Metti a Venezia, l’8 di Novembre

Insieme all’aggiornamento dell’immagine della testata (grazie a Sara, da QUI), segnalo due appuntamenti nella città lagunare, il secondo e più tardivo dei quali mi vede come collaboratore. Che cosa li accomuna, a parte il giorno? La creatività.
Alle 17 si inaugura una mostra su Bohumil Hrabal, grande scrittore boemo (clicca sulla foto). Dalle 19,30, a Metricubi, riparte M’Interest (clicca sul poster by StufioFludd).

hrabalSono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis… (QUI il testo completo)

 

 

Essere artigiano, qualunque lavoro si faccia, vuol dire minterest2_spensare a quanto puoi crescere migliorando le tue abilità, ed avere tutto il tempo che serve per riuscirci. Questo non dipende solo dalla motivazione, che è importante ma non sufficiente, ma dal contesto organizzativo, che deve essere favorevole e valorizzare le persone, investendo su di loro a lungo termine. Invece nelle aziende il focus è brevissimo. Il modello artigiano del passato ci insegna una cosa importante: il senso del tempo. Per diventare maestri ai tempi antichi ci volevano anni. (da un’INTERVISTA a Richard Sennett)

 

 

 

Se ne parli, sempre.

Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione.

Giovedì 3 Ottobre, alle 18.00 presso il Centro Universitario di via Zabarella, a Padova, Lorenza Carlassare e Giovanni Palombarini discuteranno La via maestra, un documento redatto in previsione della Manifestazione del 12 Ottobre sull’applicazione della nostra Carta Costituzionale (documento di cui ho riportato le prime righe).

QUI il volantino:  libertà e giustizia-3-ottobre-2013

Buon anno. Per una scuola porosa.

«Quando la scuola, lontana dalle semplificazioni dei richiami efficientisti alla sola istruzione,
all’addestramento, alla “corrispondenza delle attese del mercato del lavoro”
è scuola del “tempo dato”?
Quando lavora sulle possibili porosità e sulla ricchezza dei vissuti,
delle conoscenze e dei desideri che sono portati dalle donne e dagli uomini.
Una scuola porosa è capace di accogliere, sentire, assorbire ed orientare
nel rapporto attivo con il contesto e il mondo. Porosa nei tempi, nei costrutti,
nei dispositivi, nell’identità, nelle proposte, negli esercizi, di ruolo.
Insieme anche rigorosa per ciò che chiede a chi entra nel gioco,
per la valutazione dei percorsi e dei processi, per la sua attenzione a ciò che accade,
si crea e si trasforma”.
(Ivo Lizzola, Incerti Legami, La Scuola 2012)

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Un uomo senza travestimenti. Per don Cristiano Bortoli

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«Sembrava veramente come luomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Così Arturo Paoli descrive il suo maestro dei tempi del noviziato, nel deserto, con i Piccoli Fratelli.
Nei primi anni di università , quando la mia esperienza di chiesa cominciava ad essere messa in crisi da dinamiche parrocchiali sempre più anguste e dal sostanziale isolamento culturale vissuto dalla Fuci, trovai un luogo sicuro presso il Centro Universitario padovano. La sicurezza di cui parlo non aveva tuttavia nulla a che vedere con appartenenze forti o strutture solide e ben avviate. Al contrario, quel che incontravo durante l’Eucarestia del sabato sera e, ancor più forse, nella celebrazione mattutina delle Lodi, era la certezza di una possibilità  fondamentale, e fondativa: l’inesauribile energia della fede come domanda continua.

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E’ proprio questo sguardo disarmato, non violento, anti-ideologico ciò che mi torna nella mente e nel cuore, pensando a don Cristiano. Venivo dall’assidua lettura di Turoldo e trovai una persona illuminata che ne citava i versi durante o al termine delle omelie: intuivo la medesima radicalità  del servita, ma con una dolcezza per me nuova. Don Cristiano, durante la consacrazione o per la benedizione finale, aveva un modo tutto suo di aprire le braccia, di spalancarle, precarie e accoglienti nello stesso istante. Non sapendo quando verrà  l’alba, io spalanco ogni porta: una disponibilità  totale nel permetterci di partecipare dei suoi dubbi e interrogativi, nel farli risuonare – da lui a noi – senza vergognarsene mai. La sequela perdeva e caratteristiche del regime, delle rigidità  di una Chiesa vincente e diveniva comunità danzante, fondata sulla misericordia.


Non ho mai avvertito semplice avvicinarmi a don Cristiano e ho spesso avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad uno spirito monastico, pronto per la solitudine, e nello stesso tempo dedito al lasciar essere, ad una tolleranza che sconfinava nella ritrosia. All’alba, nelle mattine degli inverni universitari, suonare al portone di via Zabarella rappresentava un’incognita. Eravamo spesso in due o tre, don Cristiano apriva e, dopo un cenno di saluto, le prime parole che sentivamo erano quelle del breviario di Bose, i cui salmi cercavamo di cantare intuendo una melodia talvolta troppo vaga per non sentirci in imbarazzo. Ma la fatica finiva presto: egli insisteva perché la colazione fosse condivisa, perché salissimo le strette scale fino al primo piano e ci accomodassimo in cucina. Dopo il caffè, don Cristiano si ritirava, come se fosse scontato che era tempo per ognuno di andare al proprio lavoro, al proprio banco di studio.

Aveva un’attenzione particolare per i fermenti della chiesa e della cultura: tra i primi a farci conoscere la liturgia di Taizé e padre Enzo Bianchi, non temeva di annoverare nel calendario delle conferenze del Centro (il cui poster giallo è rimasto tale penso da sempre) personalità  marginali e talvolta scomode, purché genuinamente in ricerca. Era la nostra “cattedra dei non credenti”, uno spirito di ascolto che, nonostante il lento e non semplice passaggio, rimane ancora oggi la cifra del Centro. Ci sono stati anni in cui il salone nobile – o la chiesa di Santa Lucia – non bastavano a contenere le persone, non più solo universitari, o studenti di un tempo, ma gente qualsiasi, bisognosa di parole significative. Sentivo, nei preparativi all’interno della minuscola sagrestia del Corpus Domini, come non amasse esser considerato un riferimento imprescindibile, un “guru”, e che non desiderasse dar peso alle incomprensioni tra i gruppi che in tempi diversi si era trovato ad allevare. Come se volesse, per lo più in silenzio, rimanere solamente un veicolo verso il Maestro, più simile al Battista che non a Pietro.

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Gettare lo sguardo sempre al di là : qualcuno avrebbe potuto trovarlo semplicemente eccentrico, specie chi non si fosse fermato ad ascoltarlo. Invero, la sua eccentricità  era radicale: il centro a cui additava non era mai il suo discorso o la sua persona, ma sempre e comunque il Sacro. Ora ci ha preceduti, e nello stesso tempo ci sta alla spalle, come quella figura misteriosa posta dietro al piccolo Isacco delle vetrate di Taizé, che con una mano custodisce, con l’altra spinge verso il sogno del mondo: «guarda fuori al miracolo delle cose, oltre il tuo lavoro».

Se non so

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SOTTO UNA PICCOLA STELLA
Wislawa Szymborska

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del  mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
E poi fatico per farle sembrare leggere.
(da Vista con granello di sabbia, Adelphi 1998)

Dedicata al caro Ivo e al suo interpellare (custodente) le mie fragilità.

Quattro libri, dopo l’estate

Accanto al cambio dell’immagine della testata (per la quale ringrazio Antoine), suggerisco quattro libri che mi hanno fatto compagnia nelle ultime settimane.

perIsherwood

Chi sia rimasto affascinato da Un uomo solo, pubblicato sempre per i tipi di Adelphi nel 2009, potrebbe rimanere deluso da questo testo autobiografico di Isherwood. Allora, l’attenta costruzione dei personaggi e la precisa intenzione di non scivolare nel morboso dello scandalo, avevano contribuito a realizzare un capolavoro sul labirinto degli affetti. Qui, la narrazione si fa quasi cronaca quotidiana, relazione di dialoghi sulle questioni minime della vita in una città sull’orlo del baratro. Ma a ben vedere, non è delusione di qualche aspettativa, anzi. Al contrario: delusione perché troppo poche sono queste pagine per potersi dire sazi della compagnia di Isherwood. Perché, come succede per i libri davvero classici, alla fine si vorrebbe avere qualche capitolo in più, per poter godere delle parole e dei silenzi di questa persona. Ma come, già te ne vai? Questo il quesito finale, nonostante le duecentocinquanta pagine. Berlino, anni Trenta, si staglia sullo sfondo, fredda e disorientata: non si leggono, ma si annusano le violente certezze del movimento politico che di lì a poco, con i suoi complici, avrebbe inchiodato l’Europa. Ma le persone, come sempre, credono di esser altro dalla politica, apparente fondale di teatro, eppur invece vi sono costrette dalle necessità abitative e lavorative. La vita va avanti, e solo l’occhio delicato di Isherwood riesce a cogliere i drammi individuali, in attesa dello sfacelo.
(Christopher Isherwood, Addio a Berlino, Adelphi 2013)

perPennac87 anni e 19 giorni. 31774 giorni, circa. Messi uno vicino all’altro segnano la misura di un’esistenza qualsiasi, una delle tante in un’era in cui la quarta età trionfa. Un diario, dunque, ma né quotidiano, né intimo, se con questi termini si intende la cronaca degli avvenimenti e delle risonanze emotivi via via che la distensio animi si dipana. Infatti lo stratagemma di Pennac è geniale: scrivere un diario sì quotidiano, perché fatto di giorni, talvolta di ore, ma non intimo nel senso di intimista, ma proprio nel significato che diamo all’aggettivo quando lo usiamo accanto alle parole detergente o igiene. Intimo perché letteralmente “strettissimo”; di più: inseparabile. Più di un amico, che pur è altro da noi, più di qualsiasi legame affettivo. E’ la relazione del protagonista con il proprio corpo, le proprie membra, i propri organi interni ed esterni. Il corpo è nostro (e quindi parrebbe da noi separabile, come l’oggetto dal suo soggetto) ma nello stesso tempo il corpo è noi, il mio corpo sono io. A partire dai 12 anni, il protagonista inizia a segnarsi che cosa il suo corpo comunica. Si inizia con la paura, per l’esigenza di confidare almeno alle pagine scritte le inquietudini di un adolescente. E poi con gli anni diventa cronaca (impietosa, direbbe qualche triste spiritualista) di odori, liquidi, turgori, deiezioni, sommovimenti interni, malattie e trionfi della carne. Pennac ci ricorda che aver cura di noi non è questione di salutismi o altre retoriche, ma proprio di ascolto, di autocoscienza, di dialogo con l’anima, che non è altro che corpo vivente.
(Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli 2012)

perCognetti2Ha sempre ragione Goffredo Fofi, anche se non vorrà mai ammetterlo esplicitamente. E ha ragione quando dice, su Internazionale, che «Cognetti è uno scrittore vero». Da cosa lo capisco? Il mio criterio è questo: lo scrittore è vero quando, nel momento in cui lo leggo, mi viene voglia di scrivere. Non di ri-scrivere quanto egli propone; l’intenzione non è correttiva. Ma proprio un desiderio spontaneo di provarmi a raccontare la mia parte in questa storia d’Italia. Perché Cognetti, attraverso le vicende di Sofia, riesce a comunicare che cosa sia stato il nostro paese negli ultimi quarant’anni. Non si tratta di storia civile – anche se le pagine sull’Alfa Romeo spiegano meglio di un manuale scolastico la vicenda di quel marchio – ma di storie personali di individui “atomici”, perché quel che emerge, al di là di tutto, è il rincorrersi tra isolamento e solitudine, tra l’esser lasciati soli e il volersi appartare, perché si ha imparato a farlo, perché si è stati costretti ad impararlo. Il boom edilizio, la contestazione e le sue degenerazioni violente, il lavoro come religione, l’universo border-line delle nevrosi e delle dipendenze, il naufragio lento dei matrimoni, la speranza che della propria creatività si possa fare una professione. E, mentre le persone attraversano tutto questo, si rincorrono, si parlano e poi tacciono e poi ricominciano a parlare, sfiorando la salvezza che sta nelle mani del convitato di pietra, l’ascolto.
(Paolo Cognetti, Sofia si veste sempre di nero, Minimum Fax 2012)

perGombroSenza i contributi accessori – l’introduzione di Cataluccio; un breve saggio e la prefazione all’edizione argentina scritti dall’autore stesso – questo onirico romanzo di Gombrowicz risulterebbe molto più arduo da decifrare. Per assumerlo da solo, puro, è necessario abbandonare l’esigenza di comprendere tutto e subito. La Polonia degli anni subito precedenti il Secondo Conflitto mondiale è già di per sé un continente misterioso, che pare descrivibile solo dal bianco-e-nero delle immagini storiche, quasi schiacciata sulla violenza del prossimo invasore. Gombrowicz le restituisce il colore, la tre dimensioni (e forse la quarta e la quinta), i sapori e gli odori delle aule scolastiche, delle villette borghesi, delle case di campagna abitate più da una servitù viva che da padroni che mimano se stessi. La domanda sembra questa: chi è veramente se stesso? Che forma abbiamo quando siamo noi stessi? Ma… Abbiamo davvero una forma, nell’esser noi stessi? L’espediente fantasmagorico è semplice: un trentenne si ritrova costretto a tornare tra i banchi di scuola, con gli adolescenti. Nessun si accorge della sua età più matura ed egli stesso è imprigionato nell’esigenza altrui di “dare forma”. Formazione, educazione, istruzione… Ma anche le ideologie in diffusione, il rinnovarsi dei quadri morali, le mode moderne; oppure le tradizioni, il “si è sempre fatto così fin da quando eri bambino”, le consuetudini, le differenze di classe e di casta. Tutto pretende di dire chi siamo, di disegnare il contorno della nostra identità: Gingio, il protagonista, se ne accorge e la reazione immediata è la paralisi, l’immobilità, l’afonia. Come in quei sogni in cui ci sembra che i nostri movimenti siano costretti, impediti e lentissimi, lo sforzo per liberarsi, per svegliarsi, deve essere enorme.
(Witold Grombrowicz, Ferdydurke, Feltrinelli 2009)

Il filo rosso della Resistenza. La prima delle ultime colline

aperteE pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up”.
(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)

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Radicati per i piedi a queste colline, Ottavio e i suoi lo sono sino dal 1976, quando, troppo pochi per aprire quella Cooperativa Valli Unite che poi sarebbe nata, diedero vita ad una Società di coltivatori. Mentre in molte città italiane i loro coetanei interpretavano l’esigenza di cambiamento caricando le armi – sono gli Anni di Piombo e della messa in pratica delle monolitiche assurdità teoriche della rivoluzione armata – questo gruppo di giovani si poneva contro tutto e tutti, pur di fare i contadini. Contro tutto, perché la lunga onda del boom prevedeva il trionfo del cemento e dell’industria (e il Veneto ne venne inghiottito), e quindi l’abbandono di quell’economia rurale troppo legata alla memoria della miseria italiana; contro tutti, perché la generazione dei loro padri si era ormai accomodata nel trionfo della chimica applicata alla terra. E loro no: biologici prima ancora che ne nascesse il concetto.

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Assomiglia agli inizi di Bose, questa storia rurale. In pochi, con il sospetto di una certa follia, e l’accusa di voler fare i diversi. Ottavio ha gli occhi chiari, gioca col bicchiere di rosato, mentre Guido sistema la macchina fotografica per riprendere l’intervista. Il progetto si chiama “Bioresistenze” – anche se i chilometri d’auto Veneto-Piemonte-Veneto hanno contribuito a metterne in discussione anche il titolo. Una serie di conversazioni che hanno come filo rosso l’agricoltura e la resistenza. E Resistenza. La parola è sdrucciolevole, perché sempre a rischio di retorica. Ma lo è solo se non ha nulla dietro. E invece queste persone e le loro mani dimostrano che c’è eccome un modo per resistere.

QUI la seconda parte dell’intervista.

La vicenda di Valli Unite ha a che fare con i sogni di gioventù di qualcuno – solo l’idea che questo sia possibile, che sia possibile immaginare e intraprendere un progetto per come lo si desidera, fa oggi rabbia, perché vogliono convincerci che non è più praticabile – ma ha le sue radici nel sangue partigiano delle colline piemontesi. C’è Nuto Revelli e il suo Mondo dei vinti, che ammonisce Ottavio perché “non può rimanere l’ultimo contadino”; ci sono Bianco e Giambattista Lazagna (anche qui) tra i padri costituenti di Valli Unite: non erano monumenti di pietra a loro stessi e alla lotta in Val Borbera. Ma esseri vivi, allora cinquantenni, che da giovani avevano preso le armi, per dare un senso alle idee che covavano. Poi le armi hanno taciuto e – qui sta la differenza con qualsiasi parte “altra” – le idee sono rimaste, semplicemente perché esistevano da prima dell’8 settembre, e si sono fatte sangue sudore e muscoli in tante altre pratiche, magari umili e inoffensive (Bianco riparava radio, costruiva bobine, aggiustava qualsiasi cosa ospitasse circuiti elettrici – nella foto di Irene, il poster a ricordo). Ottavio e i suoi dovettero apparire loro come una naturale prosecuzione.

CiaoBianco

Quel che emerge è la vita del lavoro intesa come veicolo di dignità. Quel che permette a sera di fermarsi sotto il pergolato e bere e fumare e raccontare. Non cerchiamo altri potenti definitivi significati: solo l’allegria dell’impegno, “solo” l’articolo 1 della nostra Costituzione.
E’ proprio la dignità, il riflesso azzurro che balena negli occhi di Renzo Balbo, classe 1930, staffetta partigiana nelle Langhe e nipote di quel comandante Nord raccontato da Beppe Fenoglio. E di Nord conserva tutta la fiera eleganza, una sorta di compostezza anarchica. Ci accoglie insieme alla moglie nella grande casa di Collegno: penso alla Ginzburg e vorrei avere un milionesimo della sua capacità di raccogliere, nelle attempate stanze, gli echi dei Bompiani e degli Einaudi, e di descrivere la nobile borghesia piemontese, le sue gozzaniane “buone cose di pessimo gusto”. E’ la villa dei Richelmy: il tempo e le brecce non cancellano la solennità di quelle esistenze, il rigore delle vite e delle morti, quasi immortalate nelle rughe dei secolari alberi del giardino.

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Come s’usa, ci accomodiamo nel salotto buono del piano nobile – l’unico ormai rimasto attivo. L’operazione Bioresistenze non si schiaccia sul suffisso “bio” delle colture, ma – grazie a Irene, la maggior esperta in Italia del poeta Agostino Richelmy – arriva a interrogare la dignità del lavoro contadino alla luce di quella del lavoro intellettuale, e viceversa. E’ proprio Renzo, medico, fotografo, critico, partigiano… ad insistere su questo concetto. Complice l’enorme numero di fotografie impilate negli angoli e sui tavoli (si sta costruendo una mostra dedicata al lavoro di Renzo), la stanza appare abitata da centinaia di anni di storia. Sopra eroi e tombe in versione italiana. Hai la netta impressione che tutto questo ti riguardi, anche se sei (o proprio perché sei) un insegnante veneto in cerca di memorie.

(Qui: video Renzo Balbo – in attesa di caricamento)

«Non vergognatevi di usare questa parola, intellettuale», ripete Renzo. Si percepisce nella  pelle che non desidera raccontare fatterelli bellici, lui che pure ogni anno celebra il 25 aprile tra la val Belbo e la val Bormida. Stila una lista di priorità dello spirito, da Gramsci (contro i suoi traditori e falsi interpreti) a Camus (contro Sartre e le ambiguità del comunismo francese), rammentandoci che si tratta di una questione quasi genetica, perché già il suo avo aveva dovuto rinunciare agli onori dell’esercito per aver appoggiato Santorre di Santarosa durante i primi vagiti dell’Indipendenza. E poi lo zio, lo splendido Nord (nell’immagine sotto), e lui stesso: da sempre una lotta contro gli “avvocati”, coloro che vivono di parole che risuonano vuotecome rami appesi al muro. Mi risuona esempio vivente di quella stirpe di persuasi – Michelstaedter, Mreule – pur dall’altra parte dell’arco alpino.

Nord-al-tavoloAnche la parola “resistenza” – dice – è stato accalappiato dagli avvocati. Renzo rivendica il termine “Guerra Civile” perché di scontro bellico tra eserciti opposti si trattava. Non solo un opporsi-a ma un proporre-contro decisamente e superbamente, una visione del mondo e dell’Italia. A margine delle rapide connessioni intellettuali – e dei lazzi alla volta di Irene – Renzo fa esplodere una risata argentina di ventenne. E’ proprio il vivre le plus camusiano che irrompe. Ci consegna, lui, staffetta, non la memoria di cose passate, ma l’indignazione verso la menzogna che abita il presente.

Fare luce, illuminare la verità – meglio: LE verità. Per come si è, prima ancora che negli studi e nei discorsi. Il filo tiene, perché il nostro ultimo incontro, quello con Gustavo Zagrebelsky, viene ospitato nell’alveo della coerenza. Il professore ci riceve nello spazio fresco ma angusto che la nuova mastodontica sede universitaria torinese ha previsto per lui. Tra le foto, appeso al muro, il bando di esecuzione della Repubblica Romana del 1849. Anche Renzo ce ne aveva fatto cenno (ecco, la coerenza) – viene in mente l’ode alle Rivolte, alle rivoluzioni mancate, le uniche affidabili, cantata proprio da Camus.

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A Zagrebelsky piace per il linguaggio giuridico impiegato, semplice e diretto. E la sua riflessione sta proprio sospesa, anche su nostra insistente e tollerata richiesta, tra il fatto e il linguaggio, tra quel che la realtà impone, e i nomi per dirlo. Dunque, che cosa è la democrazia? Il giurista ricorda Rousseau: se posso pagare, delego. Si riferiva al servizio nell’esercito, ma possiamo oggi estendere il principio di “ignavia” a tutti gli ambiti. La democrazia contiene il “virus” del progressivo rifiuto alla partecipazione, non tanto come espressione di una precisa volontà anti-democratica, quanto piuttosto come lento abbandono della presa di posizione, dell’attenzione, della vigilanza. Dentro la profonda buia pancia del Mercato – penso io – i nostri bisogni (primari o indotti) vengono solleticati e soddisfatti. Perché preoccuparsi oltre?

Se poi la logica mercantile si incarna negli uomini e donne della Risposta, della Soluzione, ecco che la delega si fa “attiva”, si fa sequela di provvidenziali figure che “scendono in campo” e immagano con il loro linguaggio pubblicitario. Diviene alla fine una delega del pensiero. Viene in mente Kant, nel suo Was ist Aufklaerung?: “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.

 

Zagrebelsky chiede tempo per pensare, anche a noi. Serenamente confida che troppo è lo spazio dedicato a interviste e similia e sottratto al lavoro di testa. Petulo con una domandina sulla Resistenza, ma il gong è suonato. A ben vedere, ci fosse ancora la pellicola, i metri girati sarebbero più che sufficienti. Dopo le firme sui libri, minuscolo omaggio al feticismo della carta stampata, ci salutiamo cordialmente. Il caldo torinese ci inghiotte; nuotano con noi gli studenti dell’ateneo stellare. Le vetrate architettoniche moltiplicano le persone, forse anche le idee. Sulla strada del ritorno ci siamo sentiti vivi e commossi.

Lingue morte?

Le civiltà classiche futuro dell’Europa: QUI il VIDEO.
Il racconto della  seconda edizione delle Olimpiadi di Lingue e Civiltà Classiche, un progetto della Direzione generale per gli Ordinamenti scolastici e per l’autonomia scolastica del Ministero dell’Istruzione.
A Napoli dal 28 al 31 maggio 2013 i vincitori dei certamina, nazionali e locali di tutta Italia, si sono incontrati per una gara, che costituisce ogni anno una nuova importante occasione di  approfondimento culturale sul mondo classico, sulle sue lingue e la sua storia.
In particolare nel video sono affrontati i temi del ruolo fondamentale della civiltà classica come radice comune ed unificante dell’identità europea e del ritorno ad una visione unitaria del sapere, che superi le rigide contrapposizioni tra cultura umanistica e scientifica.

La_scuola_di_Atene

Quel che mi pare veramente interessante, guardando questo contributo, è come i ragazzi partecipanti abbiano sperimentato (quindi sul piano cosiddetto delle competenze) che il sapere è unico, e che le differenze tra discipline, indispensabili (forse) sul piano pratico-didattico, in realtà sono un’astrazione, spesso controproducente.
Si va così a toccare la vera piaga dell’istruzione secondaria, cioè un ottuso procedere a compartimenti stagni da parte dei vari docenti, sperando che l’interdisciplinarità sbocci come fiore inaspettato tra le pieghe dell’acciottolato.