La morte di un ragazzo, la morte di Socrate


Stamattina, come ogni mattina a scuola, il pensiero era: andare avanti col dannato programma. Poi ho ascoltato, nella Rassegna di RadioTre, la lettura di Saviano, su Repubblica, a proposito della morte del ragazzo di Lavagna e della questione della droga. Avrei avuto di fronte una classe di coetanei di quel giovane, e, lo ammetto, avrei voluto qualche spiegazione o rassicurazione, proprio da loro.

E già qui, qualcuno potrebbe obiettare che un docente, uomo di quasi quarantacinque anni, non dovrebbe aver bisogno di rassicurazioni dai suoi alunni. Che, se siamo arrivati a tutto questo, è proprio per questa voragine assenza di adulti, figure forti capaci di spiegare indirizzare correggere. Ammaestrare.

Ma io non lo so. Ho apprezzato Saviano, quando ha sospeso il giudizio sulla famiglia, sulle relazioni, sulla vita intima di questa povera persona e si è limitato, per così dire, a parlare di argomenti che conosce bene, quali le dinamiche criminali sottese al consumo di droghe. Allo stesso modo, io non so da dove partire, per capire. Perché farlo, poi? Per evitare altre morti? Perché i miei figli saranno sedicenni in Italia tra non troppo tempo?

Ho letto alla classe la lunga riflessione di Saviano. A metà si è fatto grande silenzio, non so bene in quale punto, ma ho la sensazione che si sia trattato di un riferimento al dolore. O alla morte. Se c’è un argomento tanto lontano e tanto vicino alla mente e al cuore dei ragazzi che incontro, è proprio la morte. La neuroscienza ce lo ha spiegato (vedi “Il cervello adolescente” o anche “Adolescenti. Una storia naturale”), ma Socrate – Platone – ce lo ha rivelato più di duemila anni fa.

Potere uccidere me, dice nell’Apologia, ma dopo di me verranno altri a chiedervi conto di come conducete la vostra vita. E saranno tanto più rognosi quanto più sono giovani. Mi chiedevo perché Socrate facesse riferimento alla età dei suoi imitatori, forse per un pensiero a Platone, forse perché erano sempre i giovani a stargli intorno. Poi ho pensato che solo i giovani possono tenere a bada la morte allo stesso modo di Socrate. Mi son chiesto, e lo chiedo ai miei alunni, perché moltissimi di loro, e anche io alla loro età, abbiano rinunciato a mettere in discussione gli adulti. Non contestazione, si badi, non occupazioni vere o finte, ma domande incalzanti e continue che ci facciano vergognare.

Al termine della lettura, la classe è rimasta in silenzio. Poi come sempre qualcuno ha iniziato a dire la propria, parlando non di teorie, ma di amici che fumano, si fanno, vendono, finiscono al Sert o in comunità, dove imparano a fumare, farsi, vendere ancor meglio. Pensavo al lavoro durissimo di Granello di Senape in carcere a Padova, alla lucidità di Ornella Favero nel testimoniare il fallimento di un sistema che non riesce ad essere educativo. Né dentro, né fuori. Non educa perché pretende di ammestrare, di raddrizzare con la minaccia delle punizioni. Lo fa col carcere, lo fa per la droga, lo fa per lo studio a scuola, dove la motivazione a stare sul libro è evitare il due.

Qualcuno in classe ha detto che se i genitori non danno (o non sanno di non sapere) un limite, poi da adolescenti non si saprà gestire desideri e dipendenze. Qualcuno ha detto che non si può non sapere cosa implica spacciare. Qualcuno, che il gesto è stato egoista, ma vi era tenerezza in queste parole. Tutti convenivano nella possibilità di pensarsi, di essere riconosciuti, responsabili, in modi diversi, con parole anche opposte. Non abbiamo potuto proseguire, perché alla fine, per me come per loro, diventa indispensabile la dinamica burocratica della scuola, obbidirvi e scantarla. Poi, se mai, la vita verrà.

4 risposte a “La morte di un ragazzo, la morte di Socrate”

  1. Non commenti, men che meno giudizi o anche semplici riflessioni. Ce ne sono già tante. Solo qualche parola, come queste che mi vengono alla mente: parlarsi, mettersi in confidenza, fidarsi, dare fiducia, credere nell’altro chiunque sia, volersi bene qualunque sia la vita che si conduce, non lasiare nessuno solo, non sentirsi soli, mettersi in relazione, ascoltare e poi ancora ascoltare l’altro, gli altri, avere pazienza, saper aspettare, un giorno, un anno, anche tutta la vita, parlare con il proprio corpo, sorridere, guardare l’altro negli occhi, con tenerezza, si tenerezza, vivere la tenerezza, guardare il cielo quando è azzurro e quando è grigio piombo senza lamentarsi, non dire..ai miei tempi…,oppure: che tempi questi!, amare la vita, la propria e quella degli altri, avere rispetto dell’altro, non puntare il dito, credere che la vita vale, non con le parole, ma con il proprio essere, con il proprio corpo, essere umani, diventare umani prima di qualunque altra etichetta, amare, sempre, anche quando non si è amati, amare in silenzio senza attese di ritorni, senza aspettative!

  2. Ho riletto solo ora questo post e, scavando nei recessi angusti della limitata memoria, mi sono ricordato di quella lezione. Io la ringrazio di essere un tale professore. Porto con me l’augurio che un futuro una mia eventuale discendenza possa essere anche sua allieva, in quanto professori come lei sono assai rari ed ancor più preziosi. La ringrazio per il suo servizio a favore delle generazioni di studenti che hanno avuto ed avranno l’onore di essere istruite da lei. Istruite nel vero senso della parola

    1. Grazie di cuore, ancora una volta, per le tue parole. Sai bene che l’eventuale maestro è tale solo quando lo decide l’allievo. Ed è stata bella la nostra dialettica. A presto! gvr

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