Insomma, sempre fuori dai!

Mi pare che non vi sia nulla di meno vicino a Kierkegaard di un aspetto dei tempi in cui vivo.

Kierkegaardiana era la consapevolezza dolorosa che qualcosa in noi è sempre e comunque manchevole. Niente di autoflagellatorio, ma la certezza che non siamo – direbbe Arthur Schopenhauer – “angeli senza corpo”: la semplice presenza di un corpo ci rende limitati. Bellissimi, angosciati e limitati. Anche se rassodato, depurato, tirato a lucido, anabolizzato… Il nostro essere corpo ha limiti evidenti, diversi tra uomo e uomo, simili in generale.

Al contrario, oggi ci è chiesta sempre la massima prestazione. Non sono queste righe una critica al senso del dovere, al lato costruttivo di porre accento sul merito o all’assunzione delle proprie responsabilità, quanto un breve borbottio notturno circa la pressione sociale del dover essere sempre “a posto”. Siamo misurati – da chi? – nel nostro fare lavorativo, economico, solidale, estetico; digerente, circolatorio, sessuale, riproduttivo; intellettivo, relazionale, affettivo, erotico.

La massima prestazione comunque e ovunque è un ideale, una ideologia. Il fatto stesso che aumenti il numero dei Neet, o che la transizione verso il lavoro sia rimandata di continuo, in / da un sistema formativo autoreferenziale, sembrano strategie di resistenza contro la “società della prestazione” come direbbe Byung-Han. Ma il tutto si riduce così ad uno scontro tra ragazzi testardi.

È ideologico, dunque, l’Ottimo-sempre. E lo sappiamo, nelle nostre vene. Ma non lo conosciamo, e quando da lontano, ai margini della coscienza, si avvicina una qualche minuscola sconfitta, ma la distanza è ancora ampia e nulla possiamo figurarci di preciso, quando solo avvertiamo la possibilità remota di qualcosa che ci metterà alla prova – come un leggero profumo dolciastro di alberi in autunno, percepito ma non realizzato in questa strada di città – ecco che attiviamo difese minime immediate, che confermino il nostro essere a posto, cioè essere al mondo. Una musica nelle cuffie, un caffè al bar, un acquisto on-line, il progetto di una vacanza. Ecco dove agisce il Mercato, ecco dove ci vogliono a posto, ecco il luogo che stanno costruendo per noi, l’Utòpia reale, la Città Iperconnessa, nella quale tutto è a portata di mano, al nostro prezzo, calcolato proprio per noi sulla base di algoritmi a seconda del quartiere, degli acquisti recenti, dei like prima espressi.

Non v’è scampo. Abbiamo nei fatti accettato (i nostri avi lo fecero) il sistema industriale e tecno-scientifico, accetteremo anche questo, perché pagare con il pollice è in effetti molto comodo (l’opponibilità non nacque per ciò?) , così come farci arrivare un libro o usare la banca-on-line per i biglietti del teatro.
Ma.
Rimane il ma, lo stesso da Parmenide in poi: guarda al tuo bisogno reale, e poi alle tue possibilità, non avanzare come un “uomo a due teste”: curvati sulla tua pancia e ascolta la richiesta vera.

PS. a perfetto commento di quanto scritto (o meglio, viceversa), questo video by Steve Cutts [grazie Ric]

Una riflessione sui Millennials

Che cosa sono, o meglio, chi sono i Millennials? Alcuni parlano di Generazione Y, o vero i nati tra il 1980 e il 2000, coloro che vengono dopo la Generazion X (1960-1980) e che precedono la Z (1995-2010) – prendendo questi range con un poco di grano salis.
Potrebbe essere già di interesse capire il perché di queste classificazioni, che incrociano sociologia, economia e antropologia. Ci si pose il problema dei nati tra il 1860 e il 1880? Coloro cioè che vissero i primi passi dell’Italia Unita? Certo, poco prima sulla scena c’era la generazione dei risorgimentali e poco più tardi appare la prima generazione in qualche modo tradita dai padri che la inviano nelle trincee della Grande Guerra. Ma, al di là di questo, un secolo fa la questione, se mai, era: alfabetizzato o no? Emigrante o no? Inurbato/operaio o no? Militesente o no? Si tratta di domande storiche.

Il “motivatore ed esperto di marketing” Simon Sinek, proprio in quanto tale risulta particolarmente convincente nella descrizione e nella difesa di questo gruppo umano. Una lettura utile per i docenti universitari (al limite) e soprattutto per i datori di lavoro (ai quali non a caso anche J. M. Twenge dedica un capitoletto nel suo Generation Me). Sinek è del ’73, la docente californiana del ’71 – dunque miei coetanei: è possibile che alla soglia dei quarantanni venga naturale porsi una domanda sui giovani che si hanno attorno? Forse perché si fatica a decifrarli? L’analisi della Twenge, tra l’altro, affronta un tema che si ritrova in un passaggio di Sinek, inevitabile per altro: il ruolo della famiglie. Secondo Sinek il bug consiste nell’ipercura come soddisfazione totale e immediata dei bisogni; secondo la Twenge sta nel fatto che la generazione dei genitori (quella del baby-boom, almeno negli USA) aveva acquisito la consapevolezza di dove costruire con cura la propria individualità, ma l’aveva fatto attraverso il poderoso strumento del gruppo. I suoi figli invece hanno perso la dimensione collettiva trattenendo l’obiettivo, il self interest. Lo strumento nuovo, quindi, è divenuto il mercato, sostituto di un efficace legame simbiotico che risponde sempre ai bisogni (se hai di che pagare: soldi, tempo, clic).

La lettura di Sinek si concentra sulla necessità di comprendere nuovamente i propri tempi e i propri bisogni, rinunciando alla soddisfazione immediata e alla trappola chimica del meccanismo della ricompensa, formulando una analogia tra l’uso dei social e le droghe o il giuoco d’azzardo, per esempio. E questo non vale solo per i Millennials, ma anche per i loro fratellini e sorelline – e pure per i genitori e i nonni. Il problema, ammette Sinek, non sono i Social, ma l’eccesso – verrebbe da dire: come sempre. Eppure mi pare che non si arrivi al punto – il che non significa che conosca ove sia questo punto, se non che la parola chiave mi paia “mercato” e dunque la logica neoliberista, ospitante una sorta di inganno sulle possibilità dell’individuo, o perfino sull’esistenza dell’individuo come portatore di bisogni naturali e indotti. In questo senso, il “collettivo” non offre soluzioni, né come mera somma di individui (la città esiste ancora?), né come (soluzione Sinek) possibilità di relazioni più autentiche.

Identità  vo’ cercando

«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà  classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà  le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera delle sedie e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà  una divinità  ebraica di averlo fatto al cento per cento americano».
Ralph Linton
tratto da M. Aime, Eccessi di culture; Einaudi 2001

La vita delle cose


 

Mai assuefatti dalla elegia gucciniana, dobbiamo prendere Venezia a simbolo della possibile morte e resurrezione delle nostre città, della forma-città. Le cose servono, e come servi vengon trattate, finché utili, finché segno di qualcosa, ricchezza o amore. Poi vanno sotto. Sotto all’oggetto, che cosa c’è? Ridurre ad oggetto. Ma ancor più in basso? Dove si pone nella gerarchia dell’essere l’oggetto inutile? E la inutilità è una caratteristica permanente? Se sí, lo è insieme all’utilità.

Questo video è dolce. Fino ad un certo punto. Poi vedi senti la nausea del pieno che ci riguarda.

Astio condiviso e apatia


Stando a quanto si legge nell’intervista a Franzen riportata da La Repubblica, il procedimento giudiziario intentato in Germania contro il fondatore di Facebook dovrebbe suonare come una sorta di rivincita, alle orecchie dell’autore di Purity.

Secondo Franzen: 

Il fenomeno Trump è inimmaginabile senza Internet e i social media. Internet ha creato un mondo in cui si può vivere immersi nella la propria realtà virtuale senza doversi mai confrontare con la realtà nel vecchio senso del termine. E Twitter non fa che peggiorare le cose, perché non consente sfumature né complessità. Verrebbe da pensare che postare dei tweet detestabili su una ex Miss Universo alle tre di notte squalifichi un candidato alla presidenza, ma nel mondo di Twitter non esiste distinzione tra pubblico e privato. Se si vive in quel mondo il tweet di Trump, carico d’odio nel cuore della notte, sembra perfettamente normale. Si apprezza Trump perché è “vero”

Franzen non è nuovo a ragionamenti simili, secondo cui la Rete avrebbe il demerito di a. Confondere reale e virtuale e b. Abolire la complessità. E così anche Trump ne sarebbe un sottoprodotto, o almeno sarebbe tale il fenomeno politico a lui collegato, ovvero in altri termini le motivazioni che spingono una parte di aventi diritto a seguirlo. Che su Trump la questione sia un poco più complessa – e allora forse alcune tesi sulla fine della complessità non dovrebbero essere veicolate da una intervista – lo ha dimostrato tempo fa, in Italia su Internazionale, un reportage di Dave Eggers, L’America vista da un comizio di Trump (che non trovo on line se non in inglese, qui).

Ho la sensazione tuttavia che il Web sia solo l’ultimo tratto di un cambiamento ben più imponente. In primo luogo la Rete non fa che ampliare e rendere totalizzante la “logica del telecomando”, secondo cui se alla prima occhiata l’immagine non fa per me, il dito immediatamente mi porta altrove. Lo zapping è l’antesignano della voracità con cui si scorrono i Social. Ora, di per sé, il telecomando non ti dice se ciò che vuoi evitar di guardare o quello su cui ti fermi sono prodotti culturali di qualità o meno. Obbedisce alla tua intuizione del momento, governata da qualche bisogno carsico. Allo stesso modo, la Rete non opera una scelta per te, o meglio, la opera in modo a te incomprensibile, attraverso algoritmi non accessibili ai più. Il cosiddetto virtuale quindi non è l’irreale, ma il massimo della tua realtà fisica di quel momento: un bisogno, una emozione. Che spesso non conosco e a cui non do un nome.

Come intravisto da Baricco nei suoi Barbari, siamo di fronte all’abolizione di qualsiasi gerarchia di valore e ciò ovviamente fa rabbrividire chiunque parta da una prospettiva valoriale di qualsivoglia tipo. Ma non somiglia tutto questo al grido del folle in Nietzsche? L’abolizione di tutti i valori fu da parte sua una presa d’atto, più che una scandalizzata denuncia. E l’avvertimento riguardava il pericolo di costruirsi nuovi idoli, al posto di quelli frantumati. Il Novecento ha fatto del suo meglio, costruendo davvero mondo virtuali ai quali tendere e verso cui trascinare le masse, in nome dell’Uguaglianza, della Nazione, della Razza. Astrazioni, ma portatrici di morte Finì dunque che il mondo vero continuò a divenire favola, ma contro Nietzsche. Ora l’idolo parrebbe il Soggetto, l’io.

A me pare che ci sia ancora, in Franzen, la nostalgia di una guida. Non in termini totalitari certo, piuttosto più vicini alla Missione del dotto di Fichte: qualcuno o qualcosa che salvi le masse dal l’indifferenza della Rete, che le porti alla liberazione attraverso l’intelligenza. In Purity il tentativo dello pseudo-Assange è destinato alla sconfitta, parrebbe. Ma se all’origine sta il dito, che usa il telecomando o sfoglia il tablet, allora si potrebbe trovare una via più efficace negli stoici e contrapporre all’indifferenza forzata della Rete, la loro indifferente apatia, il saper dare un peso adeguato a ciò che incontriamo. Forse dovremmo tornare a studiare Seneca, Marco Aurelio, magari sotto la guida di Pierre Hadot.

Amori in cerca di purezza

“Misericordia io voglio, e non sacrificio”. Roth non mi pare scrittore che si conceda citazioni evangeliche, e così non mi ha stupito non trovare questa misteriosa affermazione, tra le pagine del suo Lasciar andare (Einaudi, 2013). Eppure Il romanzo del 1962 sembra proprio girare attorno al concetto di dovere, declinato nelle sue dicotomiche sfumature di imposizione eteronoma od obbedienza ad un vitale imperativo interiore. È un dovere il rispetto verso i propri genitori? È un dovere portare avanti una vita coniugale? Gabe, il protagonista, sembra vivere in un mondo attutito, ovattato. Segue la propria carriera accademica senza troppa convinzione, osservando distaccato le vicende universitarie, che si complicano quando Paul e Libby entrano nella sua vita, grazie ad una lettera della madre di Gabe – scritta sul letto di morte – dimenticata in un libro di Henry James, loro prestato. Non a caso una lettera materna; non a caso letta dalla seducente e ambigua Libby: la madre, donna forte e complessa, nelle righe al figlio, rilegge il suo matrimonio e così costringe Gabe a rivedere il ruolo di suo padre, che ora invoca la presenza del figlio lontano.

“e ora che suo marito avevo cominciato ad accudirlo io, per caso quella lettera tornava nella mia vita, senza attenuare in alcun modo la confusione riguardo a come gestire il soverchiante amore di mio padre”

E nello stesso tempo, la figura della madre emerge – velata dalla discussione sui personaggi di James – come un termine di confronto spietato per Libby, perennemente indecisa e insoddisfatta, alla ricerca di se stessa come donna e quindi come persona. La sua insicurezza, ai limiti del patologico, avrebbe potuto (dovuto?) dileguarsi con il matrimonio con Paul. Ma ciò non accade, a partire dal netto rifiuto delle due famiglie di accettare questa unione, troppo prematura e, per di più, tra un ebreo e una cattolica. Qui entra l’elemento costante di Roth, o vero la convivenza tra ebrei e gentili, la diversità ebraica in termini culturali in un’America piuttosto moralista. Il limite ambientale, tuttavia, non è nulla se misurato con la barriera interiore che abita anche il “lugubre” Paul Herz.

FranzenRoth

Confine e limite, barriere e steccati. La questione del dovere – dover fare, dover essere, dover amare – si accompagna sempre alla fatidica possibilità: so di esser chiuso dentro un qualche guscio metale-emotivo-culturale oppure non lo so. Chiamiamola consapevolezza, coscienza di sé: pur in catene, rende all’uomo il suo potere. È il potere che Anna Wallach, madre di Gabe, sa di avere nei confronti del marito, che compatisce.

“Io compatisco te, tu magari compatisci me. Ma questo significa che poi ci comportiamo meglio, che diventiamo più saggi? Nel cuore hanno luogo lotte terribili, che il cuore stesso non è disposto a riconoscere, quando il compatimento viene scambiato per amore”

(È quasi irritante il Roth che propone tratti di filosofia a partire dalle vicende che narra. Non perché siano inutili o vacui. Non lo sono. Perché appare così lontano dal Roth più maturo, come uomo e scrittore, così che mi conduce a pensare che anche lui si è fatto con il tempo e le pagine buttate e con gli anni necessari. E si vorrebbe invece per lui e per noi una immediata fluida genialità completa).

Se ti devo amare, allora ti sto compatendo. Gabe lo avverte e molla Marge, giovane divertente, ma subito oppressiva. È interessante come l’assertività che lui dimostra con la ragazzina, poi diviene una sorta di empatia insicura nei dialoghi con Libby. C’è attrazione tra i due, c’è la possibilità di lei, con Gabe, di mostrarsi debole senza patire il giudizio del marito, che non è mai diretto e per questo ancor più doloroso. Eppure, la disponibilità di Gabe diventa occasione per scandagliare, e forse rilanciare, un autolesionismo esasperato, che in lui diventa impotenza. Posso (ho il potere) di ascoltarti ma non riesco a liberarmi dal dovere di aiutarti. Quando lei finalmente racconta tutto, accade anche un bacio. L’unico e “senza troppa confusione”. Potrebbe essere stata questa l’alleanza che avrebbe portato il romanzo a cambiare, forse a essere più banale. Ma è questa possibilità, quella cioè di guardare nell’altro i propri limiti, odiandoli e abbracciandoli, in altri termini l’amore, che sorregge l’intera vicenda, anche se inespressa. Trattenuta. Gabe farà di tutto, non per avere Libby, ma per renderla felice, pur sapendo, o solo intuendo, che sarebbe stata una parvenza di felicità.

Letting_Go_(novel)_1st_edition_cover Paul invece sa che può renderla infelice. Quando la conduce, letteralmente, ad abortire (la miseria economica è una ossessione), quando lei esce dal gabinetto dell’osteopata che pratica illegalmente, solo allora di fronte agli stanchi occhi lei, egli prorompe in una isterica dichiarazione d’amore incondizionato. Il dolore provoca amore? O è solo compatimento? Paul si costringe a riprovare, ancora e ancora.

Provare e riprovare è anche il movimento della storia, che si incunea a metà libro, tra Gabe e Martha, madre divorziata di due bimbi. Qui Roth introduce e prepara i momenti realmente drammatici della vicenda. Il dramma si compie in due atti: nel primo, con l’impossibilità di Gabe e Martha di convivere serenamente, nonostante i momenti dolcissimi. Troppo il peso del padre, specie per la figlia maggiore; troppo il peso dei figli che Martha non vuole, e trattiene solo per dovere. Troppo il peso di una sessualità rabbiosa e irrisolta, che Gabe può solo sfiorare. La protezione da lui ricevuta tra le mura di Martha è troppo simile a quella di un bimbo nel suo letto di casa. Il secondo dramma arriva come un pugno nello stomaco e riguarda il bimbo più piccolo. Ma a questo punto della storia, il dramma è già intrecciato con la tragedia.

Se la praxis tragica di Aristotele è quel fatidico momento atopico, in cui cioè il protagonista non sa più dove si trova, dove abbia luogo e casa riconoscibili, allora essa accade sia per Gabe che per Paul. Prima per il secondo, di fronte al viaggio che lo porta al funerale del padre (un dovere) e finalmente lontano da Libby (la fine di un altro dovere), e poi per Gabe, che si accolla il compito (il dovere) di risolvere un problema di adozione per Libby (e Paul, ma qui è come un fantasma) – e qui Roth esplode nella sua grandiosa capacità di scandagliare la miseria dei sobborghi statunitensi, la povertà d’animo e la miseria sociale di lavoratori e cameriere. Sia per Gabe che per Paul accade il momento di fare i conti con se stessi, di perdersi per poi apparentemente ritrovarsi: il primo nelle braccia stanche della madre vedova, e quindi inesorabilmente ancora da Libby (non è un caso che la vicenda si chiuda con l’incontro tra le due), il secondo altrove, docente all’estero.

Sembra che l’intera vicenda attenda queste svolte, che arrivano molto avanti nelle pagine. Ed è proprio questa capacità tragica allentata, ma non meno potente, che segna la distanza tra questo romanzo e l’ultima fatica di Jonathan Franzen, Purity (Einaudi, 2016).
Potrebbe essere azzardato avvicinare le due opere. Potrebbe essere scontato affermare che la vicinanza si possa fondare sugli stessi temi: l’amore e il poter/dover amare, un padre, una madre, una donna, un uomo. Esiste infatti un tema diverso per un romanzo? Probabilmente no. E l’unica analogia sta nei miei poverissimi tempi di lettura. Ma mi colpisce come, nel lavoro di Franzen, una svolta simile a quella dei due protagonisti di Roth avvenga quasi subito. Pip (Purity) vive già in medias res rispetto agli elementi determinanti la sua vicenda: un lavoro non soddisfacente, una casa condivisa con psicolabili e sbandati post-Occupy, una madre che non vuole raccontare il suo vero passato, né rivelare il nome del padre biologico della ragazza.

Jonathan_Franzen,_Purity,_cover E’ un rifiuto, da parte di un uomo più vecchio di lei («Potrei essere tuo padre»), che spinge Pip a battere il naso sulla sua insoddisfazione e a scrivere una mail decisiva ad un guru contemporaneo, Andreas Wolf, una sorta di Assange-Snowden impegnato a rivelare la Verità al mondo. Ebbene, il mitico Wolf le risponde – e qui scatta la meccanica manipolativa che percorre l’intero romanzo.
Pip esce dal suo angolo invocando riconoscimento, e trova una risposta. Sia lei, che Wolf, come i genitori di lui (la madre, in specie) e gli altri importanti personaggi (Leila, Tom) hanno una caratteristica in comune: sono tutti estremamente consapevoli di se stessi, delle proprie possibilità e soprattutto, direbbe Ellroy, del propri “luoghi oscuri”. Come se Franzen mettesse in scena persone già sazie di anni di psicoterapia. Certo, spiega perché si arriva a questo livello di coscienza, incrociando le storie e scavando nel passato. Ma la vita emotiva è già tutta svelata, spudorata – a differenza del labirinto creato da Roth.

Non è semplice, così, riportare questo secondo romanzo senza rovinarlo a chi debba ancora affrontarlo. Sembra colmo di fatti e fattacci, a differenza di Roth; pieno di dramma, dopo la svolta iniziale, che pure non è tragica. E anche quando si potrebbe arrivare al tragico, allo svelamento dell’impensabile, allo spaesamento, questo non accade. Chi si trova davvero messo di fronte ad una scelta? Forse Tom, sul finire del libro. Ma forse.

Franzen parla di oggi. Parla della potenza della Rete e della confusione tra “venire a conoscenza” e “conoscere”, tra informazione vera e Verità. Immersi nel flusso di Breaking News, possiamo transitare da un twit (non a caso – si dice – detestato da Franzen) ad una pagina di Internazionale, da un canale di informazioni e le notizie selezionate da Google per il nostro cellulare: è una vicenda drammatica continua. E’ un copione scritto per una rappresentazione che coincide con la vita collettiva stessa. Possiamo anche affrontare la differenza tra giornalismo cartaceo, sul Web, investigativo e d’inchiesta e l’operazione di chi si prende il diritto di rivelare la verità, sugli Stati e sulle Multinazionali, al mondo. Entrambi cercano la verità e si fanno portatori di Purezza. Questa è la prima Purity messa a tema, dietro al nome della protagonista: la purezza del paladino Wolf (spietata quando mette a tema se stesso), la purezza del regime sovietico della Germania dell’Est e dei suoi agenti/burocrati/dirigenti, la purezza dei giornalisti investigativi nella denuncia del marcio, la purezza etica della madre di Pip nel rifiutare una montagna di denaro sporco del sangue di bestie da macello (un tema che sembra una sfida a Safran Foer).
Al termine, l’unico vero puro sembra rimanere il giovane Jason, che punteggia l’inizio e la conclusione della storia di Pip. Rimangono tramonti autunnali e scambi scalcagnati di palle da tennis. Per poter fare i conti con la propria Verità, dobbiamo incontrare qualcuno che possa agire la Misericordia.

Un tempo per sperare – futuro interiore, di Michela Murgia

La terra straniera dalla quale parte Michela Murgia, in questo denso Futuro interiore (Einaudi, 2016), non è la pur maltrattata Sardegna, le cui brulle terre e meravigliose acque fanno da sfondo costante, non detto. È la sua età anagrafica, che le permette un carotaggio sui quaranta-cinquantenni. Ma quasi a scardinare il teorema della sua coetanea Jean Twenge (Generation Me), secondo cui già i nati negli anni settanta sono invischiati nel culto dell’Io, divinità pagana eretta nel tempio del Mercato dopo lo sfacelo delle Contestazioni incompiute, la Murgia non guarda all’ombelico rifatto dei suoi coetanei, ma fuori dalla finestra. “Non sapendo quando verrà l’alba, io spalanco ogni porta”, scriveva la Dickinson: forse davvero ci vuole uno sguardo femminile, un pensiero femminile, una intuizione della parte femminile di ciascuno di noi, per rivedere la cura per ciò che è Comune. 


Un libercolo veloce, come generalmente le Vele einaudiane, propone argomentazioni serie e non scontate. La prima: pensare una cittadinanza libera dal giogo (e dal gioco al massacro) delle identità, nella quale si sveli la menzogna della cosiddetta integrazione che maschera una assimilazione vuota e cieca – la tolleranza già denunciata da Pasolini. In una Europa in cui le merci hanno libero passaggio ovunque e le persone invece debbano essere filtrate per non rovinare equilibri demografici e politici – è una sorta di imperialismo al contrario -, ius sanguinis e ius soli sono categorie obsolete. Esistono tuttavia “stati in gestazione” che stanno elaborando percorsi di autodeterminazione: sono esperienze con una storia reale (Catalogna, Transnistria, Scozia, Sardegna…), in cui cioè l’appartenenza non viene inventata, come nel caso della razza Piave. La strada suggerita è quella percorsa dal Canada, in cui centrale appare il coinvolgimento in una comunità affinché essa possa essere scelta. Tra il suolo e il sangue si situa dunque un progressivo movimento di deliberazione, che non può che partire dalle aule scolastiche.

Il secondo ragionamento riguarda gli spazi urbani, la loro bellezza e capacità inclusiva/democratica. Trovo interessante la necessità di rammentare come la bellezza di cui si dice abitata l’Italia sia per lo più nata in regimi abitati da profonda ingiustizia sociale, siano essi monarchici, curiali o dittatoriali. Al contrario, poi, la Repubblica non ha prodotto luoghi belli, adatti alla convivenza, ma quartieri dormitorio destinati ad essere sempre e comunque periferia. Possibile una via di mezzo? Possibile un ritorno alla piazza che non sia solo “del mercato”, ma che costituisca un luogo disordinato, abitato da diversità etniche e generazionali che convivono? La Murgia porta due esempi concreti, vivi. E mi viene in mente tutto il lavoro sotterraneo di Marianella Sclavi.

Il terzo passaggio riguarda il potere. È immaginabile senza una gerarchia? E una gerarchia senza violenza, tacita o agita che sia? Michela Murgia suggerisce come la storia delle donne contenga esempi di gestione non violenta del potere, perché storia di emarginazione e di alleanza tra emarginati. Mi viene in mente David Maria Turoldo, a colloquio con don Lorenzo Milani: concepisco la gerarchia come paternità. E, insieme, la lezione di Socrate: uomo buono è colui che obbedisce a sé stesso e a chi ritiene degno di comando. I padri e un filosofo – pur attento al femminile: questa via nuova al potere non è questione di sole donne. E gli esempi portati nel testicciolo lo confermano. Si tratta piuttosto di rinunciare ad una visione genitale del potere, una potenza inseminatrice che si gioca sul presunto carisma e sulla Soluzione continua, calata dall’alto. Qualunque processo partecipativo, compresa la Rete, deve riscoprire la pazienza, questa sì femminile, del lento coinvolgimento.

Un lavoro, poco fa


In occasione della Festa del Primo Maggio 2016, pubblico le conclusioni dell’ultima edizione della Scuola del Legame Sociale – conclusasi nel luglio scorso, centrata sul tema del lavoro. Sono stato solo il redattore di uno sforzo collettivo.

Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.”

(C. Peguy, 1914)

“Nell’esaltazione del «lavoro», negli instancabili discorsi sulla «benedizione del lavoro» vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. In fondo, alla vista del lavoro – e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera – si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.”

(F. Nietzsche, 1881)

Le citazioni di Peguy e Nietzsche non sono di oggi, ma riassumono efficacemente le contraddizioni dell’oggi e il primo tema del biennio, rappresentato da due delle domande iniziali:

• è possibile parlare di lavoro non più in termini di diritto-dovere?

• è attuale riconciliare le parole “lavoro” e “impegno”?

Le altre due domande-guida sono state:

• è possibile ritrovare e rinnovare il lavoro attorno al legame sociale?

• come ritrovare un patto intergenerazionale fondativo di una nuova cultura del lavoro?

Le considerazioni di queste pagine riflettono solo in parte la ricchezza del dibattito e la complessità dei contenuti emersi, ma riteniamo siano una sostanziale e condivisa sintesi delle principali linee di riflessione.

Labor è fatica. L’etimologia suggerisce il sudore della fronte. La radice è LABH, che è usare forza per ottenere qualcosa, da RABH; il sanscrito RABBHUS è colui che imprime forza, l’artefice scultore. Da qui il boemo ROBOT, lavoro servile, lavoratore di fatica.

Il lavorare tiene insieme la fatica del travaglio, la pena, che rimane nel termine francese e porta con sé il senso della “maledizione biblica”, con l’idea della robustezza, che giace nella radice sanscrita, intesa come costanza e resistenza verso un obiettivo.

Le parole nascono dalla carne e dal sangue. E la parola lavoro ha a che fare con l’azione di trasformare materiali dati dalla natura. Possiamo supporre che questa operazione avesse come primo scopo la sopravvivenza o il miglioramento della condizione di vita: contadini e artigiani.

In questo senso l’azione è, dicevano i greci, póiesis, produzione: il lavoratore ha un progetto in testa, conosce gli strumenti e, applicandoli con maestria (téchne) ottiene quel che aveva immaginato. Il greco non distingue tra la produzione di una cassetta di zucchine o la Venere di Milo, la pulizia di una strada o un’operazione a cuore aperto. In tutti i casi è azione poietica e, se fatta bene, arte.

Ciò che produco, il risultato dell’azione faticosa, possiede un valore.

Prima di misurare questo valore con quell’elemento di universale interscambio, che è il denaro, il lavoro possiede un altro tipo di valore. È quello che ci permette di trovare le differenze tra una cosa ben fatta ed una raffazzonata. Chiamiamolo valore poietico o artistico.

In esso convergono alcuni elementi

• la consapevolezza di un BISOGNO (perché mi metto all’opera? Per qual motivo intendo realizzare questa operazione?) – può essere la fame, il desiderio di costruire qualcosa che migliori una situazione umana, la manìa artistica che non ammette freni, perché è voglia di creare (un quadro, una poesia, una fotografia);

• la PERIZIA tecnica, come conoscenza dei materiali e degli strumenti, capacità di stilare un progetto realistico e un programma di realizzazione adeguato, abilità nel riconoscere il prodotto finito come “perfetto”, creatività;

• la RESISTENZA, come pazienza e convivenza con la fatica, misurazione delle forze fisiche e mentali, distribuzione dei tempi e nel tempo.

Il valore artistico si misura in termini individuali, cioè di soddisfazione, di gioia per un risultato voluto; ma anche in termini sovraindividuali, perché nella costruzione dell’abilità lavorativa entra la relazione con un lavoratore esperto, che fa da maestro. Nel lavoro ben fatto stanno più persone.

Queste competenze sono finalizzate alla definizione di un’opera, ma non si limitano ad essa. Coscienza del bisogno, perizia tecnica e resistenza sono elementi di un lavoro ben fatto, ma anche di un buon lavoratore.

Riteniamo che un buon lavoratore produca un ulteriore valore, che chiamiamo valore sociale. Richard Sennett sostiene che le abilità che l’artigiano dimostra nel corso dell’opera siano le medesime che vengono agite nella democrazia:

• la capacità di localizzare i problemi, cioè di individuare con precisione dove sta il punto della questione;

• la capacità di porsi domande su di essi, di riflettere sulla loro qualità, sospendendo l’ansia di concludere per aprire uno spazio alla curiosità/creatività;

• la capacità di aprire i problemi, cioè il darsi la possibilità di cambiare abitudini e di “pescare” soluzioni da ambiti diversi, ampliando il senso del problema originario.

Il processo lavorativo deve fare qualcosa che alla mente ben ordinata ripugna, e cioè sostare temporaneamente nel disordine: mosse false, false partenze, vicoli ciechi. [R. Sennett]

Come un buon lavoro contiene un processo aperto, allo stesso modo la democrazia è un sistema continuamente da verificare. L’essere in crisi è la condizione naturale della democrazia. Se oggi ci interroghiamo in proposito, come se fosse una novità, è solo a causa di memoria corta. (…) La democrazia non è un regime consolidato, assestato, sicuro di sé. Dove c’è consolidamento, assestamento, sicurezza del sistema di potere, lì c’è in realtà oligarchia, anche se, eventualmente, sotto mentite spoglie democratiche. [G. Zagrebelsky]

In questo senso lavoro è mestiere, come ministerium, officio, servizio. Far bene le cose che dobbiamo fare (o che vogliamo fare) produce un valore per la società, anche senza che esso sia posto da noi come obiettivo esplicito. È il contributo individuale ad un meccanismo, o anche – mutando immagine per introdurre la dimensione della finalità, del senso – ad un organismo. Ogni opera collabora, agisce e concretizza una collaborazione, a meno non si ponga esplicitamente uno scopo di separazione, di divisione.

Il lavoro, misurato nei termini di valore poietico e valore sociale, possiede elementi di gratificazione interni e fisiologici. L’elemento che li scardina e li disconosce è il denaro.

Nel momento in cui, da mezzo/strumento utile a determinati scopi, diventa fine, medium come unico ambito/linguaggio, come unico veicolo di senso tra uomo e mondo, la dinamica virtuosa del lavoro viene messa in crisi.

Non si può eliminare il denaro, qui e ora: dobbiamo prendere atto che siamo prima di tutto – prima di qualsiasi scambio – consumatori e su questa verità biologica il mercato fonda la sua pervasività. Persino adottando come fine ultimo la riduzione totale e drastica del consumo superfluo, è necessario ammettere il nostro essere di organismi viventi che consumano.

Non si può nemmeno separare il lavoro dal suo valore in termini di denaro e cioè impedire che il lavoro venga misurato con il denaro. Si tratta tuttavia di prendere atto che questo metro non riconosce, ma disconosce il lavoro stesso.

Da un lato il sistema del lavoro (chiamato anche con la pessima espressione di “mercato del lavoro”) produce lavoratori che non possono che avere come unico obiettivo lo stipendio, perché la loro individualità non entra in nessun modo nel processo di produzione. Qui i margini della ricerca di un lavoro ben fatto sono labili. Qui (e altrove) la precarietà del posto di lavoro e l’aleatorietà della misurazione del salario hanno come conseguenza l’aumento del conflitto sociale, perché impediscono la progettualità personale.

Dall’altro, la ricchezza è chiaramente spostata nelle mani di chi si pone come obbiettivo la moltiplicazione del denaro (la speculazione), e il suo correlato principale, il potere. Questo è il piano di senso che con maggior forza richiama la giustizia, intesa come equa distribuzione della ricchezza (è il 99 contro 1).

Questo a grandissime linee spiega l’alienazione, che ormai riguarda anche il terziario e non solo la manifattura; spiega la potenza dell’economia finanziaria e dei suoi prodotti velenosi; spiega l’ambiguità di chi lavora eludendo il fisco (e talvolta ciò sembra accadere a prescindere dall’ingiustizia di un sistema di tassazione); spiega infine la crisi del cosiddetto Terzo Settore e perfino del cosiddetto volontariato: in essi si è forse rinunciato all’accumulazione del denaro, ma non a quella del potere. Denaro e potere, inutile dirlo forse, hanno da sempre spiegato la evidente corruzione dell’azione politica e perfino istituzionale.

Il denaro adottato come obiettivo impone al lavoro due elementi cancerogeni: logica della competizione e logica della prestazione. Tutto questo si traduce in termini di riduzione dei tempi, aggressività, dispersione degli spazi (non-luoghi) e assottigliamento delle relazioni, destinate a divenire funzionali, anonime e a breve termine (dato il potenziale frequente cambio di luogo di lavoro, che non è altro che l’ultima espressione del congelamento dei rapporti sociali). Quello che viene messo in discussione è l’obiettivo – che è un bisogno strutturale dell’uomo – di darsi una biografia coerente.

Ora, viviamo in tempi complessi. Prima ancora che sul piano della riflessione (filosofica, sociologica, politica) questo si manifesta nelle esistenze reali: un ottimo falegname non paga le tasse, perché sono eccessive (e lo sono); un progetto relativo alla difesa contadina della biodiversità viene ospitato da Expo, supportato dalle multinazionali; la misurazione delle quote di ingresso di immigrati, e la relativa politica di gestione degli sbarchi, avviene sulla base del bisogno di manodopera; insegnanti appassionati spiegano il diritto al lavoro ad adolescenti che, sottoposti ad un sistema di formazione in continua espansione (in termini di anni di vita), non sanno se potranno trovarne; la potenzialità di un curriculum costruito su multicompetenze acquisite si confonde con l’incertezza dei termini contrattuali (precarietà e flessibilità si mescolano); genitori che non possono che parlare solo il linguaggio del “posto fisso” contribuiscono al mutuo del figlio precario/flessibile; la cooperativa sociale e i suoi dirigenti sono al centro si un sistema di corruzione legato alla distribuzione dei fondi destinati al sociale…

Tutto questo accade, ripensando al motivo fondante di questa Scuola, mentre il Legame Sociale viene vissuto non solo, fisiologicamente, nel suo essere ponte (bridging), ma sempre più nel suo essere chiusura (bonding), nel ribadire identità forti, per lo più create ad hoc. Sono identità religiose – per cui il Testo Sacro si fa legislazione civile; politiche – per cui la difesa del (mio) gruppo si fa bene collettivo (ivi compreso il linguaggio lamentoso delle minoranze resistenziali, che continuamente si rinnovano); sono spesso piccole identità di interesse, che coinvolgono chiunque, compresi coloro che si fanno o dicono attori di cambiamento.

Questa dicotomia ha infatti a che fare con il linguaggio del cambiamento. Ogni prospettiva rivoluzionaria, nel senso ideologico (novecentesco) del termine appare come una chiusura: non è solo impraticabile, ma uccide il dialogo sul cambiamento. Un prospettiva rivoluzionaria implica il disconoscimento del buono che già accade, perché non riconosciuto, o sempre riconducibile alle premesse da abolire. Eppure le premesse rivoluzionarie avevano l’ardire di concepire una soluzione collettiva.

Alla rivoluzione va affiancata e sovrapposta la RIVOLTA, intesa (alla Camus) come atto singolo che metta in luce (rifletta) una disuguaglianza, o pratichi un’azione di abbattimento di una disuguaglianza sostanziale.

Partendo dalla Scuola del Legame Sociale, non possiamo evitare di affermare che, chi come noi abbia il tempo di parlare di cambiamento, può godere di una, per quanto per molti precaria, soddisfazione dei bisogni primari. In altri termini, il cambiamento che desideriamo vedere e agire riguarda sì noi, ma ancor più dovrebbe riguardare chi non ha la forza di poterlo pensare. Qui andrebbe ripresa la categoria biblica dei “poveri”.

La Rivolta per eccellenza – la Rivolta che può riguardarci al termine del biennio – è quella che sta alla base del lavoro: la consapevolezza dei propri bisogni. L’azione di cambiamento appare praticabile quindi in primo luogo sul piano dell’educazione individuale, del confronto tra persona e persona, nei termini essenziali di una ecologia del bisogno.

Discorso e azione sono le modalità con cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda sull’iniziativa, un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità. [H. Arendt]

La domanda: “di che cosa ho davvero bisogno?” (che cosa posso – devo – sono costretto a consumare?) appare la prima iniziativa urgente.

Arrivederci

  
Se permette, prof, La ricorderei così, in mezzo ai suoi collaboratori più stretti. Arrivederci.