Il Male: nulla di scontato

Approdo a questo denso saggio di Cassano attraverso le sollecitazioni di Pietro Barcellona, nell’ultima strenna natalizia macondina (La nostalgia di Dio nell’epoca contemporanea). Barcellona interpella il filosofo pugliese in quanto sostenitore di una posizione a lui antitetica, quella secondo cui sia possibile giustificare il Male. E’ proprio questa la scintilla che mi ha portato ad approfondire L’umiltà del male. Non è questo il luogo adatto per illustrare il dibattito tra i due punti di vista; invece mi pare interessante dar conto dell’approccio di Cassano, lasciando ai lettori il confronto.

Cassano prende le mosse da un luogo capitale della letteratura occidentale, l’incontro drammatico tra Cristo e il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov. La lettura che ne ricava, tuttavia, è inedita. Se, anche per una tacita propensione di Dostoevskij stesso, siamo portati istintivamente a porci dalla parte di Gesù e del suo tentativo di porre la libertà personale quale chiave di volta del suo messaggio, Cassano invece invita a riconsiderare la posizione del vecchio prelato. Essa non sarebbe la conseguenza di una nefasta volontà di predominio sugli uomini, che, pur di avere pane e sicurezza, delegano ad altri il proprio arbitrio, quanto piuttosto la visione realistica di chi, avendo provato a seguire Cristo nella sua esigente proposta, si rende conto di come la maggioranza del genere umano debba venir condotta alla salvezza, perché lasciata a se stessa, perirebbe sotto il peso di una libertà insostenibile.

Cassano in altri termini invita a riflettere sul fatto che quanti si fanno difensori di un Bene considerato assoluto spesso, per la propria intransigenza, cadono in una sorta di miopia che dimentica come, al contrario, le potenze terrene siano ben più capaci di conoscere le debolezze umane e volgerle a proprio favore. Che vale conoscere il Bene se non si è capaci di coinvolgere in esso le persone? Il commercio con la debolezza è una forza che il malvagio conosce bene: Cassano interpella Primo Levi e la sua testimonianza su come un sistema di morte non si rivolga a individui dall’umanità corrotta, ma sia esso stesso mezzo di corruzione dell’umanità, facendo di persone normali degli aguzzini. Il perdono è dunque impossibile? Cassano non lo pensa, ma avverte con pari forza che non è un percorso semplice, perché rischia di mischiarsi all’oblio.

Nella parte finale del saggio, infine, l’autore aggiorna il dialogo evocato da Ivan Karamazov, riportando il dibattito tra due filosofi novecenteschi, Adorno e Gehlen. Anche in questo caso la prospettiva del primo risulta agli occhi dell’autore troppo esigente: l’emancipazione dell’individuo invocata dall’utopia socialista è un programma troppo ambizioso, riservato a pochi eletti, mentre i più sono destinati a rimanere invischiati nel miele della società dei consumi, esperta nel creare bisogni e desideri indotti. In essa prevale e domina il soggetto e la sua privata realizzazione. Gehlen ne è consapevole ma non riesce a gettare luce sul futuro, perché il trionfo dell’io comporta la crisi del legame sociale. E qui forse egli riesce a descrivere quel che effettivamente oggi accade. Come uscirne? Cassano non prescrive farmaci, ma rammenta la forza coesiva delle prime comunità cristiane, prima dell’avvento di una chiesa-burocrazia: un invito a coloro che si ritengono i “pochi eletti” ad uscire dal fortino della bella minoranza per incontrare debolezza e sofferenza umane, troppo umane. Un invito, aggiungo io, dal sapore eminentemente pentecostale.

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