Quasi una dichiarazione

0_eb441_fbef353d_origS’incontrano, anche nelle pieghe della Rete, le persone illuminate.
La loro luminescenza traspare dalle parole, quando raccontano la vita e la Storia.
Grazie ad Ornella, per questa sua dichiarazione.

 

Amo le svolte, spio le trasformazioni. Le vedo nella mia vita, imparo a riconoscerle intorno. Ho scoperto di essere “un soggetto” che all’improvviso si scopre “processo”,
come dice F. Jullien ( le trasformazioni silenziose).
Penso che oggi sia importante per tutti scrutare le trasformazioni:
in ogni campo e ad ogni livello. Per non cedere allo scetticismo,
non cadere nel disfattismo; ma anche per non irrigidirci dentro a schemi superati,
disegni già da tempo insufficienti a spiegare il mondo.

Architetto, ex insegnante di Arte, praticante di calligrafia cinese da nove anni (ci tengo),
ho la stessa età di Erri De Luca.
Sono nata lo stesso giorno di un ragazzo della primavera di Praga
morto in piazza san Venceslao.
In terza media ho fatto il tema sulla morte d Kennedy.
Alle elementari avevo fatto il dettato sulla morte di Arturo Toscanini.
Ero sveglia la notte dell’uomo sulla luna
A piazza Fontana ero passata qualche ora prima.
Ero incinta quando hanno ucciso Aldo Moro.
In via Fani, in via d’Amelio e a Capaci ci abbiamo portato i figli, perché sapessero.
Ho amato il greco, sognavo in latino
Ho creduto che l’architettura poteva salvare il mondo
Bauhaus e Le Corbusier
Stavo per andare a vivere in una comunità senza futuro.
Mi ha salvata Martini.
Ho creduto alle utopie. Alle Grandi Verità.
insieme alle utopie mi sono sentita crollare, mattone dopo mattone.
per anni.

Nel naufragio,
Impreviste zattere di salvataggio e stelle polari.
un giorno ne farò l’elenco ragionato.

Benedetto il naufragio
E le zattere
E le stelle.

Ho cambiato parole.
Ho perso: certezza, verità, assoluto, per sempre, universale, …
Ho guadagnato: fessure, tracce, contaminazioni, intrecci, forse, adesso.
Ho reinterpretato: bellezza, passione, responsabilità , onestà, libertà, …

Le cose adesso stanno così:
In pensione, come anche Federico, mio marito.
Nonni part time.
Nell’intreccio dei giorni, finalmente, un poco
anche il lusso di fare quello che ti sembra bene e che sai fare: ascoltare, appassionarti delle voci diverse (come accade nei viaggi), inventare intrecci, cogliere assonanze,
tentare collegamenti, aprire fessure.
Fidarsi dell’inutile (non come futilità‘, ma come gratuità),
coltivare bellezza (non come decorazione e abbellimento, ma come gesto, segno, visione, che rivela e convince). Appassiona.

“Tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma nessuno sa l’utilità dell’inutile.” (Zhuang-zi)

Parola del giorno:
Fare bellezza è un compito politico.
Uscire dal vortice del negativo, dal disfattismo

Sto studiando la calligrafia cinese e la cultura orientale,
conquistata dalla dimensione etica dell’arte e del pensiero là, a oriente.
E’ ricerca, è purificazione, è consapevolezza.
Ciò mi rende più agile e leggera nel cercare di creare cose (arte?) dove non c’è chi produce e chi fruisce, o compra, ma dove si offrono occasioni per creare insieme, per cucire e sovrapporre, annodare, allacciare , intravedere, socchiudere.

Talvolta incontro compagni di viaggio.

Sui giovani – dei giovani

aperteLeggo molto, in rete e su carta, di discorsi sui giovani, e poco i discorsi dei giovani. Noi che rivendicavamo il nostro anticonsumismo (a parole), condanniamo il loro. Noi che ci intrappolammo, come diceva ancora Pasolini, nel nostro mondo a parte, rivendichiamo quel mondo a parte come l’unico possibile. Vorremmo che i nostri figli fossero il nostro specchio: ma i figli sono altro da noi. Ci innamoriamo di quella che vorremmo la loro perfezione, invece di amare la loro unicità.

Sul BLOG di Loredana Lipperini.

Un attimo solo

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La Diocesi di Padova propone anche per questo periodo quaresimale un tempo minimo giornaliero dedicato alla lettura dei testi evangelici. L’iniziativa non ha come obiettivo quello di fare vedere “quanto la Chiesa possa essere moderna e attraente”, ma semplicemente quello di impiegare i media di massa – newsletter, sms – per ricavare uno spunto di riflessione, uno spazio aperto per la testa e il cuore. Ogni giorno viene postato il brano previsto dalla Liturgia, associato ad un commento esperienziale o di approfondimento biblico. Sono scritti da gente (l’ho vista) normale (per esempio, io, per i giorni 11-15 marzo). Mi piacerebbe ricevere qualche feedback.

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Ma che cosa vogliamo dalla scuola?

0_f37db_e8db03d8_origMichele Visentin scriveva nel suo blog (ora dormiente)

Quello che ci capita sembra ci capiti sempre per la prima volta, a scuola. E ragazzi così non ne abbiamo mai avuti; così indisciplinati, intendo. Falso. Siamo, forse, solo più stanchi.
Una decina di anni fa sintetizzai il testo di Charles sulla gestione della Classe per gli insegnanti “desiderosi di ristabilire l’ordine e la disciplina”. Condividemmo un’idea diversa di “controllo” discutendo i principi di fondo proposti da A. Kohn in Beyond the discipline: from compliance to community e da essi si lasciammo ispirare per impostare le norme della nostra vita scolastica.
Una convinzione ingenua, che rifiutammo, fu quella che concepiva la disciplina come lo sforzo di far aderire gli studenti alle aspettative degli insegnanti piuttosto che una conseguenza naturale di una relazione fondata su interessi comuni.

Porsi il problema della DISCIPLINA è all’ordine del giorno, in ogni grado scolastico. Potrebbe sembrare ovvio: per raggiungere determinati obiettivi debbo predisporre altrettanto determinati strumenti. Tra di essi, compare la disciplina. E se invece la questione della disciplina, spesso ridotta a lamentele ansiose, non fosse che un sintomo? Se fosse il nostro modo di annaspare all’interno di un sistema in cui obiettivi alienanti sono ormai arrivati alla coscienza di tutti gli attori?

La scuola serve per preparare al lavoro? Serve per preparare – nel caso della secondaria di secondo grado – alla frequenza dei corsi universitari (o addirittura al solo TEST d’ingresso)? Serve per educare? Serve per dare contenimento ad esserini in preda alle proprie pulsioni?

Questa questione è enorme, me ne rendo conto. Ma è necessario porla tra docenti, con i ragazzi, con i genitori. Ma quali spazi apriamo per farlo? Qualcosa qui e là si muove, e da tempo: in questo post tratto da UNIMONDO, Anna Molinari dà conto del progetto REEVO, che nasce dal documentario La educacìon prohibida, a partire (anche) da questa riflessione:

La scuola segue ancora un paradigma troppo frammentato, basato su un “apprendimento preventivo”nella convinzione che “un giorno tutto questo potrebbe essere utile”. I concetti si acquisiscono con uno sforzo sproporzionato di memoria, calcolo e concentrazione e l’aspetto sconcertante è che, sfortunatamente, questi concetti hanno una durata limitata. I metodi di apprendimento cambiano velocissimamente, ed è chiaro che i metodi educativi non stanno al passo con i tempi – si noti, nel film si parla di metodi, non di strumenti educativi, che invece spesso sono di ultima generazione.

Reevo cerca di mettere in rete, e non solo nella Rete (Web), le esperienze di educazione alternativa. Interessante capire se questo scambio di buone pratiche divenga incontro reale tra persone e quindi mutua contaminazione, occasione in cui davvero si viene a conoscenza diretta di persone capaci di forme altre di scuola.
Di questa conoscenza epidermica c’è davvero bisogno, per non cadere nella retorica del piccolo gruppo che resiste contro il sistema, o degli individui eroici e isolati che popolano (e per fortuna!) le nostre scuole.

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Il progetto trentino di SCUOLAEVOLUTIVA (link non più attivo a marzo 23) per esempio,  è coraggioso. Un gruppo di persone decide che è possibile fondare una scuola diversa, con proposte che vadano ad integrare i programmi “normali”:

Abbiamo fondato una scuola che si rivolge ai genitori che, come noi, sentono il bisogno di integrare i programmi scolastici non con dei corsi pomeridiani tradizionali, che inevitabilmente rimangono fini a se stessi, ma con un vero e proprio progetto educativo integrato, considerate le carenze logistiche della scuola attuale, permettendo dunque al bambino di crescere in modo più sano, creativo, consapevole, fornendo al tempo stesso un’educazione più completa ed armoniosa della persona.

La proposta corre parallela al “normale” curricolo e ne costituisce nel contempo una radicale critica. Ritengo sia una premessa al cambiamento del curricolo stesso, immaginando proprio una diversa “normalità”. Anche perché il rischio è quello di occupare ancor di più il tempo di bambini e ragazzi.

La questione sembra questa: dato questo sistema, è possibile adottare atteggiamenti e pratiche che per lo meno “salvino il salvabile”? Che producano risultati CON i ragazzi e non a spese loro? Che non consista in una ulteriore strategia di soffocamento?
Si presume che lo spostamento sulle competenze provochi lo smottamento del sistema stesso, finalmente adatto a… A cosa?
Christian Raimo non ha mezzi termini: a produrre futuri uomini flessibili, cioè perfettamente sincronizzati con il mercato del lavoro – con QUESTO mercato del lavoro…

Perché insomma le aziende si devono far carico di educare alla flessibilità se lo può fare la scuola? Perché non rendere il pensiero critico neutralizzato e strumentale ai bisogni di un’azienda? La verità  è che ogni volta che s’invoca il feticcio della misurabilità  oggettiva si occulta la più assoluta legittimazione della pura soggettività , dell’arbitrio. Come accade per le competenze, così accade per la “meritocrazia”, altro pseudoconcetto, altro plastismo che delle competenze è lo speculare; se io ho per le mani concetti così vaghi come competenza o merito, è chiaro che sarà  fondamentale chi è che decide quali sono le persone competenti o quelle meritevoli.

Ma voi genitori, che chiedete l’inglese già in prima elementare, che vi lamentate per i pochi compiti alla primaria; o voi (noi!) , insegnanti, che per tema di queste critiche, riempite (riempiamo) il pomeriggio e le sere di intere famiglie… Vi siete chiesti che cosa possono essere queste persone in miniatura che avete in casa o in classe e non solo quale lavoro debbano fare?

SHORPY_8d33944a.previewLe voci che dicono: guardate, con questo sistema non si va da nessuna parte, se non a contribuire a disagio e disuguaglianza… Si stanno moltiplicando, o semplicemente stanno emergendo, perché il punto di rottura è vicino e non sarà evitato aggiustando gli edifici scolastici. Ken Robinson, altrove, lo ripete da tempo.

Gianni Marconato, attento osservatore della formazione e dei nuovi media:

Quanto di tutto quello che queste persone sanno lo hanno imparato in modo strutturato a scuola? Ovvero, attraverso strategie di insegnamento intenzionale? Quanto ha inciso, in senso positivo, la scuola nella costruzione di quelle carriere professionali?
Si dirà: la scuola ha posto le basi del loro sapere. Ha fornito loro un metodo e degli strumenti per imparare quello che, poi, sarebbe servito loro.
Siamo certi che questo sia avvenuto ed avvenga tutti i giorni? Che ci sia una diretta correlazione tra ciò che una persona conosce e l’insegnamento ricevuto?
E’ evidentemente (sic) che la scuola una sua traccia la lascia. Ma quale?

E Paolo Mottana, docente alla Bicocca, autore tra gli altri del Piccolo Manuale di Controeducazione, e di cui si veda anche QUESTO, adotta una posizione ancor più radicale e si richiama ad Illich:

La scuola è un’impresa delittuosa, l’artefice principale del “sequestro educativo”. E’ il principale strumento al servizio del soffocamento di quelle esperienze meravigliose e insostituibili che si chiamano infanzia e adolescenza. Noi dobbiamo strappare bambini e ragazzi ai reclusori, ai sarcofagi di cemento dove vengono internati per lunghissimi anni fino a che non siano stati trasformati in materia buona solo per far girare gli apparati di potere. Noi dobbiamo salvarli, memori di quanto abbiamo sofferto allora, quando ne fummo anche noi rapiti e inebetiti, e di quanto ineludibilmente si continua a soffrire anche ora, silenziosamente e perlopiù inconsapevolmente, a fronte del funzionamento osceno e apparentemente inarrestabile di quel meccanismo normativo e martirizzante. Occorre restituire ai bambini e ai ragazzi la loro esperienza. Occorre riportarli sulla scena del mondo, della natura, delle strade, dei luoghi dove si vive e si traffica e si impara sul serio.

Il tono può apparire apocalittico, non diversamente dal Fofi di Salviamo gli innocenti.
Ma chiunque di noi in classe – a meno di una totale sclerocardia – abbia per un solo istante interrotto l’andamento meccanico del riversare nozioni per osservare le creature che ha di fronte, non può non aver avvertito che senza desiderio l’intelligenza non funziona. E senza interesse, emozioni, e perfino eros, come già Socrate ci ha insegnato.

Varrebbe la pena parlarne, per lo meno?

Il negozio cammina altramente. Per Galileo

aperteSe per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina (copernicana) bastasse il serrar la bocca ad un solo, come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co‘l lor proprio, gli par impossibile che tal opinione abbia a poter sussistere e trovar seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi: ma il negozio cammina altramente; perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro di Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l’istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d’astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardar verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla Terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge 40 volte, e quello 60, maggior una volta che l’altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna, e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma san saldissimi argumenti del Copernicano. Ma il proibire il Copernico, ora che per molte nuove osservazioni e per l’applicazione di molti literati alla sua lettura si va di giorno in giorno scoprendo più vera la sua posizione e ferma la sua dottrina, avendol’ammesso per tanti anni mentre egli era men seguito e confermato, parrebbe, a mio giudizio, un contravvenire alla verità, e cercar tanto più di occultarla e sopprimerla, quanto più ella si dimostra palese e chiara.

G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana (1615)
Galileo Galilei nasceva oggi, a Pisa, 450 anni fa.

Compito di filosofia

Il discepolo è l’occasione perché il maestro comprenda se stesso e viceversa il maestro è l’occasione perché il discepolo comprenda se stesso. Il maestro alla morte non lascia dietro a sé nessuna esigenza nell’anima del discepolo, precisamente come (e tanto meno) il discepolo non può pretendere che il maestro gli sia debitore di qualcosa… Perché intende meglio Socrate solo colui che intende di non dovere nulla a Socrate, cosa che Socrate preferisce e che è bello aver potuto volere.
S. Kierkegaard, Briciole filosofiche

Ricordo di Carlo Mazzacurati

Penso che poche cose come le interviste della serie Ritratti, con Marco Paolini, riescano a suggerire lo sguardo e la cura di questo regista. La sua capacità di non abbandonare noi veneti a noi stessi, alla nostra antica miseria contadina o alla pretenziosa ottusa operosità dell’ormai immobile “locomotiva”. Siamo lavoratori, ma con le mani e con lo spirito. Grazie, di cuore.

Alameda

Ha più di 5 milioni di abitanti, non so quanti milioni di automobili, e quanti miliardi di claxon e sirene e tubi di scappamento. Ci sono cani randagi dappertutto e anche persone randagie, che vivono per strada, dormono per strada, a volte bevono fino a stramazzare al suolo, altre volte evidentemente non hanno sete e restano lì, a chiedere l’elemosina, a guardare la gente che passa, o a dormire, in maniera più o meno strutturata, a lato della strada. La città è tagliata in due dalla “alameda”, che in realtà si chiama Avenida Libertador General Bernardo O’Higgins, e non so se è più lungo il nome o la strada stessa. Che è anche larga, otto o nove corsie, perchè una corsia mi sa che è per gli autobus, ma solo in un senso di marcia, chissà perchè. Un pezzo della alameda lo percorro tutti i giorni a piedi per andare al lavoro, e ogni giorno è un film, perchè non c’è solo il traffico delle auto, il più banale, ma c’è anche quello pedonale, con fiumi di gente che cammina nei due sensi, ma così tanta che a volte mi trovo bloccata e non riesco neanche a superare chi va più piano perchè sta scrivendo al cellulare, perchè è su una sedia a rotelle, o perché semplicemente non ha fretta (non che io ne abbia, peraltro). E poi è tutto un festival di economia informale, ossia di gente che per strada vende qualsiasi cosa, dall’accendino, all’abbigliamento, all’attrezzo per scavare le zucchine a quello per sturare il lavandino. E ogni giorno è diverso, così che non c’è da annoiarsi, ma anzi si scopre sempre qualcosa, e ogni tanto ti compri una spremuta d’arancia per il viaggio, o qualche cosa che puoi evitare di comprare al supermercato e lo compri direttamente sulla Alameda. Mitica Alameda, che devi imparare dove la puoi attraversare, perché non è che puoi attraversarla dove ti pare e a volte, se ancora non sai bene, ti tocca fare dei giri assurdi prima di trovare l’agognato passaggio pedonale. I cani randagi sono intelligenti, e hanno capito come si fa, ed è incredibile vederli che aspettano il semaforo verde prima di farsi traascinare dall’onda umana che li porta al di là della strada.

Continua a leggere il report, di Michela Giovannini, da Santiago del Cile QUI.

Quando ciò che è normale non è etico

New York Times – 10 giugno 2013
Quando ciò che è normale non è etico
di Paul Krugman

È da un bel po’ che mi occupo di economia, da così tanto, in effetti, che mi ricordo ancora di quello che era considerato normale nei giorni di tanto tempo fa, prima della crisi finanziaria. Normale, allora, significava un’economia che cresceva ogni anno di un milione o più di posti di lavoro, abbastanza per tenere il passo con la crescita della popolazione in età lavorativa. Normale significava un tasso di disoccupazione non molto al di sopra del 5 per cento, se non per brevi recessioni. E anche se la disoccupazione c’era sempre, normale significava che pochissime persone rimanevano senza lavoro per periodi prolungati.

Come avremmo reagito, in quei giorni di tanto tempo fa, alla notizia diffusa venerdì che nel nostro paese il numero degli occupati è ancora inferiore di due milioni a quello di sei anni fa, che il 7,6 per cento della forza lavoro è disoccupato (e molti di più sottoccupati o costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione), e che fra i disoccupati più di quattro milioni sono senza lavoro da più di sei mesi? Beh, sappiamo come ha reagito la maggior parte degli addetti ai lavori: hanno detto che tutto sommato erano buone notizie. In effetti, alcuni stanno anche celebrando queste notizie come “prova” che l’ostruzionismo del partito repubblicano non sta facendo alcun danno.

In altre parole, il nostro discorso politico è ancora molto lontano dall’occuparsi di ciò di cui si dovrebbe occupare.

Per più di tre anni, alcuni di noi hanno combattuto l’ossessione distruttiva che ha portato l’élite politica a occuparsi soprattutto dei deficit di bilancio, un’ossessione che ha portato i governi a tagliare gli investimenti, quando avrebbero dovuto aumentarli, a distruggere posti di lavoro, quando creare posti di lavoro avrebbe dovuto essere la loro priorità. Ora quella lotta sembra largamente vinta – credo di non aver mai visto un crollo intellettuale improvviso come quello delle basi razionali della politica economica fondata sulla dottrina dell’austerità.

Ma che gli addetti ai lavori sembrino aver smesso di preoccuparsi per le cose sbagliate non è sufficiente. Bisogna anche iniziare a preoccuparsi per le cose giuste – vale a dire, per la condizione dei senza lavoro e per l’immenso spreco costituito da un’economia depressa. E questo non succede. Invece, i politici, sia qui che in Europa, sembrano attanagliati da una combinazione di compiacimento e di fatalismo, dalla sensazione che non c’è niente che debba essere fatto e niente che si possa fare. La sensazione che tutto quello che si può fare è alzare le spalle.

Anche le persone che siamo abituati a considerare i buoni, i politici che in passato hanno dimostrato di preoccuparsi davvero per la nostra debolezza economica, in questi giorni non stanno mostrando molta consapevolezza dell’urgenza di intervenire. Ad esempio, lo scorso autunno alcuni di noi sono stati molto incoraggiati dall’annuncio della Federal Reserve che stava preparando nuovi provvedimenti per sostenere l’economia. Dettagli politici a parte, la Fed sembrava voler segnalare la sua intenzione di fare tutto il necessario per ridurre la disoccupazione. Ultimamente, però, da parte della Fed si sente per lo più parlare di disimpegno progressivo, anche se l’inflazione reale è al di sotto di quella prevista, mentre la situazione occupazionale è ancora disastrosa e il ritmo del miglioramento è quasi impercettibile.

E i funzionari della Fed sono, come ho detto prima, i buoni. A volte sembra che, al di fuori di essi, nessuno a Washington consideri l’elevata disoccupazione un problema.

Perché la riduzione della disoccupazione non è una delle principali priorità della politica? Una risposta potrebbe essere che l’inerzia è una forza potente, e in politica è difficile ottenere cambiamenti senza la minaccia del disastro. Finché aggiungiamo, e non perdiamo, posti di lavoro, finché la disoccupazione è sostanzialmente stabile o in calo, non in aumento, i politici non sentono alcuna necessità urgente di agire.

Un’altra risposta è che i disoccupati non hanno molta voce politica. I profitti sono alle stelle, la borsa va bene, quindi le cose sono OK per le persone che contano, giusto?

Una terza risposta è che in questi giorni noi non sentiamo più tanto i falchi del deficit, mentre i falchi monetari – cioè gli economisti, politici e funzionari che continuano ad avvertirci che i bassi tassi di interesse porteranno a conseguenze disastrose – hanno, se possibile, alzato ancor più la voce. Nessuno sembra dare importanza alla lista impressionante di previsioni sbagliate che li accompagna (dov’è l’inflazione galoppante che avevano promesso?) proprio come quella che accompagnava i falchi fiscali. Ora gli argomenti cambiano (parlano di bolle speculative), ma la richiesta politica che fanno – bilanci più rigidi e tassi di interesse più elevati – è sempre la stessa. È difficile sfuggire alla sensazione che la Fed non si muova perché intimidita.

La tragedia è che tutto questo è inutile. Sì, si sente parlare della “nuova normalità” di un tasso di disoccupazione molto più alto, ma tutte le ragioni per questa presunta nuova normalità, come ad esempio la presunta mancata corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e le esigenze dell’economia moderna, cadono a pezzi quando le si esamina accuratamente. Se Washington avesse invertito i suoi distruttivi tagli di bilancio, se la Fed avesse mostrato la “determinazione rooseveltiana” che Ben Bernanke chiese ai funzionari giapponesi quando era un economista indipendente, avremmo da tempo scoperto che non c’è niente di normale e necessario nella disoccupazione di massa di lunga durata.

Quindi, ecco il mio messaggio ai politici: così com’è l’economia non va affatto bene. Smettetela di alzare le spalle, e fate il vostro lavoro.

(Traduzione di Gianni Mula; grazie a Enrico Peyretti)

Educazione e nichilismo

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Questo l’incipit di un bell’articolo di Michele Visentin
(segue il mio commento, per avviare un dialogo, sebben con terze persone):

L’azione educativa e in particolare quella che si integra con l’istruzione scolastica riposa ancora oggi su questo presupposto che  viene dalla tradizione e che stabilisce un nesso tra l’attività conoscitiva e la trasformazione di sé. Questa relazione sancisce più che altro una dipendenza e una derivazione della formazione dal pensiero e, si potrebbe dire, dal retto pensiero. Da qui deriverebbe l’intera paideia occidentale, ovvero l’idea che l’umanità realizzata di ogni singolo essere umano, sia direttamente proporzionale alla sua capacità di conoscenza e di conoscenza di sé.

L’educatore deve tentare il tutto per tutto. Cioè deve tentare in bilico sulla sconfitta. Il discorso nichilista incide sullo spazio e sul tempo, creando un contesto in cui l’istituzione, da luogo in cui avvenga l’evento educativo (come setting, quasi), diventa struttura di pratiche ripetitive, che conservano il sistema così come si trova.
Lo spazio è di fatto modellato sulla fabbrica tayloristica, per quanti colori o cartelloni possiamo appendere; si tratta di una scatola contenente scatole più piccole, ognuna delle quali con uno scopo predeterminato. Non è con l’attribuzione di un’aula ad aula multimediale (cioè con uno schermo e una LIM) che modifichiamo il senso dello spazio.
Il tempo, anch’esso industriale, costringe a segmenti mentali; crea serrande tra un’ora e l’altra, che chiudono emozioni e conflitti (apparentemente).
La formazione scolastica ha rinunciato all’educazione, perché l’educazione non ammette spazi o tempi prederminati. Eppure l’incontro avviene lo stesso, perché l’evento educativo supera spazi e tempi predeterminati. Avviene, tuttavia, nella frustrazione. Se non addirittura nella clandestinità, poiché l’istituzione chiede controllo e autocontrollo.