Per Beppe.

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A proposito della tua età, – scattò l’inflessibile Ettore: – che diavolo ti ha fatto partigiano a questa tua dannata età? Per parlar chiaro, io sono propenso a vederci il difetto nei partigiani troppo vecchi. Non mi fido di loro, per continuare a parlar chiaro, ci vedo… interessi. – Tu sei maledettamente sleale con me, a parlarmi d’interessi. Io non so di altri partigiani all’incirca della mia età, ma io fui e sono partigiano per la pura idea. Ed è una vecchia idea, voi eravate marmocchi quando io cominciai ad avere grane per essa. Ma in questi ultimi tempi m’è sembrato troppo poco. Così mi sono ficcato d’impeto nei partigiani.

All’alba dei miei 42 anni, del loro compimento, leggo Beppe Fenoglio.

Beppe entrava nel quarantunesimo anno di età, quando il male sferrò il decisivo attacco. Vent’anni prima, più o meno, scriveva con la pelle ed il sangue la sua vicenda. Sua e nostra. La ripercorro nel bellissimo “libro di Johnny”, che raccoglie con precisione filologica Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny, così come l’autore doveva aver immaginato l’opera al modo di un intero epico, un lungo resoconto che facesse, nel mio immaginario, da mito fondativo dell’Italia a venire.
Un amico, nel farmi gli auguri, mi ricorda che 42 sono i km della maratona. E se c’è una costante, nel Libro, accanto al maledetto e benedetto tabacco, è la ininterrotta marcia di Johnny attraverso le colline delle Langhe, tra Mango e la sua Alba, stella polare la grande Cascina e la sua vecchia materna contadina.
Non sarei stato in grado di marciare al suo pari nemmeno vent’anni fa. E, come allora per i macilenti compagni, che ormai da “vecchi” avevano scelto di fare i Ribelli tra giovani e giovanissimi, avverto l’ironia sui quaranta-e-passa, questo “mezzo del cammin” che costringe a rileggere il già, ma deve ancora fare i conti con un ancora.
Beppe non è arrivato a vedere i 42. Mi chiedo cosa avremmo potuto leggere di suo, dopo. Di decisivo. E mi colpisce che, stante alle scarne note biografiche pescate in giro, si fosse espresso per la monarchia, nel 1946. Certo: la sua anglicità, la sua richiesta di coerenza totale, il suo essere, almeno in pectore, un ufficiale del regio esercito, mi suggeriscono una pista. Eppure, facendogli specchio nell’unica pratica metafisica possibile e reale – come dice Giuseppe Genna – o vero la domanda “chi sono io?”, arrivo ad un’altra conclusione. Beppe sale sulle colline strappando con la famiglia e, vi leggo, soprattutto col padre, che egli, in uno degli ultimi soggiorni nella casa rifugio, osserva salire lentamente, il pacco dei viveri sottobraccio, rivestito della vecchiezza incipiente eppur ancora leggera. Avrebbe voluto per Beppe stesso un presente piombato ed un futuro sicuro, a “cose fatte”. Ma Beppe obbedisce al comando interiore, al magnifico richiamo di quando, come dice Meneghello, ciò che si può fare concise miracolosamente con quel che si deve fare. Questo strappo, necessario, in fondo non si chiude, ma si lacera di più, con la morte di Pinìn, padre di Nord, ucciso nell’ultima battaglia. Beppe/Johnny reclama il tradimento dei padri, così evidente per i ventenni di allora, tanto quasi da concedere un’altra possibilità al Padre Re nel Referendum istituzionale. Ma questa forse rimane la ferita aperta, anche per Beppe padre, strappato dalla vita troppo presto.

Il filo rosso della Resistenza. La prima delle ultime colline

aperteE pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up”.
(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)

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Radicati per i piedi a queste colline, Ottavio e i suoi lo sono sino dal 1976, quando, troppo pochi per aprire quella Cooperativa Valli Unite che poi sarebbe nata, diedero vita ad una Società di coltivatori. Mentre in molte città italiane i loro coetanei interpretavano l’esigenza di cambiamento caricando le armi – sono gli Anni di Piombo e della messa in pratica delle monolitiche assurdità teoriche della rivoluzione armata – questo gruppo di giovani si poneva contro tutto e tutti, pur di fare i contadini. Contro tutto, perché la lunga onda del boom prevedeva il trionfo del cemento e dell’industria (e il Veneto ne venne inghiottito), e quindi l’abbandono di quell’economia rurale troppo legata alla memoria della miseria italiana; contro tutti, perché la generazione dei loro padri si era ormai accomodata nel trionfo della chimica applicata alla terra. E loro no: biologici prima ancora che ne nascesse il concetto.

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Assomiglia agli inizi di Bose, questa storia rurale. In pochi, con il sospetto di una certa follia, e l’accusa di voler fare i diversi. Ottavio ha gli occhi chiari, gioca col bicchiere di rosato, mentre Guido sistema la macchina fotografica per riprendere l’intervista. Il progetto si chiama “Bioresistenze” – anche se i chilometri d’auto Veneto-Piemonte-Veneto hanno contribuito a metterne in discussione anche il titolo. Una serie di conversazioni che hanno come filo rosso l’agricoltura e la resistenza. E Resistenza. La parola è sdrucciolevole, perché sempre a rischio di retorica. Ma lo è solo se non ha nulla dietro. E invece queste persone e le loro mani dimostrano che c’è eccome un modo per resistere.

QUI la seconda parte dell’intervista.

La vicenda di Valli Unite ha a che fare con i sogni di gioventù di qualcuno – solo l’idea che questo sia possibile, che sia possibile immaginare e intraprendere un progetto per come lo si desidera, fa oggi rabbia, perché vogliono convincerci che non è più praticabile – ma ha le sue radici nel sangue partigiano delle colline piemontesi. C’è Nuto Revelli e il suo Mondo dei vinti, che ammonisce Ottavio perché “non può rimanere l’ultimo contadino”; ci sono Bianco e Giambattista Lazagna (anche qui) tra i padri costituenti di Valli Unite: non erano monumenti di pietra a loro stessi e alla lotta in Val Borbera. Ma esseri vivi, allora cinquantenni, che da giovani avevano preso le armi, per dare un senso alle idee che covavano. Poi le armi hanno taciuto e – qui sta la differenza con qualsiasi parte “altra” – le idee sono rimaste, semplicemente perché esistevano da prima dell’8 settembre, e si sono fatte sangue sudore e muscoli in tante altre pratiche, magari umili e inoffensive (Bianco riparava radio, costruiva bobine, aggiustava qualsiasi cosa ospitasse circuiti elettrici – nella foto di Irene, il poster a ricordo). Ottavio e i suoi dovettero apparire loro come una naturale prosecuzione.

CiaoBianco

Quel che emerge è la vita del lavoro intesa come veicolo di dignità. Quel che permette a sera di fermarsi sotto il pergolato e bere e fumare e raccontare. Non cerchiamo altri potenti definitivi significati: solo l’allegria dell’impegno, “solo” l’articolo 1 della nostra Costituzione.
E’ proprio la dignità, il riflesso azzurro che balena negli occhi di Renzo Balbo, classe 1930, staffetta partigiana nelle Langhe e nipote di quel comandante Nord raccontato da Beppe Fenoglio. E di Nord conserva tutta la fiera eleganza, una sorta di compostezza anarchica. Ci accoglie insieme alla moglie nella grande casa di Collegno: penso alla Ginzburg e vorrei avere un milionesimo della sua capacità di raccogliere, nelle attempate stanze, gli echi dei Bompiani e degli Einaudi, e di descrivere la nobile borghesia piemontese, le sue gozzaniane “buone cose di pessimo gusto”. E’ la villa dei Richelmy: il tempo e le brecce non cancellano la solennità di quelle esistenze, il rigore delle vite e delle morti, quasi immortalate nelle rughe dei secolari alberi del giardino.

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Come s’usa, ci accomodiamo nel salotto buono del piano nobile – l’unico ormai rimasto attivo. L’operazione Bioresistenze non si schiaccia sul suffisso “bio” delle colture, ma – grazie a Irene, la maggior esperta in Italia del poeta Agostino Richelmy – arriva a interrogare la dignità del lavoro contadino alla luce di quella del lavoro intellettuale, e viceversa. E’ proprio Renzo, medico, fotografo, critico, partigiano… ad insistere su questo concetto. Complice l’enorme numero di fotografie impilate negli angoli e sui tavoli (si sta costruendo una mostra dedicata al lavoro di Renzo), la stanza appare abitata da centinaia di anni di storia. Sopra eroi e tombe in versione italiana. Hai la netta impressione che tutto questo ti riguardi, anche se sei (o proprio perché sei) un insegnante veneto in cerca di memorie.

(Qui: video Renzo Balbo – in attesa di caricamento)

«Non vergognatevi di usare questa parola, intellettuale», ripete Renzo. Si percepisce nella  pelle che non desidera raccontare fatterelli bellici, lui che pure ogni anno celebra il 25 aprile tra la val Belbo e la val Bormida. Stila una lista di priorità dello spirito, da Gramsci (contro i suoi traditori e falsi interpreti) a Camus (contro Sartre e le ambiguità del comunismo francese), rammentandoci che si tratta di una questione quasi genetica, perché già il suo avo aveva dovuto rinunciare agli onori dell’esercito per aver appoggiato Santorre di Santarosa durante i primi vagiti dell’Indipendenza. E poi lo zio, lo splendido Nord (nell’immagine sotto), e lui stesso: da sempre una lotta contro gli “avvocati”, coloro che vivono di parole che risuonano vuotecome rami appesi al muro. Mi risuona esempio vivente di quella stirpe di persuasi – Michelstaedter, Mreule – pur dall’altra parte dell’arco alpino.

Nord-al-tavoloAnche la parola “resistenza” – dice – è stato accalappiato dagli avvocati. Renzo rivendica il termine “Guerra Civile” perché di scontro bellico tra eserciti opposti si trattava. Non solo un opporsi-a ma un proporre-contro decisamente e superbamente, una visione del mondo e dell’Italia. A margine delle rapide connessioni intellettuali – e dei lazzi alla volta di Irene – Renzo fa esplodere una risata argentina di ventenne. E’ proprio il vivre le plus camusiano che irrompe. Ci consegna, lui, staffetta, non la memoria di cose passate, ma l’indignazione verso la menzogna che abita il presente.

Fare luce, illuminare la verità – meglio: LE verità. Per come si è, prima ancora che negli studi e nei discorsi. Il filo tiene, perché il nostro ultimo incontro, quello con Gustavo Zagrebelsky, viene ospitato nell’alveo della coerenza. Il professore ci riceve nello spazio fresco ma angusto che la nuova mastodontica sede universitaria torinese ha previsto per lui. Tra le foto, appeso al muro, il bando di esecuzione della Repubblica Romana del 1849. Anche Renzo ce ne aveva fatto cenno (ecco, la coerenza) – viene in mente l’ode alle Rivolte, alle rivoluzioni mancate, le uniche affidabili, cantata proprio da Camus.

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A Zagrebelsky piace per il linguaggio giuridico impiegato, semplice e diretto. E la sua riflessione sta proprio sospesa, anche su nostra insistente e tollerata richiesta, tra il fatto e il linguaggio, tra quel che la realtà impone, e i nomi per dirlo. Dunque, che cosa è la democrazia? Il giurista ricorda Rousseau: se posso pagare, delego. Si riferiva al servizio nell’esercito, ma possiamo oggi estendere il principio di “ignavia” a tutti gli ambiti. La democrazia contiene il “virus” del progressivo rifiuto alla partecipazione, non tanto come espressione di una precisa volontà anti-democratica, quanto piuttosto come lento abbandono della presa di posizione, dell’attenzione, della vigilanza. Dentro la profonda buia pancia del Mercato – penso io – i nostri bisogni (primari o indotti) vengono solleticati e soddisfatti. Perché preoccuparsi oltre?

Se poi la logica mercantile si incarna negli uomini e donne della Risposta, della Soluzione, ecco che la delega si fa “attiva”, si fa sequela di provvidenziali figure che “scendono in campo” e immagano con il loro linguaggio pubblicitario. Diviene alla fine una delega del pensiero. Viene in mente Kant, nel suo Was ist Aufklaerung?: “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.

 

Zagrebelsky chiede tempo per pensare, anche a noi. Serenamente confida che troppo è lo spazio dedicato a interviste e similia e sottratto al lavoro di testa. Petulo con una domandina sulla Resistenza, ma il gong è suonato. A ben vedere, ci fosse ancora la pellicola, i metri girati sarebbero più che sufficienti. Dopo le firme sui libri, minuscolo omaggio al feticismo della carta stampata, ci salutiamo cordialmente. Il caldo torinese ci inghiotte; nuotano con noi gli studenti dell’ateneo stellare. Le vetrate architettoniche moltiplicano le persone, forse anche le idee. Sulla strada del ritorno ci siamo sentiti vivi e commossi.

Vivo, prendo parte

aperteOdio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani.
Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. gramsci
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

25.aprile.2013.la.differenza.

Massimo Gramellini, oggi su La Stampa.

aperteOggi il modo più diffuso per commemorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Un signore ha scritto scandalizzato dopo avere udito all’uscita da una scuola la seguente conversazione tra ragazzi: «La prof dice che giovedì non c’è lezione». «Vero, c’è qualcosa tipo… una liberazione». Ma anche i pochi che sanno ancora di che cosa si tratta preferiscono non diffondere troppo la voce «per non offendere i reduci di Salò», come si è premurato di precisare il commissario di Alassio. Una sensibilità meritoria, se non fosse che a furia di attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci sono state nella prova che fra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi stava con i nazisti non esisteva alcuna differenza. La differenza invece c’era, ed era appunto politica. Se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a 68 anni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile. Grazie, partigiani.

(Roma, luglio 43)

Un aneddoto con Foa

Vittorio Foa incontra alla camera dei Deputati un ex-fascista eletto deputato. Hanno uno scambio di battute sul fascismo, l’antifascismo e la guerra. Foa ad alcune considerazioni del suo interlocutore così risponde: “La differenza tra noi antifascisti e voi è tutta qui: abbiamo vinto noi e distrutto il fascismo e tu puoi essere un deputato al Parlamento. Se vincevate voi, noi saremmo stati fucilati o saremmo morti in galera, mentre non ci sarebbero più ebrei in Italia” (reperito in rete).

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(Natalia Ginzburg; Vittorio Foa; Norberto Bobbio)

Dall’operazione BIORESISTENZE, un Bach dedicato alla guerra partigiana

Io ho firmato “Riparte il futuro”

firma per ottenere trasparenza

e impegno contro la corruzione

La corruzione è uno dei motivi principali per cui il futuro dell’Italia è bloccato nell’incertezza. Pochi in Europa vivono il problema in maniera così acuta (ci seguono solo Grecia e Bulgaria). Si tratta di un male profondo, fra le cause della disoccupazione, della crisi economica, dei disservizi del settore pubblico, degli sprechi e delle ineguaglianze sociali.

Il prossimo 24 e 25 febbraio verremo chiamati a eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento. È il momento di chiedere che la trasparenza diventi una condizione e non una concessione, esercitando il nostro diritto di conoscere.

Per questo domandiamo adesso, a tutti i candidati, indipendentemente dal colore politico, di sottoscrivere 5 impegni stringenti contro la corruzione. Serviranno per potenziare la legge anticorruzione nei primi cento giorni di legislatura e per rendere trasparenti le candidature.

Giovanni Realdi, 39a, varie – Riparte il futuro.

AGGIORNAMENTO del 6 marzo 2013: ecco i parlamentari aderenti.

dalla rete della Rivoluzione Solidale

Che di per sé non va confusa con la posizione di Ingroia, che si chiama Rivoluzione Civile. Si tratta di alcuni contatti interessanti a partire dal movimento della società civile; per la precisione: due appuntamenti e tre link.

UNO. «Federsolidarietà Veneto è l’organizzazione che rappresenta quasi il 70% delle cooperative sociali nella nostra regione, conta 464 cooperative iscritte, con 18.000 addetti e oltre 23.000 soci. Inserisce al lavoro 1.820 persone svantaggiate. Offre servizi specializzati alle fasce più deboli (persone con disabilità e disagio psichiatrico, con percorsi di tossi- codipendenza o reclusione, emarginate o povere, bambini, anziani, donne vittime di tratta o di violenza) e assiste le loro famiglie». il 26 gennaio p. v. propone una MOBILITAZIONE GENERALE DEL TERZO SETTORE, a Venezia, Pala Taliercio, a partire dalle 8,30. Alle 11,30 inizierà la sfilata pacifica sul Ponte della Libertà.

siamoilsociale

DUE. dottClownIl 9 febbraio p.v. la associazione Dottor Clown di Padova espone in un convegno il bilancio dei suoi primi dieci anni di attività, centrati su questo “sogno”: «un ospedale pediatrico dove il bambino possa sentirsi al centro dell’attenzione e dove ci sia ampio spazio per la comicità e le emozioni» (dal SITO).

TRE. Il progetto PAGELLA POLITICA è una delle espressioni di un atteggiamento (e metodo) diffuso da tempo nei paesi anglosassoni e che si chiama FACT-CHECKING. Si propone cioè di raccogliere le principali dichiarazioni di politica (rilasciate attraverso qualsiasi mezzo) e contenenti fatti verificabili per confermarle o smentirle anche a mezzo dei naviganti in Rete.

QUATTRO. Un gruppo di persone che, come molti invece silenti, è stufa della corruzione (e come fatto, e come mentalità) ha dato vita alla PETIZIONE di cui si parla in questo sito. L’iniziativa è correlata a e sostenuta da Libera e Gruppo Abele, garanzie di trasparenza; si richiama esplicitamente a questa campagna del 2011.

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CINQUE. GIANNI BELLONI è amico e giornalista. Se la categoria non fosse resa inaffidabile dai vari sessantottardi che poggiano il deretano nei salotti in TV, lo definirei proprio un intellettuale, il dotto sette-ottocentesco che osserva l’andare delle cose e, senza indurre opinioni, offre invece descrizioni efficaci capaci di creare opinioni stesse nella testa di chi legge/ascolta. Questo è il suo BLOG , intitolato “corse in salita” (e a me viene in mente il Sisifo di Camus). Questo è uno dei suoi progetti, il Laboratorio dell’Inchiesta Economica e Sociale (LIES). Nell’immagine, l’interpretazione di Sisifo di Bob Verschueren, in Arte Sella.

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Con questo filmato, porgo a tutti i migliori auguri per un Natale quanto mai pregno di contraddizioni. L’Occidente si dice in crisi e molte persone lo sanno, perché non hanno lavoro o non arrivano alla fine del mese. Ma coloro che percorrono i negozi hi-tech di Padova sono dispiaciuti perché non hanno trovato il gingillo che desideravano… Tutti esauriti. Tra di loro, alcuni sapranno serenamente farne a meno, e si sentiranno un po’ strani; molti invece non hanno idea di cosa succeda fuori dal proprio naso/cuore/testa. E allora si regalino per Natale qualche minuto di Report o un abbonamento ad Internazionale. Qui non si tratta di attendere la venuta di Qualcuno, ma altrettanto decisamente il Suo ritorno, che non avverrà in assenza di giustizia. E portino pazienza coloro per i quali queste parole non hanno senso.

 

comunque, parlarne (del motivo femminile)

Nel febbraio scorso ci fu la prima grande iniziativa di Se non ora, quando.
Parlare della violenza sulle donne non è solo un capitolo del libro sulla violenza in generale. E’ anche un capitolo del libro che racconta la nostra evoluzione culturale, nostra inteso come nord-ovest del mondo, tanto per cominciare. “Le streghe son tornate”, affermavano in piazza. Ed è vero, perché aver scordato i motivi ragionevoli del femminismo ha portato a dimenticare che, nel quotidiano, la parità (che non significa omogeneità) è ignorata. E la donna-oggetto non è la tanto vituperata “Velina” (ella sa quel che vuole), ma la pretesa strisciante che l’essere umano femminile sia “disponibile alla mano”. Già in questo, è violenza, come con le presunte fattucchiere secentesche.