Psicowl

L’immagine della testata è una foto di MC fatta al museo delle scienze di Vienna.
Taluni sostengono trattasi di Edwige, arcinota civetta del mago più noto di tutti i tempi (dopo Merlino, anyway). Talaltri ne sarebbero vieppiù dispiaciuti, essendo impagliata, come una sedia Thonet. In ogni caso l’ho resa un po’ psichedelica, in omaggio ai folli che stavano a Vienna quel giorno.

Non faccia la civetta!

Elegante, ben confezionato e arguto.
Questo sito/blog.
Ma se non sbaglio l’idea hegeliana è venuta prima a me.
Tiè.
Anzi, è venuta ad Hegel. In Hegel c’è tutto, come in Aristotele, “anche la formula della CocaCola” (cit.).
(Ma che sono il prima e il poi nella voragine del nach-ein-ander?)

Ricordati dove sei… Per divenire ciò che sei stato

Un’occasione, quella della giornata di formazione per gli animatori coinvolti nel Grest 2012 promosso da Oragiovane, per guardarsi indietro. Come altre volte, quando l’energia vitale chiama, le carte preparate vengono mescolate dal vento che si abbatte gagliardo. Quanto avevo scritto diventa afono, vedendo ragazze e ragazzi riuniti per “far bene il bene”.
E allora ho deciso di ricostruire la linea del pensiero, fidandomi delle suggestioni.

Una battuta, nell’onirico film di Serrentino, This must be the place, che il protagonista Cheyenne spara tra i ciuffi corvini alla Robert Smith, mi è parsa illuminante. Suona più o meno così: non ci si accorge di quanto breve sia il passo tra il “sarà così” e il “è andata così”. Le due affermazioni sono come le parentesi di una esistenza e la distanza tra di esse misura la realizzazione di questa esistenza stessa. Realizzazione, soddisfazione, serenità… forse felicità, sebbene quest’ultima sia parola piuttosto ingombrante.

Ma il laconico Cheyenne felice non è, e nemmeno soddisfatto. Chiede alla moglie, ma in realtà a se stesso, se per caso non si possa chiamare depresso. Ella semplifica: è solo noia. Ma, anche se il nome non emerge mai, si tratta “semplicemente” di tristezza, e di un tipo di tristezza particolarmente pervasivo, quello per cui la persona non riesce neppure a riconoscersi triste e vive, come dire, spostato rispetto a se stesso. In un altro luogo.

Questo luogo è il balcone di quella casa che possiamo chiamare vecchiaia, o per lo meno il suo inizio. E dal balcone ci si guarda intorno, giù, lontano, verso le strade della città e ci si dice che lì proprio non si vorrebbe essere, che altro avevamo immaginato, o non esattamente immaginato forse, ma si percepisce nettamente la differenza tra il desiderio degli anni giovanili e la realtà dei capelli bianchi (anche se colorati di nero).

Il vecchio guarda indietro, fa memoria. Ma se è triste, coglie il triste. E la memoria diviene una scatola di cose rotte, simboli muti. Avrei dovuto, avrei potuto. Cheyenne avrebbe dovuto dire altre cose al padre, che non ha fatto in tempo a salutare; avrebbe potuto andare a trovarlo prima che il tempo se ne mangiasse la vita. La memoria è la SCATOLA NARRATIVA della sua vita, il modo che ha sempre avuto per guardarsi, le cose che si è sempre ripetuto in testa. E, da sempre, si è ripetuto che il padre non gli voleva bene.

Che cosa porta un bimbo o un ragazzo a costruire questo pensiero, prima inconscio e poi consapevole, è comunque mistero. Simone Weil diceva che la sofferenza non ha spiegazione. E quando qualche nodo doloroso si forma nei capelli dell’infanzia, poi il lavoro del pettine potrebbe farsi delicato. Come Cheyenne, ciascuno di noi cresce in una scatola narrativa, diventa adulto con una serie di pensieri/regole/convinzioni che sono talmente appiccicate al corpo da sembrare epidermide.
Ma se siamo fortunati arriva la crisi che ci consente di uscire da noi, di non star più nella pelle, di non riconoscersi. Può essere il semplice sentirsi inadeguati, una mattina, seduti sul tram: guardi gli altri e li vedi così sicuri di sé, così a posto nel loro vestire, nella loro musica elegante sparata nelle orecchie, nelle loro scelte. E tu, inadeguato, impreciso.
Ma tu.

Il lavoro dell’educatore è un lavoro poetico, perché ha a che fare con parole nuove. Quelli che per molti – stanchi – genitori sono solo “quelli che fanno giocare i ragazzi del Grest”, sono invece potenziali guidatori di navicelle spaziali, piloti di aerei ipersonici, capitani di caravelle indomabilli. O anche, per stare al tema, archeologi indagatori del perduto.
Perché? Perché se scelgono di non ammaestrare, come domatori al circo, ma di ascoltare i ragazzi loro affidati, hanno il potere di creare le condizioni per cui, quegli stessi ragazzi, finalmente liberi di essere, possono intuire nuove parole per descrivere se stessi.
Si badi, non è una questione di età. Anche un bimbo può avvertire che l’adulto che gli sta di fronte si mette a disposizione oppure, come tanti altri, presenta un ulteriore dovere da aggiungere alla lista.

Dovete giocare! Dovete… essere felici. Come si fa ad imporlo? La cura nella preparazione di un Grest – sfondo integratore, tematiche pedagogiche, obiettivi delle giornate – non è lo scientific management applicato alla parrocchia. E’ lo sforzo amorevole di creare l’ambiente adatto in cui accada una relazione tra persone. E se si dà relazione, si dà educazione; e se si dà educazione, ciascuno incontrerà qualcosa di sé, una parola nuova per dirsi. Uscirà dalla vecchia scatola, o la amplierà. Si troverà spostato, o solo felicemente appagato.

Cheyenne è vecchio e non esistono i Grest per i vecchi (sarebbe un’idea). Ma riesce a uscire dalla sua scatola e a comprendere il duro linguaggio d’amore del padre. All’educatore, prima di colori, suoni, magliette e programmi, il compito di accogliere la propria personale scatola narrativa, di far memoria di sé per imparare come esistano davvero parole nuove, o occhi nuovi per vedere quelle passate. Come farlo? Guardandosi intorno, e cercando qualcuno da cui attendere una domanda.

 

Il mio 25 Aprile

Padova, oggi, 25 aprile.

Porto Elena sul listòn ad ascoltare la banda dei Bersaglieri. Le autorità hanno appena terminato i discorsi, la piazza di fronte a Palazzo Moroni si mescola di divise e di persone.
Indosso una coccarda tricolore, fermata sulla giacca con la “R” e “I” intrecciate, recuperate da chi sa quale decorazione del nonno. In Prato incontro il mio professore di filosofia della scuola superiore. Elegante e composto come allora, lo sguardo arguto e disincantato, accusa un po’ il peso degli anni. Con la moglie a braccetto, fanno qualche festa alla bimba. Poi il prof osserva la coccarda e dice: «A me non piace. In quel giorno là, mi prendevano a schioppettate». E poi: «Se questo che vediamo è il risultato della Liberazione…».

Il mio professore non nascondeva, nemmeno allora, le sue simpatie monarchiche. E decisamente anticomuniste. Lettore di Marx e dei socialisti, amante in genere dei libri, uomo di destra, vagava durante la ricreazione con “Il Giornale” di Montanelli sottobraccio. Ci stupivamo della sua capacità di leggerlo senza stropicciarlo.
Verso la fine del mio quinquennio mi ritenevo “di destra”: leggevo frasi di Mussolini e in un’occasione indossai persino uno stemma dell’Opera Nazionale Balilla.

Frequentavo un liceo comunemente definito, e sedicente, “di sinistra”. E la coerenza del mio insegnante strideva con le continue chiacchiere di molti docenti della scuola. Per me, allora, dirmi di destra era il modo per contestare l’omologazione.
Poi ho cambiato idea. Allora mi chiedevo come potessero piacermi le parole e le canzoni di De Gregori. Cercavo di sopportare la contraddizione. Poi, un’illuminazione: non devi essere di destra o di sinistra; devi, puoi, essere te stesso.

L’istinto a non omologarmi forse mi è venuto dall’appartenenza cattolica. A scuola non prendevo posizione durante le ore di religione, ma mi stupivo di come fosse difficile organizzare una messa d’Istituto per chi lo volesse, nelle parrocchie del quartiere. Ma il cattolicesimo non era un buon biglietto da visita: frequentare l’Azione Cattolica era già allora cosa da sfigati. E la sfiga, al liceo, è una variabile essenziale.

Ora penso a questo: ho avuto l’occasione di cambiare idea. Cioè di frequentare persone di destra, di sinistra, cattolici impegnati, preti operai, anche qualche profeta.
Si dà un fatto, innegabile, nell’Italia di oggi, frutto del 25 aprile: la possibilità di confronto con pensieri diversi. Tale fatto valeva – e vale – per me come per tutti quelli della mia generazione, o più giovani, o più anziani.

Penso chi stia qui il nucleo dell’antifascismo: fermarsi a considerare tutte le posizioni che ti si presentano di fronte. Non so se così, anch’io, sto in qualche modo “occupando” questo concetto. Ma mi sembra chiaro questo: se il fascismo è stato un sistema che ha eretto la violenza, l’imposizione, a strumento principale, allora non sono antifascisti quelli che, pur dicendosi tali, impediscono a qualcuno di parlare. Fosse anche uno che si dichiara fascista.

Penso che l’antifascismo debba abbandonare la nostalgia e gli slogan. Deve continuare a ricordare la storia di tante persone che, dal 1922 in poi, formularono una scelta ben precisa: stare dalla parte di chi era disposto a discutere. Resistere contro chi non intendeva discutere, ma usare il manganello. L’antifascismo si fonda sul ricordo, ma di chiunque: deve assumersi il rischio di raccontare e far parlare chi ha fatto la scelta della “parte sbagliata”. Non per dire: qualsiasi scelta è uguale. Ma perché, se si apre una discussione seria, non può non emergere la diversità tra chi ammette il confronto come metodo e chi invece utilizza la violenza, fisica, verbale o psicologica per imporre la propria idea. E gli slogan, frasi fatte strappate da un contesto, nella loro pretesa di riassumere la complessità della verità storica, diventano strumenti violenti, cioè fascisti. Sono buoni per lo stadio, ma non per la storia.

Mi si dirà che il fascismo non è stato solo violenza. Io ribatto che di fatto, dal 1924 in poi, non fu permesso professare in pubblico la propria appartenenza. Questo è un dato di fatto. Se questo è il prezzo da pagare per non avere criminali o mafiosi in giro (posto che fosse davvero così), dico che è un prezzo troppo alto. Se questo è il prezzo per avere case popolari, o altre forme di solidarietà sociale (posto che davvero fosse così), dico che è un prezzo troppo alto. Il limite storico del fascismo non fu tanto l’entrata in guerra sulla scia della follia nazista, ma la fine di ogni dibattito pubblico. E nella rinuncia al dibattito, all’approfondimento, il qualunquismo italiano tornava, torna e tornerà sempre a colorarsi di tinte totalitarie.

Non tutti coloro che si definivano partigiani erano antifascisti. Sembra paradossale, ma non lo è: se la Liberazione divenne occasione per qualcuno di regolare conti personali; se la guerra partigiana fu pretesto per qualcuno di dar sfogo alla propria rabbia animale… Ecco, io non trovo differenza tra questi e tanti loro omologhi di Salò. Dobbiamo fare i conti anche con questa storia, se non vogliamo tradire la memoria di chi ha perso la vita difendendo la libertà. Ricordando che il conflitto è sempre tra individui, mai tra idee, che senza un individuo che le pensa, non esistono.

Ora lo spazio degli slogan non è più tanto la piazza, quanto i social network. Ecco: oggi rimbalzano su Facebook slogan pro e contro la Giornata della Liberazione. Che cosa comunicano? Che ognuna di queste persone cerca come può un senso al proprio desiderio di non omologarsi, o alla propria lillipuziana rabbia personale.
Non hanno a che fare con la storia, con la fatica del pensiero applicata ai fatti degli uomini; ma solo con l’ideologia, cioè con una visione mistificata – perché non condivisa – della realtà.
La spilla dell’ONB che indossai a diciotto anni fu per me allora il mio triste “slogan su Facebook”. La mia coccarda tricolore oggi è il tentativo rinnovato di aprire un dialogo.

Ricivetta

L’immagine della testata (che, se non vi siete accorti, modifico una tantum) è tratta da questo sito: esistono parecchie vie sotterranee percorse da chi sa che c’è la crisi, ma non la affronta con il lamento. Non che non ci siano motivi per cui lamentarsi (a ben vedere, sempre ce ne sarebbero). Il punto è che alcuni modi di agire, di affrontare bisogni e risorse, sono validi e presenti da anni, ben prima che il mondo svuotato dal nostro stile di vita ci imponga un cambiamento.