.

Non troverà una mano che nutra
le fonti silenziose del suo desiderio.

Nessuno gli indicherà il ruscello dove
possa appagare la sete dell’infanzia.

Ma vallate ancora più vedi dell’Oggi
e pensieri ancora più cari del Lontano
busseranno alla sua finestra e sveglieranno
la sua freschezza altre seti da appagare.

Così come una silenziosa sartina seduta
alla finestra all’ora del tramonto
in un villaggio sconosciuto
egli non apparterrà a nulla di insano,
ma, incorporea come un augurio,
la sua anima attraverserà come un arcobaleno
i pascoli verde-pioggia del suo perdersi
e la terra diventerà parola.

Fernando Pessoa
Va’: non hai niente da perdonare

La vita è comune

Tolosa – La vita è comune
Ho visto di nuovo che le razze non esistono. Ho visto il ragazzino ebreo, a Tolosa, con la kippà, che piange i bambini uccisi, appoggiato al petto di un uomo che, a capo chino, gli tiene delicatamente la faccia tra le mani. Un braccio di qualcun altro è posato sulla spalla del ragazzo. Si sente il suo pianto, il singhiozzo che lo scuote. Ha l’età millenaria del suo popolo. Ho visto in lui il popolo immenso delle vittime, da tutte le tribù della terra.

Ecco perché le razze non esistono: perché il pianto e il riso sono uguali in tutte le lingue e le culture; perché il dolore e la gioia, coi motivi più diversi, sono uguali in tutti i petti umani, e lo capiscono anche gli occhi di un cane che ci guarda. La vita è comune. Chi uccide lo fa perché è morto: qualche idea morta lo ha avvelenato. Dovremo riportarlo in vita, con tutta la necessaria fatica. Il “non uccidere” è il felice comandamento di vivere. E’ uccidere anche fabbricare armi di distruzione e di dominio, perché la vita è unica, non è divisa in razze, né biologiche né spirituali.

Nessuna religione ha il monopolio della religione.
Nessuna verità è tutta la verità. Nessun popolo, nessuna cultura è l’umanità, e non esiste primato né superiorità tra gli umani che cercano umanità. Le razze e le barriere culturali sono come un centimetro di statura, o il colore del vestito. Sotto, dentro il vestito c’è sempre un essere umano, aperto o chiuso agli umani.

Solo questa è la differenza, questa sì, questa è il problema. Ogni vittima ce lo grida di nuovo: sei umanità aperta o umanità chiusa? Sei armato o pacifico? Sei vivo o sei morto?

(da Enrico Peyretti, mailing-list Sullasoglia)

Marco Biagi

Faccio rimbalzare su COMEGUFI l’articolo preciso de Il Post in occasione dei dieci anni dall’omicidio del giuslavorista Marco Biagi da parte di un commando delle Nuove Brigate Rosse.

Mi viene in mente la scena di “Buongiorno, notte”, di Bellocchio, nella quale di fronte ai dubbi della brigatista interpretata da Maya Sansa, Lo Cascio-Moretti espone la teoria definitiva sull’omicidio di Aldo Moro, non più persona, ma simbolo di un potere da distruggere e in quanto tale oggetto da distruggere. Il collegamento non intende avvicinare Biagi a Moro, come del resto le BR non sono state le Nuove BR, né intende sminuire un dramma a beneficio dell’altro, o viceversa. Ritrovo solamente il medesimo spirito: una ideologia che in nome della (propria) Verità decide la vita e la morte. Qui gli esseri umani di carne e di sangue non esistono più: lo scontro tra idee macella tutto, la presunta rivoluzione nega se stessa affermandosi, cioè rivela la propria essenza di ideologia, di visione mistificata della realtà. Non viene negato solo l’uomo, che è già tutto, ma anche Marx.

il mistero della traduzione

Qualcuno ha detto che tradurre è tradire.
I traditores erano presbiteri ed episcopi cristiani costretti, nei primi secoli d. C., a consegnare i testi sacri alle autorità romane, pur di aver salva la vita. Di qui il senso della parola “traditore” nella sua accezione svalutativa. Che però in senso stretto vuol dire: colui che consegna. Tradire è consegnare, come Cristo consegnato da Giuda, ma anche come chi svela non volendolo un’emozione. Tradurre in realtà è da trans-ducere, che è condurre da un luogo ad un altro e quindi anche da una lingua ad un altro idioma.
Ma per tradurre è necessario affrontare il rischio di tradire: per consegnare alla mia lingua nativa un’opera scritta in un linguaggio da me appreso (o imparato da piccolo e poi approfondito) devo portare il peso, raccolto in ogni singola parola, di una tradizione, di un ethos e nello stesso tempo farlo incontrare con un altra tradizione, un altro ethos. Dalla frizione tra questi due massi, nasce la scintilla della comunicazione tra culture, che è sempre in primo luogo comunicazione tra due individui: il poeta/scrittore e il suo traduttore.
I traduttori sono poeti tanto quanto i poeti, scrittori tanto quanto gli scrittori.

QUI l’omaggio a Svetlana Geier, che viene da alcuni considerata la più grande traduttrice di Dostoevskij in tedesco.
Da parte mia un omaggio alla grazia dell’intelletto femminile, oggi 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna.

 

 

Giusto sul bordo

Anni fa l’associazione Macondo, quella che mi ha dato patria spirituale e intellettuale, aveva stampato una maglietta. Non ne ricordo esattamente lo slogan; parlava di speranza e di rassegnazione, della facilità di passare dalla prima alla seconda, mentre quella è infinita, questa è finita. Limitata.

Ho avuto modo di conoscere una persona che studia alle serali. Qualcuno che senza alcuna faciloneria possa dire: non ho tempo di studiare. Arrivando a casa dal lavoro un’oretta prima dell’inizio della scuola, di fatto ha a disposizione parte del week-end per concentrarsi sui libri.

Si fa un gran parlare di meritocrazia e di “ritorno al merito”. Tante belle parole. Qualsiasi personda dotata di senno non passerebbe gli sprazzi di tempo libero sui libri. Magari su di un libro. Ma su quelli scolastici, no. E a ragione. Questa persona lo sa e non si nasconde dietro un dito. Eppure – senza alcuna retorica -  è un individuo di merito, un individuo che merita. Che cosa?

Che ciò che lo circonda concorra ad un senso.
Certo, il senso è opera individuale, affidata a noi come singoli: la lenta costruzione di una direzione personale con cui dobbiamo ripempire i nostri occhi, originale bussola, per rimmeterci “in sesto”. Ma la fatica – perché di questo si tratta, checché ne dicano gli “adultoni” già sistemati – si quadruplica quando intorno appare tutto dissestato.

Posso aver intuito una stella che orienti il percorso. Ma si fa gelida e ancor più lontana se i parametri che ieri consideravo fermi, stamattina li trovo in cocci. Un coboldo si aggira per le nostre case e nottetempo spinge a terra le cose a noi care, poi si nasconde nello specchio e osserva la nostra faccia al risveglio.

Sono dissestato se constato che l’asse portante della filosofia, mia disciplina di insegnamento, e cioè la domanda, l’azione del domandare, non viene in classe evitata per superficialità, dabbenaggine o pigrizia (che son le prime cose che quando ci mastrocoliamo amiamo rinvenire nei ragazzi), ma perché si teme che l’insegnante “ritorca” contro qualcuno, interrogandolo, la domanda stessa.
Sono dissestato se constato che, nonostante il continuo quotidiano “aritmetico” sforzo, alcuni studenti non riescano a tener fede a pratiche minime di lealtà. Non a grandiosi proclami di fiducia reciproca. Non a solenni impegni in nome del dovere. A piccoli patti; al “siamo d’accordo che”. Che poi non è un accordo privato, ma un banale calendario concordato con l’intera classe.

Ecco. Il dissesto mi pare stia nella condanna che qualcuno ha deciso per questi ragazzi: dovete cavarvela da soli. Che non è la celebrazione delle capacità di autonomia. E’ il trionfo del “ci si salva da soli”. Non è il dover commerciare con la complessità del mondo; non è nemmeno il fallimento di orientamenti pedagogici varii, dal direttivo-autoritario al permissivo-libertario; non è il saggiare l’acqua della società fluida.
E’ la caduta delle ipocrisie dei nostri nonni, loro malgrado s’intende, che vivevano la dimensione della comunità per sentito dire, un copiaincolla di direttive ideologiche di una chiesa, di un partito, di un insieme di valori considerato talmente ovvio da essere spazzato via in meno di mezzo secolo. Avevano ascoltato un teorema pensadolo come giusto, non l’avevano mai davvero sentito.
I figli di quei nonni – che sono i padri e le madri di chi ho in classe – stanno in tre categorie: chi pensa che nulla sia cambiato, e arranca e si lamenta e insegna la rassegnazione; chi ha capito che nessuno ha mai creduto davvero alla favola del “vivere insieme” (poco importa se qualcheduno vi ha perso la vita o la salute) e quindi addestra i propri cuccioli ad essere animali solitari; chi non ha mai abitato un assoluto e adesso come allora resiste.

L’individuo è rassegnazione, la soddisfazione è rassegnazione, la grettezza è rassegnazione. La relazione è resistenza, la curiosità è resistenza, la passione-con è resistenza. Tra me e te, tra noto e ignoto, tra l’essere posseduto da una musa e il voler cercare insieme il linguaggio migliore: sempre e comunque la vita sta sul bordo.

Germi di salvezza universale

Sul “Corriere della Sera” del 18 febbraio scorso, Guido Ceronetti scrive un articolo denso, che si rivela provocatorio solo per chi avesse il tempo di intenderlo. Gioca infatti interamente sul binomio pazienza/comprensione del mondo, anche se titolo (Un servizio civile come antidoto alla brama del posto) e sottotitolo (I guai della disoccupazione mentale) parrebbero andare in altra direzione.

La proposta di Ceronetti non è nuova, ma raramente – mi pare – è stata presa sul serio: istituire un servizio civile obbliglatorio per maschi e femmine, italiani d’origine o acquisiti, da svolgersi tra i 18 e i 20 anni.

“Voglio accennare al mai disoccupato problema della disoccupazione giovanile, stufo di sentirne trattare con adulazione oscurante e retoricaccia di finta compassione, lontano da ogni buon senso. Perché questo ho veduto. La fine della dannatissima naja (il servizio militare costituzionalmente obbligatorio) ha nociuto ai giovani maschi italiani. L’esercito ridotto e a base volontaria era la soluzione più giusta e razionale: ma tra i diciotto e i venti anni per innumerevoli altri si è aperto uno sbadiglio di noia, frustrazione, poltroneria, caccia nevrotica del posto sfruttata per fini di potere da falsi amici avidi di consenso facile, di voto futuro. La mia proposta di utopistico bene sociale è di istituire un servizio civile ovviamente disarmato per tutti i giovani, uomini e donne di diciotto-diciannove e vent’ anni, della durata di un anno e mezzo, fatto di servizi utili alla collettività, apprendimento di mestieri, studio, giochi, sport, teatro, pronto impiego nelle calamità. I figli degli immigrati con cittadinanza italiana ne farebbero parte alla pari e insieme con tutti gli altri”.

Non so se nelle cose accade davvero che ci si lanci, terminata la secondaria di secondo grado, alla ricerca del posto. Temo che un certo numero di ragazzi intercetti piuttosto le altre possibilità evocate: noia, frustrazione, poltroneria. Confezionate talvolta con l’abito rispettabile di un corso universitario.
Ma la statistica non è il cuore della questione. Quel che Ceronetti evoca è la deificazione del “mercato del lavoro”, quale unico orizzonte di senso possibile. Certo: lavorare bisogna, e persino lavorare è bello, ancorché stanchi. Ma la logica del mercato applicata a tutto (lo spot della “MasterCard” sembra innocuo, ma rivela la potenza che il denaro possiede di divenire metro di giudizio del cosmo), svuota il significato del lavoro come veicolo di creatività trasformativa della terra, perché il lavoro diviene mezzo per il denaro, cioè per l’acquisto, e quindi la risoluzione di bisogni (più o meno indotti).

Ceronetti, correttamente – ma ben lungi dall’accarezzare il cosiddetto politically correct, elegante maniera per dire che rinunciamo a scannarci dicendo come le cose stanno perché gli interessi comuni alle due parti sono più invitanti – denuncia sin dalle prime righe il posto che si è preso e che non gli verrà tolto,

l’idea che, lavorando nella parola, piegando a dare musica il ferro del verbo poetico, dispiegando ai crocicchi e sulle piazze filosofia etica, fumata fino all’intossicazione con la pipa del povero giudeo portoghese Baruch Spinoza – si potrebbe produrre il miracolo di una particella minima di bene sociale, in cui fermentassero germi di salvezza universale”.

Delinea da subito il manifesto dell’inutilità, proprio di poesia e filosofia. O meglio, dell’apparente inservibilità, in quanto incommerciabilità, di esse. Espulse loro, come Spinoza dalle chiese-sinagoghe-congregazioni di mezz’Europa, però, espelleremo anche la sana capacità di attendere, lavoro o amore non importa, la possbilità di non divorare il mondo, e quindi noi stessi, gli uni gli altri.
Ecco che l’azione civile di un servizio annuale dedicato ad altri avrebbe la funzione di antidoto alla corsa insensata: una sorta di poesia delle mani, di filosofia delle relazioni, per imparare ad aspettare.

(QUI, l’articolo completo)