Disoccupare il volontariato

Di che cosa parliamo, quando parliamo di volontariato? Chi è il volontario?
Possiamo affermare, cercando una risposta a questi quesiti, che “volontario” nel senso da noi inseguito è chi liberamente risponde ad un bisogno, chi impiega la propria libertà per “andare verso l’altro bisognoso”. E però, come per il dono di Eluard, le parole continuano a mantenersi sdrucciolevoli. Volontario è l’insegnante che si ferma a parlare con lo studente al termine dell’orario scolastico dei suoi problemi, senza poter – qualora lo volesse – trovare una voce nel suo contratto sotto la quale segnare le ore impiegate; è l’assistente sociale che si spinge oltre la meccanica e giuridica soluzione di un disagio; è l’educatore di comunità che accompagna l’esistenza del minore anche dopo la fine del progetto e fuori dalla comunità di accoglienza, quando egli minore non è più, ma i cui problemi rimangono; è l’avvocato o il terapeuta che offrono la propria prestazione pro bono; è il ruolo della nonna o del nonno nell’accudimento quotidiano dei nipoti, nell’ottica di un welfare familiare… In questo senso sono volontari, ma raramente li si chiama tali, l’educatore di Azione Cattolica o il capo scout Agesci; l’animatore del Grest parrocchiale o la signora del bar del patronato, ma anche lo studioso che aggiorna e corregge le pagine di Wikipedia. E oltre, addentrandoci nella complessità del tema: è volontario in questo senso colui che aderisce coscientemente ad un progetto nel Terzo Mondo perché così sta in Brasile senza spendere troppo? E’ tale il milite dell’Associazione di Pubblica Assistenza affascinato dal (relativo) potere di una uniforme? E il presidente di una Organizzazione di Volontariato che attraverso il suo ruolo costruisce una rete di alleati in vista di un debutto politico?

veriricchicope

Questo è uno stralcio dell’introduzione a questo libro, scritto attraverso il lavoro di molti giornalisti che hanno interpellato alcuni rappresentanti del volontariato di Padova.
La presentazione avverrà Martedì 11 dicembre alle ore 18,00 presso Palazzo Moroni. L’introduzione a I veri ricchi è una mia riflessione, richiestami tempo fa dagli amici del MoVI e in parte rivista per questa diversa occasione.

La sfida sarà rimanere nell’alveo dell’antiretorica.

 

comunque, parlarne (del motivo femminile)

Nel febbraio scorso ci fu la prima grande iniziativa di Se non ora, quando.
Parlare della violenza sulle donne non è solo un capitolo del libro sulla violenza in generale. E’ anche un capitolo del libro che racconta la nostra evoluzione culturale, nostra inteso come nord-ovest del mondo, tanto per cominciare. “Le streghe son tornate”, affermavano in piazza. Ed è vero, perché aver scordato i motivi ragionevoli del femminismo ha portato a dimenticare che, nel quotidiano, la parità (che non significa omogeneità) è ignorata. E la donna-oggetto non è la tanto vituperata “Velina” (ella sa quel che vuole), ma la pretesa strisciante che l’essere umano femminile sia “disponibile alla mano”. Già in questo, è violenza, come con le presunte fattucchiere secentesche.

 

il presidente

IL PRESIDENTE ha una caratteristica che balza agli occhi di chiunque lo avvicini: mentre gioca a bocce o beve birra, durante la notte o quando copula; persino nelle sedute parlamentari che presiede da quando si è verificato il gran cambiamento. Più di un movimento delle sue mani lascia trasparire questa sua caratteristica, inspiegabile a tutti, e che tuttavia appare così evidente da non sfuggire nemmeno ai profani. Si sostiene che la sua origine vada ricercata in un processo che non si può, né si vuole, più arrestare. Si richiamano alla memoria momenti in cui si sono percepiti fenomeni che potrebbero averla determinata. In realtà tutti sanno di cosa si tratti. Nel timore di poter essere chiamati a risponderne, evitano di parlarne o discuterne in pubblico. Anzi, confondono accuratamente le tracce. Ma non la si trova solamente nella coda dell’occhio del presidente. C’è anche in altri punti del suo corpo, opulento e inquieto. Nei suoi stessi sogni. In chiunque la riconosca produce una tensione che col tempo si tramuta in contagio. Sino ad esserne invasi. Non è nient’altro che la brutalità“. (Thomas Bernhard, Eventi, 1969; disegno tratto da Makkox)

Un morto “di destra” vale di meno?

Questa veloce recensione comparirà prossimamente su “Madrugada”.

Destra e Sinistra. Due parole che fino a all’inizio dell’adolescenza stanno a indicare quale scarpa mettersi. Poi deflagrano e si vestono del significato che nell’immaginario italiano e non solo sembra ancora il principale: parti politiche, scelte ideologiche. Marcello Veneziani anni fa sosteneva che sono categorie ormai morte, nonostante la precisa analisi di Bobbio, e che oggi la politica si muove su altre direttive, come “liberal”, “self interest”, “comunitarismo” et cetera.
Ma a guardar bene, specie per la maggioranza dei giovani, sembra prevalere l’apatia. Questo libro, che sta tra il saggio e l’autobiografia, spiega bene sia quale peso abbiano avuto queste denominazioni negli anni Settanta italiani, sia perché quella generazione di giovani ha in fondo prodotto la reazione indifferente di oggi. Il titolo è mutuato da Sartre, ma non si tratta di esistenzialismo, ma dell’esistenza di una bimba padovana che deve convivere, ad un certo punto, con la morte del padre. E non un uomo qualsiasi, ma uno “di destra”, ucciso a Padova dalle Brigate Rosse il 17 giugno 1974. Perché questo omicidio è diverso? La figlia Silvia, con il coraggio di metter la mano nelle scatole del dolore della famiglia, decide da adulta di incontrare i principali protagonisti di quella “stagione di violenza”, contrapponendo la ricerca della verità – tangibile, incarnata – alle filosofie e ai sofismi dei teorici della lotta armata, e provando a comprendere che cosa spinse centinaia di giovani a trasformare la protesta del ’68 nella spirale cieca di prevaricazioni che congelò Padova dieci anni più tardi. Un morto “fascista” vale di meno di un “rosso”? Quale spazio può avere la giustizia senza il riconoscimento del dolore della vittima?
Non c’è traccia di rancore, nelle parole dell’autrice, né tantomeno di vendetta. Ma solo queste domande, sospese di fronte ad alcuni adulti che hanno cercato di contenere quella furia ideologica, e ad altri adulti, ora anche genitori, che non hanno saputo comunicare alle generazioni più giovani che la politica è lotta, ma tra opinioni e scelte operative opposte, è conflitto, ma di intelligenze e non di spranghe o P38.

Memoria della Dignità

“Ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”
(Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982)

Nell’astuccio

Ultimi tratti di Agosto. Dopo la carrellata di focose figure mitiche, sembra che Beatrice abbia aperto l’uscio all’autunno, «mia antica stagione». E comunque ci penserà Settembre a ricordarci che l’estate non è per sempre. Penso siano questi i giorni più difficili, almeno per chi vive ormai da anni abbarbicato ad una temporalità circolare che vede il suo rinnovo proprio in questi tempi.
Anche la vita civile sembra però seguire i ritmi della scuola, al di là del monomaniacale egotismo dei docenti, data la sparpagliata popolazione studentesca che rianima i quartieri. Questo è il tempo del diario nuovo e del riassetto di astucci e cartelle: l’odore della plastica nuova di cartoleria è l’odore del precipizio che si avvicina, è l’odore della fine del tempo liberato.
Diversamente dall’anno scorso, quando il tempo estivo si era prolungato nella mente e nel cuore sino ad averne tedio, quest’anno avverto che la sfida è più acuminata. La rincorsa pare troppo scarsa e il cavallo troppo alto: nonostante la pedana elastica, come alle medie, vorrei rinunciare al salto. Il prof. Angeli mi guardava compatendo più se stesso che il sottoscritto, pensando alla forza che doveva metterci per far fare il volteggio all’adolescente rotondo che aveva di lato. Ora ci incrociamo sul ponte dei Quattro Martiri, la stessa agilità ciclistica e la medesima borsa di cuoio. Che ci metteranno in borsa i prof. di educazione fisica?
La mia, di borsa, giace triste e piegata su se medesima a lato della scrivania, mi osserva panciuta e svuotata, le mentine gorgogliano nella pancia. Domani riprende a vivere e ne gode, sotto sotto.
Che cosa debbo sfidare? L’estate non mi è mai appartenuta, luogo troppo luminoso per non far risaltare i miei luoghi oscuri. Ma mi è ancor più lontana, se penso alla sforzata allegria di cui è popolato FB e i link laterali dei maggiori quotidiani. E’ un unico linguaggio, fatto di vittoria e di olio per il sole, muscoli, propaggini fisiologiche erettili al massimo dell’espansione, costumi alla moda mai troppo piccoli. Tutta questa fisicità mi incanta e incatena, ma non riesco a condividerne nemmeno la giovanile vitalità. Come Comisso, nel suo racconto della guerra: l’esaltazione della gioventù libera in un tempo (e una terra) di nessuno, toraci nudi al sole, il giorno prima della terra di trincea nella bocca, negli occhi. Era vita, ma pur sempre guerra, che fa male anche se è bella.
E ora devo tornare a far da arbitro al vostro gioco del silenzio, come tra i cipressi nell’asilo del Santo Spirito: piccoli prometei incatenati ai banchi (o alle cattedre – che facciamo finta di nulla, ma è uguale). La sfida è far volare lo spirito, quel punto luminoso di energia vitale, senza il quale anche il sangue a gonfiar le vene non scorrerebbe, se non pigro e indolente. La sfida è riprendere quota, su, dalle sabbie appiccicose e dalle ghiande dei porci, ai masi solitari sotto le Pale di San Martino, meta comoda finché non si tratta di spegnere il motore e vedere se camminare è ancora possibile (ma non come escursionisti: ché, anche là il meglio è la vittoria del fisico sulla pendenza. Io invece parlo di sconfitte). La sfida è un’aria più sottile, senza onde di telefonini: il segnale è assente, il messaggio sarà inviato più tardi. Eh no, perché il messaggio siete voi, siamo noi.

Paolo Borsellino

Domani, vent’anni fa, veniva ucciso Paolo Borsellino.
QUI un articolo di Saviano a commento dell’anniversario e di questo libro di Enrico Deaglio (QUI un’intervista all’autore tratta dal Fatto Quotidiano; QUI alcuni passaggi).

QUI un sito intitolato all’ultimo giorno di vita del magistrato.

Da questo sito riporto due immagini, tra le molte regalateci dal figlio Manfredi, che mi hanno colpito. Vita e morte di un uomo normale.

(Autunno 1976, con la figlia)

(Il rito funebre)