Disconoscere la scuola


Osservo le ragazze del Cornaro, o del Gramsci, in fila alla macchinetta delle cicche. Attendo il verde e penso alla vibrazione dell’ultimo giorno di scuola prima dell’estate, della settimana finale dell’anno.

Durante un collegio docenti, anni fa, feci la proposta – assurda – di non comunicare l’ultimo giorno di scuola, ma solo un range di possibili ultimi giorni. E poi, una mattina di punto in bianco, comunicare che la scuola è terminata e che da domani si sarebbe stati a casa. La ritualità del meccanismo scolastico, abbinata al caldo di maggio (non quest’anno), crea una situazione eisteniana per cui l’ultimo mese di lezioni si addensa sino a diventare una nota a margine del giorno finale. I tempi si costringono, gli spazi anche e tutto sembra andare alla velocità della luce, almeno per chi sta al di qua della cattedra. Per i ragazzi, probabilmente, vale la percezione opposta.

Penso che una riforma della scuola, almeno superiore, debba usare un unico criterio: costruire un sistema di apprendimento che non sia in nulla riconoscibile dalle generazioni adulte, dai genitori e dagli osservatori-commentatori, quelli che si sdilinquiscono in amare note sulla sostanziale inadeguatezza della scuola. Si tratterebbe di ripensare spazi e tempi della didattica in modo da condurre l’adulto-medio-interessato ad esclamare: ma è scuola, questa?

Penso sia necessario por fine alla falsa credenza per cui la scuola è come il lavoro. Nella retorica esausta attraverso cui i docenti cercano di condurre i ragazzi a stare sul libro, torna regolare il ricatto secondo cui quanto si stia facendo per il vostro bene sia allenamento al mondo del lavoro, che intende il dovere eteronomico al quale gli alunni sono sottoposti come il corrispettivo del posto di lavoro degli adulti, in primis gli insegnanti. Invero, non ci preoccupiamo come docenti di conoscere   l’immaginario giovanile del lavoro, l’esperienza quotidiana famigliare dei lavoratori che ragazze e ragazzi frequentano. In un consiglio di classe non è raro che la maggior parte di noi non sappia nemmeno se uno di loro svolga una qualche lavoro, o come si dice, lavoretto, per contribuire al bilancio di famiglia. I più avveduti di noi al limite sanno che l’iter formativo di un giovane occidentale sta divenendo sempre più lungo, e che master e stage e tirocinii e altro spostano parecchio in là l’inizio di una prestazione a contratto e che preveda un salario.

Che la scuola poi debba essere occasione di fatica, travail, non è altro, spesso, che la proiezione della nostra insoddisfazione di adulti, o della memoria della nostra esperienza scolastica. Persino colleghi più giovani, o forse perché tali, entrano in classe con il cipiglio di un ufficiale al fronte nella Prima guerra – descrivibile da Lussu – con l’obbiettivo di far fare fatica. Non era raro che tali ufficiali mandassero poi i soldati-contadini a maciullarsi sui cavalli di frisia, con corazze ridicole e moschetti ottocenteschi. Dulce et decorum est.

Puntare a creare una condizione di apprendimento tale per cui la fine della scuola sia anche un dispiacere. Possibile? E possibile non solo, come è oggi per molte ragazze e ragazzi perché la scuola salva da una certa solitudine, ma perché – come in talune settimane estive scoutistiche o parrocchiali, una bella esperienza sta finendo e già se ne sente la mancanza? Perché non possiamo osare una cosa del genere? Si badi, non sto invocando una trasformazione in senso meramente relazionale del binomio docente/studente. Non sto menando il cane nell’aia del buonismo, qualunque cosa ciò significhi. La scuola potrebbe mancare non solo perché si sia “stati bene”, questo potrebbe del resto già accadere. Ma perché si sia piuttosto percepito il periodo precedente come pieno zeppo di cose utili, o anche inutili, purché belle. Perché ne siamo riusciti a fare un gioco, o vero qualcosa di piuttosto serio. O questo vale – valeva? – solo per la materna?

Scardinare l’immagine consueta della scuola significa gettare le basi per una nuova alleanza con i genitori, che dovrebbero essere portati a comprendere da zero il senso dell’azione didattica ed educativa. Dovremmo attendere una domanda, che certo non arriverà in modo gentile e curioso, ma scandalizzato. Ma a questa domanda, sincera, si può arrivare solo se il bene più prezioso per queste persone, cioè i loro figli, avranno percepito la possibilità di una loro, di figli, alleanza con quegli altri adulti, meno accudenti e persino esigenti, che sono i docenti. Perché un sistema secondario che nella migliore – penso ora ai licei, di cui ho esperienza – prepari all’università e al lavoro (e nella peggiore esegua le stesse operazioni meccaniche sulla base delle indicazioni nazionali, o vero quanto di più disincarnato appaia all’orizzonte) è un sistema votato al fallimento. A meno che, rimanendo le cose esattamente così, non si decida per esempio, che l’ultimo o il penultimo (che poi diverrebbe ultimo) anno di liceo non sia solo e unicamente dedicato al superamento dei test accademici. Ma questo non si vuol fare, e a ragione, per non svilire l’insegnamento. Ma nello stesso tempo, non si vuol capire che così com’è l’insegnamento non funziona.

Si parla di didattica delle competenze, come del possibile cambiamento. Potrebbe essere una strada per modificare le cose nell’unico modo possibile, e cioè lentamente. Ma si badi alla ipotesi ad hoc ingegnata: per mettere in pratica il saper fare, o addirittura per il saper essere, è necessario prima – dicono i colleghi apparentemente aperti al cambio di paradigma – accumulare un sapere. E cioè ancora le solite nozioni. Che non son solite perché già sentite, per quanto ciò sia probabile, ma perché si tratta di un solito parlare per poi sentirsi ripetere. La modalità, anche con le LIM, è identica alla scuola fine ottocentesca. E quando mai arriverà il tempo del poter – prima del saper – fare?

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