L’uomo disarmato va alla guerra

L’attuale pontefice, Benedetto XVI, torna periodicamente sulla necessità di un rinnovato ruolo intellettuale per i cattolici. Naturalmente non è semplice né immediato comprendere in che senso questa missione debba essere intesa, per quanto personalmente m’intimorisce la possibilità di un fronte cattolico impegnato a moralizzare la vita pubblica italiana, fornendole un quadro etico fondato sull’appartenenza religiosa. Quando la fede si fa certezza, nascono gli steccati.

Lo sguardo del prete Luisito Bianchi, scomparso da poco, che pure è dotato della fermezza del profeta, è di altra natura. E questo suo libro, sotto forma di romanzo, suggerisce un’altra possibilità, praticata e feconda nel nostro paese, ma in modo sempre – forse per scelta, forse per necessità – minoritario.

La Messa dell’uomo disarmato è un’opera sulla Resistenza, o meglio ancora sulla Parola. Che cosa ha a che fare la buona novella con le armi e le battaglie e il sangue sparso sulle colline? Non è forse anche questo il trionfo di una parte-contro, partigiani appunto, di uno steccato di divisione tra gli uomini? Mi pare utile un riferimento a Luigi Meneghello, il quale sosteneva che la scelta dell’esser “banditi” era per questi ragazzi la coniugazione miracolosa di quanto si dovesse fare, l’imperativo civile, con ciò che si desiderava fare, quanto il cuore indicava con veemenza. Bianchi inserisce un terzo piano, quello spirituale della vocazione in senso ampio: prender posizione contro il regime nazifascista poteva essere il modo di rispondere ad una chiamata, di seguire la Voce. La Parola non impone di uccidere, per quanto secoli di integralismo ci abbiano confuso le idee. Impone senza mezzi termini di stare dalla parte dei poveri, di contribuire a costruire (allora), di ricostruire (oggi) l’uguaglianza sostanziale che consente a ciascuno di potersi realizzare come persona in una società.

Luisito Bianchi, da partigiano e poi da prete operaio, non si stanca di cercare i segni della Parola nella vita che gli è stata data. Non, si badi, costringere gli avvenimenti in una interpretazione fideistica, ma al contrario, mettersi in ascolto di come lo Spirito parli sempre e comunque, in linguaggio diversi da quelli addobbati dall’Istituzione. Ecco che la guerra sulle colline diviene, per quanto assurdo possa sembrare, una pratica di non violenza, un tentativo non sempre efficace di mettere gli uomini gli uni di fronte agli altri per confrontarsi. Con il limite drammatico per cui non si può parlare con chi intende zittirti con la forza e con l’usurpazione.

Il romanzo, che prima di essere raccolto da Sironi girovagò quasi clandestino in ciclostile, è complesso e impegna il lettore con un linguaggio denso, talvolta sul filo della retorica, ma sempre alla fine capace di far risuonare qualcosa di vivo; la sua anima è la vocazione monastica benedettina, che diviene – nelle parole di un abate così saggio da sembrare immaginato – ricerca dell’uomo prima che ricerca di Dio, se la seconda dimentichi la prima. E così obbedire alla Parola significa in primo luogo comprendere che cosa ci è chiesto e quindi accompagnare il popolo, inteso proprio come laos – laici – moltitudine delle persone affidate dal Padre a ciascuno di coloro che si mettono in ascolto. Custodirne la vita, e anche la morte, sia essa il frutto degli anni, o assuma le sembianze di un martirio, cioè testimonianza. Se è poi vero che nella morte partigiani o militi sono uguali, e che ciascuno ha il diritto di celebrare i propri caduti, è altrettanto vero che il significato di queste morti è radicalmente diverso, perché rimanda a visioni opposte di futuro e di convivenza.

Quei cattolici, preti o meno, che dalle Langhe ad Asiago presero le armi o rimasero inermi per scelta dovrebbero costituire un riferimento nella trasformazione che questa crisi ci impone: non adunare novelle schiere di monaci guerrieri per gettar luce su di un mondo buio, ma disarmarsi per poter cogliere quel “soffio di Dio” capace di distruggere gli idoli e vedere bellezza ove pare non ve ne possa essere.

(Luisito Bianchi, La messa dell’uomo disarmato, pp. 864; e. 19,00; Sironi editore)

Il mio 25 Aprile

Padova, oggi, 25 aprile.

Porto Elena sul listòn ad ascoltare la banda dei Bersaglieri. Le autorità hanno appena terminato i discorsi, la piazza di fronte a Palazzo Moroni si mescola di divise e di persone.
Indosso una coccarda tricolore, fermata sulla giacca con la “R” e “I” intrecciate, recuperate da chi sa quale decorazione del nonno. In Prato incontro il mio professore di filosofia della scuola superiore. Elegante e composto come allora, lo sguardo arguto e disincantato, accusa un po’ il peso degli anni. Con la moglie a braccetto, fanno qualche festa alla bimba. Poi il prof osserva la coccarda e dice: «A me non piace. In quel giorno là, mi prendevano a schioppettate». E poi: «Se questo che vediamo è il risultato della Liberazione…».

Il mio professore non nascondeva, nemmeno allora, le sue simpatie monarchiche. E decisamente anticomuniste. Lettore di Marx e dei socialisti, amante in genere dei libri, uomo di destra, vagava durante la ricreazione con “Il Giornale” di Montanelli sottobraccio. Ci stupivamo della sua capacità di leggerlo senza stropicciarlo.
Verso la fine del mio quinquennio mi ritenevo “di destra”: leggevo frasi di Mussolini e in un’occasione indossai persino uno stemma dell’Opera Nazionale Balilla.

Frequentavo un liceo comunemente definito, e sedicente, “di sinistra”. E la coerenza del mio insegnante strideva con le continue chiacchiere di molti docenti della scuola. Per me, allora, dirmi di destra era il modo per contestare l’omologazione.
Poi ho cambiato idea. Allora mi chiedevo come potessero piacermi le parole e le canzoni di De Gregori. Cercavo di sopportare la contraddizione. Poi, un’illuminazione: non devi essere di destra o di sinistra; devi, puoi, essere te stesso.

L’istinto a non omologarmi forse mi è venuto dall’appartenenza cattolica. A scuola non prendevo posizione durante le ore di religione, ma mi stupivo di come fosse difficile organizzare una messa d’Istituto per chi lo volesse, nelle parrocchie del quartiere. Ma il cattolicesimo non era un buon biglietto da visita: frequentare l’Azione Cattolica era già allora cosa da sfigati. E la sfiga, al liceo, è una variabile essenziale.

Ora penso a questo: ho avuto l’occasione di cambiare idea. Cioè di frequentare persone di destra, di sinistra, cattolici impegnati, preti operai, anche qualche profeta.
Si dà un fatto, innegabile, nell’Italia di oggi, frutto del 25 aprile: la possibilità di confronto con pensieri diversi. Tale fatto valeva – e vale – per me come per tutti quelli della mia generazione, o più giovani, o più anziani.

Penso chi stia qui il nucleo dell’antifascismo: fermarsi a considerare tutte le posizioni che ti si presentano di fronte. Non so se così, anch’io, sto in qualche modo “occupando” questo concetto. Ma mi sembra chiaro questo: se il fascismo è stato un sistema che ha eretto la violenza, l’imposizione, a strumento principale, allora non sono antifascisti quelli che, pur dicendosi tali, impediscono a qualcuno di parlare. Fosse anche uno che si dichiara fascista.

Penso che l’antifascismo debba abbandonare la nostalgia e gli slogan. Deve continuare a ricordare la storia di tante persone che, dal 1922 in poi, formularono una scelta ben precisa: stare dalla parte di chi era disposto a discutere. Resistere contro chi non intendeva discutere, ma usare il manganello. L’antifascismo si fonda sul ricordo, ma di chiunque: deve assumersi il rischio di raccontare e far parlare chi ha fatto la scelta della “parte sbagliata”. Non per dire: qualsiasi scelta è uguale. Ma perché, se si apre una discussione seria, non può non emergere la diversità tra chi ammette il confronto come metodo e chi invece utilizza la violenza, fisica, verbale o psicologica per imporre la propria idea. E gli slogan, frasi fatte strappate da un contesto, nella loro pretesa di riassumere la complessità della verità storica, diventano strumenti violenti, cioè fascisti. Sono buoni per lo stadio, ma non per la storia.

Mi si dirà che il fascismo non è stato solo violenza. Io ribatto che di fatto, dal 1924 in poi, non fu permesso professare in pubblico la propria appartenenza. Questo è un dato di fatto. Se questo è il prezzo da pagare per non avere criminali o mafiosi in giro (posto che fosse davvero così), dico che è un prezzo troppo alto. Se questo è il prezzo per avere case popolari, o altre forme di solidarietà sociale (posto che davvero fosse così), dico che è un prezzo troppo alto. Il limite storico del fascismo non fu tanto l’entrata in guerra sulla scia della follia nazista, ma la fine di ogni dibattito pubblico. E nella rinuncia al dibattito, all’approfondimento, il qualunquismo italiano tornava, torna e tornerà sempre a colorarsi di tinte totalitarie.

Non tutti coloro che si definivano partigiani erano antifascisti. Sembra paradossale, ma non lo è: se la Liberazione divenne occasione per qualcuno di regolare conti personali; se la guerra partigiana fu pretesto per qualcuno di dar sfogo alla propria rabbia animale… Ecco, io non trovo differenza tra questi e tanti loro omologhi di Salò. Dobbiamo fare i conti anche con questa storia, se non vogliamo tradire la memoria di chi ha perso la vita difendendo la libertà. Ricordando che il conflitto è sempre tra individui, mai tra idee, che senza un individuo che le pensa, non esistono.

Ora lo spazio degli slogan non è più tanto la piazza, quanto i social network. Ecco: oggi rimbalzano su Facebook slogan pro e contro la Giornata della Liberazione. Che cosa comunicano? Che ognuna di queste persone cerca come può un senso al proprio desiderio di non omologarsi, o alla propria lillipuziana rabbia personale.
Non hanno a che fare con la storia, con la fatica del pensiero applicata ai fatti degli uomini; ma solo con l’ideologia, cioè con una visione mistificata – perché non condivisa – della realtà.
La spilla dell’ONB che indossai a diciotto anni fu per me allora il mio triste “slogan su Facebook”. La mia coccarda tricolore oggi è il tentativo rinnovato di aprire un dialogo.

Ricivetta

L’immagine della testata (che, se non vi siete accorti, modifico una tantum) è tratta da questo sito: esistono parecchie vie sotterranee percorse da chi sa che c’è la crisi, ma non la affronta con il lamento. Non che non ci siano motivi per cui lamentarsi (a ben vedere, sempre ce ne sarebbero). Il punto è che alcuni modi di agire, di affrontare bisogni e risorse, sono validi e presenti da anni, ben prima che il mondo svuotato dal nostro stile di vita ci imponga un cambiamento.

Nascosti portatori di spirito: don Piero Tubino

Il 12 aprile scorso si è spento a Genova don Piero Tubino.
E’ una persona che non ho conosciuto, né incontrato. Ma un amico me ne ha fatto un ritratto semplice e commovente, che riporto.
Mi pare un esempio di chi, lontano, come si dice, dai riflettori, ha seminato tanto.

“Ieri sera qui a Genova è morto don Piero Tubino,
primo direttore di Caritas Genova.
E’ della generazione di Nervo.
Uomo coltissimo, di famiglia agiata,
ha sempre mantenuto un aplomb impeccabile
pur girando come una trottola tra le pieghe della società
e su e giù per i Balcani ai tempi della guerra.
Anni fa siamo stati a Venzone, in Friuli,
zona assegnata ai volontari liguri dopo il sisma del ’76.
C’era ovviamente anche lui,
che al tempo si era occupato dell’emergenza,
e tutti lo circondavano con un affetto commovente.
L’ultimo ricordo che ne ho è di pochi giorni prima del Natale. Con il mio capo, siamo andati a prenderlo dal dentista per riaccompagnarlo in casa di riposo
e così, per trasbordarlo dalla carrozzella allo stretto ascensore e poi viceversa
l’ho preso letteralmente tra le braccia come facevo coi vecchietti da obiettore.
Peso e fragilità al tempo stesso, l’impressione che ne ebbi.
“Verrà il giorno in cui altri ti cingeranno le vesti e ti porteranno dove tu non vuoi…”.

Caro fratello,
più questi uomini se ne vanno,
più è chiaro che, degni o meno,
tocca ogni giorno di più a noi” (D. L.)

La vita è comune

Tolosa – La vita è comune
Ho visto di nuovo che le razze non esistono. Ho visto il ragazzino ebreo, a Tolosa, con la kippà, che piange i bambini uccisi, appoggiato al petto di un uomo che, a capo chino, gli tiene delicatamente la faccia tra le mani. Un braccio di qualcun altro è posato sulla spalla del ragazzo. Si sente il suo pianto, il singhiozzo che lo scuote. Ha l’età millenaria del suo popolo. Ho visto in lui il popolo immenso delle vittime, da tutte le tribù della terra.

Ecco perché le razze non esistono: perché il pianto e il riso sono uguali in tutte le lingue e le culture; perché il dolore e la gioia, coi motivi più diversi, sono uguali in tutti i petti umani, e lo capiscono anche gli occhi di un cane che ci guarda. La vita è comune. Chi uccide lo fa perché è morto: qualche idea morta lo ha avvelenato. Dovremo riportarlo in vita, con tutta la necessaria fatica. Il “non uccidere” è il felice comandamento di vivere. E’ uccidere anche fabbricare armi di distruzione e di dominio, perché la vita è unica, non è divisa in razze, né biologiche né spirituali.

Nessuna religione ha il monopolio della religione.
Nessuna verità è tutta la verità. Nessun popolo, nessuna cultura è l’umanità, e non esiste primato né superiorità tra gli umani che cercano umanità. Le razze e le barriere culturali sono come un centimetro di statura, o il colore del vestito. Sotto, dentro il vestito c’è sempre un essere umano, aperto o chiuso agli umani.

Solo questa è la differenza, questa sì, questa è il problema. Ogni vittima ce lo grida di nuovo: sei umanità aperta o umanità chiusa? Sei armato o pacifico? Sei vivo o sei morto?

(da Enrico Peyretti, mailing-list Sullasoglia)

Marco Biagi

Faccio rimbalzare su COMEGUFI l’articolo preciso de Il Post in occasione dei dieci anni dall’omicidio del giuslavorista Marco Biagi da parte di un commando delle Nuove Brigate Rosse.

Mi viene in mente la scena di “Buongiorno, notte”, di Bellocchio, nella quale di fronte ai dubbi della brigatista interpretata da Maya Sansa, Lo Cascio-Moretti espone la teoria definitiva sull’omicidio di Aldo Moro, non più persona, ma simbolo di un potere da distruggere e in quanto tale oggetto da distruggere. Il collegamento non intende avvicinare Biagi a Moro, come del resto le BR non sono state le Nuove BR, né intende sminuire un dramma a beneficio dell’altro, o viceversa. Ritrovo solamente il medesimo spirito: una ideologia che in nome della (propria) Verità decide la vita e la morte. Qui gli esseri umani di carne e di sangue non esistono più: lo scontro tra idee macella tutto, la presunta rivoluzione nega se stessa affermandosi, cioè rivela la propria essenza di ideologia, di visione mistificata della realtà. Non viene negato solo l’uomo, che è già tutto, ma anche Marx.

Giusto sul bordo

Anni fa l’associazione Macondo, quella che mi ha dato patria spirituale e intellettuale, aveva stampato una maglietta. Non ne ricordo esattamente lo slogan; parlava di speranza e di rassegnazione, della facilità di passare dalla prima alla seconda, mentre quella è infinita, questa è finita. Limitata.

Ho avuto modo di conoscere una persona che studia alle serali. Qualcuno che senza alcuna faciloneria possa dire: non ho tempo di studiare. Arrivando a casa dal lavoro un’oretta prima dell’inizio della scuola, di fatto ha a disposizione parte del week-end per concentrarsi sui libri.

Si fa un gran parlare di meritocrazia e di “ritorno al merito”. Tante belle parole. Qualsiasi personda dotata di senno non passerebbe gli sprazzi di tempo libero sui libri. Magari su di un libro. Ma su quelli scolastici, no. E a ragione. Questa persona lo sa e non si nasconde dietro un dito. Eppure – senza alcuna retorica -  è un individuo di merito, un individuo che merita. Che cosa?

Che ciò che lo circonda concorra ad un senso.
Certo, il senso è opera individuale, affidata a noi come singoli: la lenta costruzione di una direzione personale con cui dobbiamo ripempire i nostri occhi, originale bussola, per rimmeterci “in sesto”. Ma la fatica – perché di questo si tratta, checché ne dicano gli “adultoni” già sistemati – si quadruplica quando intorno appare tutto dissestato.

Posso aver intuito una stella che orienti il percorso. Ma si fa gelida e ancor più lontana se i parametri che ieri consideravo fermi, stamattina li trovo in cocci. Un coboldo si aggira per le nostre case e nottetempo spinge a terra le cose a noi care, poi si nasconde nello specchio e osserva la nostra faccia al risveglio.

Sono dissestato se constato che l’asse portante della filosofia, mia disciplina di insegnamento, e cioè la domanda, l’azione del domandare, non viene in classe evitata per superficialità, dabbenaggine o pigrizia (che son le prime cose che quando ci mastrocoliamo amiamo rinvenire nei ragazzi), ma perché si teme che l’insegnante “ritorca” contro qualcuno, interrogandolo, la domanda stessa.
Sono dissestato se constato che, nonostante il continuo quotidiano “aritmetico” sforzo, alcuni studenti non riescano a tener fede a pratiche minime di lealtà. Non a grandiosi proclami di fiducia reciproca. Non a solenni impegni in nome del dovere. A piccoli patti; al “siamo d’accordo che”. Che poi non è un accordo privato, ma un banale calendario concordato con l’intera classe.

Ecco. Il dissesto mi pare stia nella condanna che qualcuno ha deciso per questi ragazzi: dovete cavarvela da soli. Che non è la celebrazione delle capacità di autonomia. E’ il trionfo del “ci si salva da soli”. Non è il dover commerciare con la complessità del mondo; non è nemmeno il fallimento di orientamenti pedagogici varii, dal direttivo-autoritario al permissivo-libertario; non è il saggiare l’acqua della società fluida.
E’ la caduta delle ipocrisie dei nostri nonni, loro malgrado s’intende, che vivevano la dimensione della comunità per sentito dire, un copiaincolla di direttive ideologiche di una chiesa, di un partito, di un insieme di valori considerato talmente ovvio da essere spazzato via in meno di mezzo secolo. Avevano ascoltato un teorema pensadolo come giusto, non l’avevano mai davvero sentito.
I figli di quei nonni – che sono i padri e le madri di chi ho in classe – stanno in tre categorie: chi pensa che nulla sia cambiato, e arranca e si lamenta e insegna la rassegnazione; chi ha capito che nessuno ha mai creduto davvero alla favola del “vivere insieme” (poco importa se qualcheduno vi ha perso la vita o la salute) e quindi addestra i propri cuccioli ad essere animali solitari; chi non ha mai abitato un assoluto e adesso come allora resiste.

L’individuo è rassegnazione, la soddisfazione è rassegnazione, la grettezza è rassegnazione. La relazione è resistenza, la curiosità è resistenza, la passione-con è resistenza. Tra me e te, tra noto e ignoto, tra l’essere posseduto da una musa e il voler cercare insieme il linguaggio migliore: sempre e comunque la vita sta sul bordo.