la società della prestazione

A ben vedere, il semplice fatto di scrivere un post in un blog è allineato alla logica della prestazione: se scrivo è per render pubblico un pensiero, così che qualcuno legga e si ponga in accordo, in disaccordo o faccia i suoi distinguo. Ma, a parziale discolpa, i miei lettori sono meno di quelli manzoniani. Quindi in pratica scrivo per me.

Sempre qualora si debba rilevare una colpa, un’accusa del tipo: anche tu desideri apparire. Ebbene, sì. Ma non è una colpa: sto al mondo e obbedisco al mondo finché esso non mi costringa ad andare contro me stesso.

Chiamo logica della prestazione una delle possibili linee di forza con cui cercare di spiegare quanto ci circonda. Non ha la pretesa di dire la realtà, ma di offrirne una griglia interpretativa. Giudizio riflettente, lo chiamerebbe Kant. Secondo la LdP, ciascuno di noi è invitato ad agire non con l’obiettivo dell’azione stessa, ma con l’obiettivo di essere giudicato “a posto”, accettabile, degno di riconoscimento e di fiducia. L’obiettivo dell’azione non è realizzare quanto l’azione prevede, i mezzi migliori per un dato fine, ma è spostato: si punta qui, per ottenere un là. Per esempio potrei scrivere questo post non perché ne ho bisogno, o perché voglio gettar luce su un mio garbuglio mentale, ma perché così posso venir letto, commentato. Visto. Per esempio studio non per apprendere, ma per evitare un brutto voto. Gioco a calcio non per la mia passione per questo sport, ma perché così sarò preso in considerazione per una squadra più quotata. Lavoro non per trasformare la natura (sia essa materiale come spirituale) ma per conservare il mio posto, per soddisfare un capo, per pagarmi le rate dell’auto, per mantere alto il livello della qualità materiale di vita.

Il soggetto così non è il portatore dei mezzi verso un fine, e non è nemmeno – secondo il paradigma classico, l’attore della propria realizzazione. Il soggetto agisce per essere oggetto – visto, letto, guardato, riconosciuto o solo accettato. In questo il soggetto/oggetto mette la propria realizzazione. Non mi importa se quanto scrivo è logicamente argomentato, o concerne quanto più possibile la verità dei fatti: scrivo perchè di me si parli. Studio per evitare l’ansia del brutto voto, che genera delusioni in famiglia: quindi se questo è l’obiettivo, non mi interessa che l’azione dello studiare obbedisca a se stessa, perché possono esserci altri mezzi per evitare quell’ansia. Gioco a calcio per arrivare “in alto”, ma se posso arrivarci tramite una “spintarella” il gioco, letteralmente, è fatto. Per conservare il mio posto di lavoro posso anche reperire delle scorciatoie; per soddisfare un capo posso leccargli il sedere; per guadagnare di più posso cercare espedienti sotterranei o anche illegali. Di quel che è lo scrivere, lo studiare, il giocare, il lavorare – in sé – in fondo non mi dò pensiero.

Mi si obietterà che io sottointendo il fatto che ciascuna di queste azioni abbia una propria natura, alla quale posso obbedire o, nella LdP, non farlo. E mi si chiederà di dimostrare questa presunta essenza. Rispondo che non intendo affermare che esista il “lavoro in sé”, ma che esiste qualcosa che riconosciamo collettivamente come lavoro. E questo dovrebbe avere a che fare con una passione, una serie di competenze, un problema da risolvere e la scelta dei mezzi più efficaci per farlo. E così per le altre azioni. Nulla di assoluto, ma solo il tentativo di obbedire al mondo come lo abbiamo costruito e al linguaggio che usiamo per dirlo.

L’elemento deteriore in tutto questo, è che la LdP agisce in maniera carsica. Cioè siamo convinti ad accettare questo tipo di logica come quella ovvia, naturale. Qui sta l’abisso, il fatto cioè che sia la paura il movente ultimo. Se non sei così, sei fuori. La LdP diventa drammatica quando non è oggetto di scelta, di riflessione, di deliberazione. Perché in questa maniera non saremo mai portati a confrontarci con la responsabilità della nostra azione. «Non sono cattiva, è che mi disegnano così» diceva un cartone animato.

de-schola#5

Ilvo Diamanti ci va giù duro, su Repubblica.

Ora, se un ragazzo in età scolare legge la rubrica di ID, significa che è curioso e informato. E non ha bisogno dei suoi insegnanti.
Altrimenti, a chi è rivolto questo appello?
Al governo, perché si renda conto di quello che è davvero la scuola statale (e il sistema d’istruzione in generale).
Ai genitori, perché si rendano conto di quale modello sociale molti di loro più o meno direttamente supportano.
Agli insegnanti, perché si rendano conto che molti di noi sono cariatidi (ma non quanto ad età anagrafica) che reggono un edificio inutile e dannoso, perché è comodo lavorare solo al mattino e avere più di due mesi di ferie…

Qui una saggia risposta.

 

la scuola è ri-creazione

Questo video, che ho conosciuto attraverso un post del Post, è stato realizzato dall’Istituto Statale di Istruzione Superiore Enrico Fermi di Bibbiena.

Dateci un occhio.

Trovo che sia ben fatto e divertente. Il finale (prima dei titoli di coda) è significativo: la scuola per trovare un senso va lanciata verso l’esterno. Tutto l’essere che la abita deve, plotinianamente, esondare, per esser fecondo. Non c’è didattica senza divertimento: quando capiremo che la fatica fine a se stessa oggi non porta a nulla? Oppure rimarremo affezionati alla retorica dell’impegno? Perché, per questa creazione artistica non c’è stato impegno? O forse il problema è che nel video non compaiono né un autore latino, né una formula di matematica?

 

de-schola#2 – interno giorno

«Scriva un libro, prof!». La voce è quella squillante del mio Sergente Nella Neve. Se mai potessimo calarci nei panni di Er, ne La Repubblica platonica, e scorgere il momento di scelta del proprio destino, so che vedremmo E. prender su la vita di un soldatino italiano, nella Prima o nella Seconda. Uno di quelli che ha dato tutto e poi è tornato sconvolto ma vivo e poi si è messo in testa di cambiare il paese, come Revelli ne Le due guerre. Insomma, E. parla con la voce del coraggio e se mi lancia questa provocazione non vuole solo mettere in pausa le mie elucubrazioni sulla scuola, ma anche invitarmi a far di più e meglio. A dimostrare che un senso una scuola ce l’ha ancora.

La mia tirata, tra una citazione hegeliana e l’altra – perché bisogna pur sempre obbedire al kantiano andareavanticolprogramma – nasceva da qualcosa che aveva corso carsico per tutta la mattinata. Una reazione della classe all’idea di interrogare, una risposta timida a proposito di persone che si offrivano e morta là. Anzi no. Qualcosa ruminava nei gangli della pancia. Ero uscito dall’aula sovrappensiero, con una lucetta illuminata sul cruscotto: il check automatico aveva segnalato un guasto. Già, ma dove cercarlo? Nella difficoltà di interrogare? Nella fatica del valutare? Nel voler concludere un argomento senza interruzioni? Nel secondo quadrimenstre che precipita? Nella temperatura della classe? Nella cravatta stretta? Nella borsa inutilmente pesante? Mah.

La grande luce, ad un tratto: la mia personalissima reazione è scattata di fronte a quella gentile timidezza. Giovani uomini e donne che hanno una soluzione sensata ed equlibrata e non la schiaffano in faccia al loro prof. Ancora una volta avevo paura della paura. Paura mia di fronte alla paura loro. Perché la timidezza non è che una sfumatura inizio/metà novecentesca della paura. Non sarà mica un timido, lei? Dice il superiore all’ufficiale deputato a vigilare in attesa dei tartari nel deserto buzzatiano. Si, avrei risposto. Ma tanto il militare non l’ho fatto e quindi che cosa parlo a fare. Timido io, nella mia insicurezza di insegnante, timidi loro nel doversi destreggiare in una selva di valutazioni-trappole.

Provare paura o rabbia. Emozioni umane troppo umane ma che per un accordo tacito un adulto maturo occidentale dovrebbe avere superato da tempo. Figuriamoci un insegnante, colui che deve istruire con fermezza d’animo, per definizione. Paura o rabbia non sono tollerate dal sistema, che chiede efficienza. E con sistema non intendo né colleghi o superiori, che a parlarci con pazienza a tu per tu si scopre – guarda un po’ – che s’intimoriscono e impauriscono pure loro; e nemmeno i ragazzi, la cui soglia di tolleranza è sempre più alta di quanto gli adulti non immaginano. Ma proprio una struttura impersonale, fondata su consuetudine e meccanismi inconsci, che si nutre del “si fa” e “si dice”, che s’abbevera dell'”opportuno”, del “utile”, del “necessario”, del potente “avresti dovuto”.

La cara Paola Mastrocola ama i ragazzi, lo si percepisce. Chiede che il sistema venga cambiato, cosa che qualunque insegnante appassionato sa e vuole. Proprio in nome di quell’amore, chiede che venga data la possibilità di studiare a chi desidera accoglierla. Nel breve colloquio con Fazio non ha potuto descrivere quello che vede, e ha solo elencato alcune conclusioni. Penso che possa trovarsi d’accordo su questo: questa scuola non istruisce alle discipline o al metodo, perché in sostanza e generalmente non propone contenuti e metodo. Propone continuamente strategie per condurre allo studio, un continuo ostinato lavoro metacognitivo o meglio ancora metamotivazionale. Si propone come schizofrenica: ti propongo cose che per accettarle e indagarle ci vuol la passione, ma non posso permettermi di impiegare la sola passione. E così i ragazzi non si allenano a confrontarsi con variabili essenziali (per il dopo) come l’interesse, la creatività o la responsabilità; ma continuamente sono portati a confrontarsi con la strategia migliore per non essere sommersi. A strategia rispondo con strategia.

Una versione leggermente modificata di questo pezzo comparirà sul prossimo numero di Madrugada, rivista dell’associazione Macondo.

 

sir Ken Robinson # 2 – sull’emancipazione

Ci sono idee che diamo per scontate, che hanno partecipato alla nostra crescita e adesso sono parte di noi, ma alle quali siamo parimenti assoggettati. Le consideriamo ordine naturale delle cose. Molte di queste idee sono state concepite in tempi e situazioni diverse dal presente e sono ormai relitti, reliquie o fossili. Magnifici magari, ma esseri morti. Una di queste, nell’istruzione, è l’idea di linearità, per cui se segui esattamente il percorso scolastico prefissato, arriverai a sistemarti per il resto della vita. Ma questo non succede, o non succede più. E soprattutto questo non tiene conto delle effettive potenzialità di ciascuno, che potrebbero essere del tutto divergenti, o non contemplate, nel curriculum “normale”… «Ci siamo svenduti ad un modello-fastfood di istruzione».

L’intervento di Ken Robinson è qui. E’ in un inglese affascinante, ma è possibile selezionare i sottotitoli in italiano.