L’etica nel lavoro (rileggendo gli stoici)

Leggere gli autori delle cosiddette Scuole ellenistiche rimane uno dei doveri (e piaceri) di chiunque. Ma avere la possibilità di condividere alcune intuizioni di Seneca, Marc’Aurelio ed Epicuro (in ordine sparso) con un gruppo di ragazzi, è un’esperienza appagante. Come diceva il buon Sandro Onofri, questi sono i momenti in cui ringrazio per la professione che ho scelto.

Il dialogo è nato a partire da una provocazione che l’imperatore filosofo riprende da Epitteto (attenzione! Si tratta davvero di un messaggio difficile da ascoltare!):
“Baciando il figlioletto bisogna aggiungere tra sé: «Domani forse morirai». «Ma sono parole di cattivo augurio». «Nessun cattivo augurio – diceva Epitteto -: indicano invece un fatto naturale; altrimenti anche la mietitura delle spighe diventa un cattivo augurio”.

L’anticipazione di un fatto che gli stoici considerano fisiologico, come la morte, avvicinabile al taglio del grano o alla vendemmia, porta il filosofo a considerare tale eventualità reale e addirittura vicina anche per il proprio pargolo. Cattivo augurio? (Diremmo oggi: vuoi portare sfiga?) Non si tratta di pronosticare la morte della persona che ci è più cara al mondo, ma se mai di considerarne appieno la vita, proprio esercitandosi al pensiero della sua conclusione.

Nella concezione stoica della cosiddetta Atarassia (lett. assenza di turbamento), che possiamo pensare anche come Indifferenza (dare alle cose l’egual peso che esse meritano nell’economia del cosmo) o Magnanimità (dilatare il proprio animo affinché possa ospitare continuamente alternative alla prima impressione o al giudizio immediato), immaginare per un padre la possibilità della morte del figlio significa esercitarsi a rinunciare al pieno controllo sulla sua vita.

In altri termini, significa avere ben chiaro che noi possiamo naturalmente desiderare la felicità di nostro figlio, ma che dobbiamo fare i conti con le nostre effettive possibilità di realizzarla. Se essa diventa una sorta di imperativo o addirittura di ossessione, probabilmente otterremo l’effetto opposto. Soffocheremo la nostra creatura con il bene che per lei desideriamo.

Lancio al gruppo di ragazzi uno spunto. Se decidessi di intraprendere un secondo lavoro per poter garantire a mia figlia un livello di vita (economicamente) superiore, sono sicuro che il tempo sottratto a lei non sia in ultima analisi più dannoso per la nostra relazione? Oppure, in altri termini, sono certo che l’esigenza economica non diventi per me una sorta di “passione triste” che si metta in mezzo tra me e lei?

A questo quesito si alzano le barriere, quasi fosse avvertito come una critica al tempo lavorativo dei genitori (formulata per di più da chi, nella vulgata, lavora mezza giornata). Ma non è così.
Incrocio allora questa possibilità con un altro elemento: nei mesi passati una studentessa chiese di poter parlare del fenomeno dei suicidi a causa della crisi e del fallimento della propria azienda. Talvolta, nelle ultime drammatiche spiegazioni del gesto, figurava la vergogna di fronte ai figli, o il timore di non poter garantire loro una vita dignitosa.
Allora, una ragazza disse una cosa che mi diede da pensare: sono grata ai miei genitori per quello che mi danno, tuttavia vorrei vivere diversamente da loro il lavoro. Come dire: è un ingrediente fondamentale dell’esistenza, ma attenzione che non invada ogni ambito dell’esistenza stessa.

Gli stoici s’intendevano di suicidio, giacché lo consideravano l’ultima spiaggia dell’uomo assennato nel momento qualora le condizioni materiali di vita non gli consentissero più di praticare la virtù. Non è quindi un suicidio cercato, come si suole dire, per disperazione e sul quale non è possibile – né corretto – esprimere alcun giudizio. Se mai, una domanda: quale visione del lavoro avevano queste persone? Quale peso ad esso attribuivano?

I ragazzi – questo è il primo elemento fondamentale, che costituisce una conferma – osservano continuamente gli adulti. Che lo facciano consapevolmente o meno, cercano un confronto, una pietra di paragone; misurano le azioni con le parole che i genitori o gli insegnanti pronunciano, ne verificano la coerenza o meno.

Il secondo elemento: alcuni di essi raccontano come hanno compreso quanto il lavoro sia una parte fondamentale della vita adulta e come sia necessario sacrificare il tempo passato con i figli in nome della professione. Sono anche consapevoli che questo sacrificio corrisponde al desiderio di realizzarsi pienamente come persone: non è un dramma, ma un’esperienza di creatività e di impegno personali. Emerge chiaramente come in queste famiglie accada un fecondo e continuo dialogo su quello che la vita richiede, sui patti ai quali dobbiamo scendere, ma anche sui risultati che fanno dell’esistenza un’esperienza entusiasmante.

Altri ragazzi rimangono perplessi. Sono coloro che in silenzio annuiscono quando vengono posti di fronte all’idea di come davvero qualche adulto – forse messo alle strette – abbia prediletto il lavoro (la carriera) alla famiglia. Può sembrare retorico, o cinematografico… Ma neo fatti accade. Si potrebbe dire che non si sentano scelti sino in fondo. Spesso sono i medesimi che comprendono che, qualche volta, giustificare le scelte con un “è per il tuo/vostro bene” nasconda alcune ambiguità. Non le sanno sviscerare, ma le avvertono e si ritraggono. Più di qualche volta sono coloro che faticano a trovare nella scuola un senso, una buona occasione, una sfida ottimale e si trovano piuttosto a subirla.

Ecco quindi il terzo elemento: impariamo a fare “il nostro dovere” non perché ci venga insegnato a parole. Ma perché conviviamo con persone che fanno del proprio dovere un’occasione di ricerca del senso della vita. Non l’unica, non quella esclusiva. Nel lavoro c’è un senso, ma il lavoro non coincide con il senso. Quale esso sia, nemmeno gli stoici possono rivelarcelo in maniera assoluta. Ma dal loro pensiero possiamo prima di tutto riconsiderare questa parola – dovere – spesso non amata (perché spesso imposta) e insieme lasciarci ispirare per la nostra personale ricerca di senso.

Rule

(traduzione – Grazie Barbara!)

1. Trova un luogo di cui ti fidi e fidati di esso per un po’.
2. Doveri generali di uno studente: trai il massimo dal tuo insegnante. Trai il massimo dai tuoi compagni.
3. Doveri generali di un insegnante: trai il massimo dai tuoi studenti.
4. Considera ogni cosa come se fosse un esperimento.
5. Auto-disciplinati. Questo significa trovare qualcuno di saggio o sveglio e scegliere di seguirlo. Essere disciplinati è seguire bene. Essere auto-disciplinati è seguire meglio.
6. Niente è un errore. Non ci sono né vittoria né fallimento. C’è solo il fare.
7. L’unica regola è il lavoro. Se lavori ciò condurrà a qualcosa. Sono le persone che lavorano tutto il tempo che alla fine afferrano le cose.
8. Non provare a creare ed analizzare nello stesso momento. Sono processi differenti.
9. Sii felice ogni volta che puoi riuscirci. Divertiti: è più facile di quello che pensi.
10. “Stiamo infrangendo tutte le regole. Persino le nostre. E come lo facciamo? Lasciando un sacco di spazio per un tot di quantità” John Cage.

Avvisi utili: stai sempre con gli occhi aperti. Vieni e va verso ogni cosa. Frequenta sempre le lezioni. Leggi qualsiasi cosa ti passi sottomano. Guarda film spesso e attentamente. Conserva tutto: potrebbe tornare utile in futuro.
Dovrebbero esserci nuove regole la prossima settimana.

il presidente

IL PRESIDENTE ha una caratteristica che balza agli occhi di chiunque lo avvicini: mentre gioca a bocce o beve birra, durante la notte o quando copula; persino nelle sedute parlamentari che presiede da quando si è verificato il gran cambiamento. Più di un movimento delle sue mani lascia trasparire questa sua caratteristica, inspiegabile a tutti, e che tuttavia appare così evidente da non sfuggire nemmeno ai profani. Si sostiene che la sua origine vada ricercata in un processo che non si può, né si vuole, più arrestare. Si richiamano alla memoria momenti in cui si sono percepiti fenomeni che potrebbero averla determinata. In realtà tutti sanno di cosa si tratti. Nel timore di poter essere chiamati a risponderne, evitano di parlarne o discuterne in pubblico. Anzi, confondono accuratamente le tracce. Ma non la si trova solamente nella coda dell’occhio del presidente. C’è anche in altri punti del suo corpo, opulento e inquieto. Nei suoi stessi sogni. In chiunque la riconosca produce una tensione che col tempo si tramuta in contagio. Sino ad esserne invasi. Non è nient’altro che la brutalità“. (Thomas Bernhard, Eventi, 1969; disegno tratto da Makkox)

Un morto “di destra” vale di meno?

Questa veloce recensione comparirà prossimamente su “Madrugada”.

Destra e Sinistra. Due parole che fino a all’inizio dell’adolescenza stanno a indicare quale scarpa mettersi. Poi deflagrano e si vestono del significato che nell’immaginario italiano e non solo sembra ancora il principale: parti politiche, scelte ideologiche. Marcello Veneziani anni fa sosteneva che sono categorie ormai morte, nonostante la precisa analisi di Bobbio, e che oggi la politica si muove su altre direttive, come “liberal”, “self interest”, “comunitarismo” et cetera.
Ma a guardar bene, specie per la maggioranza dei giovani, sembra prevalere l’apatia. Questo libro, che sta tra il saggio e l’autobiografia, spiega bene sia quale peso abbiano avuto queste denominazioni negli anni Settanta italiani, sia perché quella generazione di giovani ha in fondo prodotto la reazione indifferente di oggi. Il titolo è mutuato da Sartre, ma non si tratta di esistenzialismo, ma dell’esistenza di una bimba padovana che deve convivere, ad un certo punto, con la morte del padre. E non un uomo qualsiasi, ma uno “di destra”, ucciso a Padova dalle Brigate Rosse il 17 giugno 1974. Perché questo omicidio è diverso? La figlia Silvia, con il coraggio di metter la mano nelle scatole del dolore della famiglia, decide da adulta di incontrare i principali protagonisti di quella “stagione di violenza”, contrapponendo la ricerca della verità – tangibile, incarnata – alle filosofie e ai sofismi dei teorici della lotta armata, e provando a comprendere che cosa spinse centinaia di giovani a trasformare la protesta del ’68 nella spirale cieca di prevaricazioni che congelò Padova dieci anni più tardi. Un morto “fascista” vale di meno di un “rosso”? Quale spazio può avere la giustizia senza il riconoscimento del dolore della vittima?
Non c’è traccia di rancore, nelle parole dell’autrice, né tantomeno di vendetta. Ma solo queste domande, sospese di fronte ad alcuni adulti che hanno cercato di contenere quella furia ideologica, e ad altri adulti, ora anche genitori, che non hanno saputo comunicare alle generazioni più giovani che la politica è lotta, ma tra opinioni e scelte operative opposte, è conflitto, ma di intelligenze e non di spranghe o P38.