dalla rete della Rivoluzione Solidale

Che di per sé non va confusa con la posizione di Ingroia, che si chiama Rivoluzione Civile. Si tratta di alcuni contatti interessanti a partire dal movimento della società civile; per la precisione: due appuntamenti e tre link.

UNO. «Federsolidarietà Veneto è l’organizzazione che rappresenta quasi il 70% delle cooperative sociali nella nostra regione, conta 464 cooperative iscritte, con 18.000 addetti e oltre 23.000 soci. Inserisce al lavoro 1.820 persone svantaggiate. Offre servizi specializzati alle fasce più deboli (persone con disabilità e disagio psichiatrico, con percorsi di tossi- codipendenza o reclusione, emarginate o povere, bambini, anziani, donne vittime di tratta o di violenza) e assiste le loro famiglie». il 26 gennaio p. v. propone una MOBILITAZIONE GENERALE DEL TERZO SETTORE, a Venezia, Pala Taliercio, a partire dalle 8,30. Alle 11,30 inizierà la sfilata pacifica sul Ponte della Libertà.

siamoilsociale

DUE. dottClownIl 9 febbraio p.v. la associazione Dottor Clown di Padova espone in un convegno il bilancio dei suoi primi dieci anni di attività, centrati su questo “sogno”: «un ospedale pediatrico dove il bambino possa sentirsi al centro dell’attenzione e dove ci sia ampio spazio per la comicità e le emozioni» (dal SITO).

TRE. Il progetto PAGELLA POLITICA è una delle espressioni di un atteggiamento (e metodo) diffuso da tempo nei paesi anglosassoni e che si chiama FACT-CHECKING. Si propone cioè di raccogliere le principali dichiarazioni di politica (rilasciate attraverso qualsiasi mezzo) e contenenti fatti verificabili per confermarle o smentirle anche a mezzo dei naviganti in Rete.

QUATTRO. Un gruppo di persone che, come molti invece silenti, è stufa della corruzione (e come fatto, e come mentalità) ha dato vita alla PETIZIONE di cui si parla in questo sito. L’iniziativa è correlata a e sostenuta da Libera e Gruppo Abele, garanzie di trasparenza; si richiama esplicitamente a questa campagna del 2011.

Bob_Verschueren_-_Copyright_Arte_Sella_2012_-_Foto_Giacomo_Bianchi

CINQUE. GIANNI BELLONI è amico e giornalista. Se la categoria non fosse resa inaffidabile dai vari sessantottardi che poggiano il deretano nei salotti in TV, lo definirei proprio un intellettuale, il dotto sette-ottocentesco che osserva l’andare delle cose e, senza indurre opinioni, offre invece descrizioni efficaci capaci di creare opinioni stesse nella testa di chi legge/ascolta. Questo è il suo BLOG , intitolato “corse in salita” (e a me viene in mente il Sisifo di Camus). Questo è uno dei suoi progetti, il Laboratorio dell’Inchiesta Economica e Sociale (LIES). Nell’immagine, l’interpretazione di Sisifo di Bob Verschueren, in Arte Sella.

OdC: la legge e le vite

Il sito unimondo ci ricorda una ricorrenza importante, quella dei quarantanni della legge sulla obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, fiore nato dall’humus culturale e civile del secondo dopo guerra (alcuni nomi: Lelio Baso, La Pira, Balducci, Milani). , Relatore Giovanni “Albertino” Marcora partigiano cattolico.

«Gli obbligati alla leva che dichiarano di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza possono essere ammessi a soddisfare l’obbligo del servizio militare nei modi previsti dalla presente legge.
I motivi di coscienza addotti debbono essere attinenti ad una concezione generale basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto.
Non sono comunque ammessi ad avvalersi della presente legge coloro che al momento della domanda risulteranno titolari di licenze o autorizzazioni relative alle armi indicate rispettivamente, negli articoli 28 e 30 del testo unico della legge di pubblica sicurezza o siano condannati per detenzione o porto abusivo di armi»

donMIscrive

Il servizio civile obbligatorio sostitutivo divenne non solo espressione di uguaglianza sostanziale, come dalla lettera costituzionale, ma occasione per migliaia di giovani di veder cambiata la propria esistenza. Anch’io sono tra di essi: la mia esperienza presso Caritas di Padova è stata a posteriori decisiva per il modo con cui oggi cerco di fare l’insegnante. Non mi riferisco a buonistici pressapochismi su “quanto i poveri abbiano da insegnare”, ma proprio al fatto che le persone e gli eventi che mi vennero posti di fronte mi chiesero – con la dolcezza della realtà immodificabile – di cambiare me stesso, in meglio. Obbedire dunque, ma alla “fertile bassura dell’esperienza», delle cose così come stanno.

Scrissi allora e penso tuttora:
Che cosa è PROGETTO MIRIAM? Molto in pratica, è un casa di accoglienza. Per chi? Per ragazze e donne straniere che sono uscite dalla tratta per prostituzione. Qui si trova subito una grande differenza che ho scoperto lì: una cosa è la TRATTA, un’altra è la PROSTITUZIONE. Una cosa è vendere una certa serie di servizi con il proprio corpo, in modo libero, come scelta, altra cosa è essere ridotti in schiavitù e costretti a battere. Non dico che una cosa sia più giusta o più facile dell’altra, dico che sono diverse.
LA STATISTICA dice: di 100 prostitute, 80 sono CONDIZIONATE, 20 sono sex-workers. Di queste 80, il 30 per cento è costretto sotto schiavitù a prostituirsi. L’altro 70 p.c. lavora per strada perché non ha un giro migliore e forse si prostituirebbe anche altrove.
Vedete: al Miriam ci sono tre suore, che curano i diversi aspetti della casa e dell’organizzazione, progettuale e pratica, dell’attività. Hanno la consapevolezza che ci sono donne che scelgono di, come si dice, “fare la vita” e che ci sono uomini che vanno con queste donne. Da parte loro non ho mai sentito un giudizio moralistico su queste cose, un giudizio che dica: è sbagliato vendere il proprio corpo e comprarlo per denaro. Che magari è una cosa che ci si aspetterebbe da una suora. Altra cosa è la TRATTA. Che cosa significa essere costretti a prostituirsi, essere sottoposti a violenza quotidiana io non lo so fino in fondo, perché non l’ho provato sulla mia pelle, perché non sto dentro il cuore e la testa delle ragazze che ho incontrato. Sono stato accanto a queste persone, sono stato utile a loro per cose molto pratiche e ho avuto la fortuna di essere stato in ascolto di queste persone. Che cosa vuol dire “credere di sapere e invece non sapere”? Ero in macchina con una ragazza dell’Est, ci trovavamo dalle parti dell’Ospedale. Forse era contenta perché si aperta una possibilità di lavoro, finalmente, e di un lavoro che le piaceva. Insomma raccontava di sé e della sua esperienza: di come era arrivata in un furgone dal suo paese, di come le avessero spiegato che la strada era il lavoro che doveva fare, di come fosse sempre chiusa in casa, dovesse subire violenze dal boss, non potesse uscire se non accompagnata dalle dieci alle quattro di mattina in via del Plebiscito o giù di lì, a battere. E io – preso dalla guida della Uno scassata delle suore – mi perdevo nei miei pensieri, che da bravo studente di filosofia, erano sulla libertà, sulla mancanza di libertà, sul rispetto dell’uomo… Quasi leggendomi nel pensiero, durante il racconto, lei mi fa: perché, in quei momenti, quando ti fanno violenza, quando ti menano, non dici: vorrei essere libera, il tuo pensiero non è la libertà, con la ELLE maiuscola, direi io, ma: smettetela di farmi del male. Preghi perché non ti prendano a pugni, non pretendano che tu gliela dia con la forza, non ti lascino segni sul volto, sul corpo, non ti facciano uscire sangue dal naso… Capite il salto? La differenza? Io viaggiavo con la testa fra concetti, magari giustissimi. Lei SENTIVA queste cose sulla pelle.

Grazie a quella legge, ho potuto aprirmi alla realtà, ho scardinato i portoni delle bambagie parrocchiali e guardato in faccia i turoldiani “grumi neri di sangue” che gridano vendetta al Signore. E imparato a leggere la mia storia come storia di segni (qui sotto: il pozzo, tratto dal Piccolo Principe, che usammo al tempo come simbolo del lavoro a Progetto Miriam, richiamandoci all’episodio evangelico della samaritana).

pozzetto2 copia

E adesso, dopo 40 anni, due osservazioni a posteriori di quella legge, ormai inutile (la leva obbligatoria non c’è più):
a. perché non pensare ad un servizio civile obbligatorio per maschi e femmine, dopo la scuola superiore? QUI uno spunto.
b. esiste un uso strumentale dell’obiezione di coscienza (quindi in senso lato) in ambito sanitario? Un uso condizionato della libertà personale di operatori medici che accettano di rifiutare la pratica dell’IVG per – ad esempio – mantenere il posto? QUI, QUI, QUI e QUI ampi dati per alimentare il dibattito.

Ebbene, direi di no. Qualcosa di Ennio Flaiano

Quarant’anni fa si spegneva il giornalista e scrittore Ennio Flaiano, fumatore di pipa. Ma come per Buzzati, anche per EF “giornalista e scrittore” sono sostantivi troppo poveri: ha letto e interpretato l’Italia del cosiddetto boom economico con la capacità di rimanere al di fuori degli schemi e delle consorterie.

Forse per questo di lui oggi si parla molto poco.
Leggendo alcune delle sue opere, la sensazione è quella di un intelletto vigile, abituato a frequentare opposizioni e incongruenze, a cogliere il limite della vita sociale e culturale del nostro paese, quasi sempre con ironia, talvolta con sarcasmo e una certa malinconia.
Quel che rimane invariata è la passione per la libertà, o meglio per la liberazione: usare le parole per indicare vie d’uscita, strettoie necessarie per mantenersi autonomi da “si dice, si fa”, siano essi prodotto del pensiero massificato o da qualche élite culturale.

Limitandomi ad un culto privato della Libertà, non sono inserito nei miei tempi. Vorrei cavarmela, insomma, e salvare la faccia, amando la Libertà: impegno che non mi costa nulla, perché l’amiamo tutti ovviamente, anche se ognuno dandole un diverso scopo e significato. Per difendere questa Libertà che io dico di amare, io dovrò invece definirla, darle un programma, rifletterla nei miei scritti, farle dei proseliti. Ebbene, direi di no. Questo mi sembrerebbe il più assurdo dei disegni perché io penso (guardi fin dove giunge il mio amore) che la Libertà è una forza vitale che può essere oscurata, mortificata, ma non soppressa e che ogni uomo, in un preciso momento della sua vita, impara veramente ad amarla; ma che pretendere di anticipare questo momento è avventato, anzi illiberale”. («Il Mondo», 6 novembre 1956)

La capacità di mettere alla berlina le ambiguità “di regime” di molti comunisti dopo i fatti di Budapest del ’56, avvicinano radicalmente EF ad Albert Camus: se il secondo comincia tardi ad essere letto come genuino filosofo, il nostro ha probabilmente cercato ogni strategia per non essere annoverato nemmeno tra i pensatori. Una costante allergia alle etichette.

Il giovane amico comunista mi saluta, mi guarda fisso, parla del tempo, di un film che vorrebbe vedere. La sua calcolata indifferenza finisce per rattristarmi. Cerco invano nei suoi occhi un’ombra di dubbio o di vergogna, non c’è niente, nemmeno il dispiacere di quest’amicizia che finisce. Sappiamo che eviteremo disalutarci, di stringerci la mano, perché io non saluto né stringo le mani agli enti, alle associazioni, alle mafiem ai dogmi, alle ragion di stato”. “Oggi leggo su «L’Unità»: «i teppisti controrivoluzionari», riferito agli insorti di Budapest. E’ un’inesattezza, professore! (EF si rivolge a Togliatti, ndr). Abbiamo già sentito un linguaggio simile, nel ’44, quando gli SS parlavano di «delinquenti badogliani», per riferirsi agli assassinati delle Fosse Ardeatine“. («Il Mondo», 20 novembre 1956)

Quanto emerge non ̬ polemica ideologica, scontro tra teoremi diversi, narrazioni collettive opposte. Piuttosto una beffarda pena, senza smarrimento Рe quindi piuttosto con disincanto -, per i cancelli che da soli, o bene accompagnati, imponiamo alla nostra mente. Piccinerie culturali.

La signora elegante (…) dice, parlando di una rivista di varietà a cui ha assistito: «Divertentissima. Mi sono p… sotto dalle risate». Il signore alla moda che l’accompagna, soggiunge garbato: «Ma cara, si faccia fare la psicanalisi delle urine». – Una società simile non ha più bisogno di niente: sa quel tanto che le basta per credersi colta e ha fiducia nella volgarità per ciò che supera i suoi interessi“. («Il Mondo», 12 novembre 1957).

Tale medesima società, la nostra, non pare esser mutata. Siamo così abituati ai velocissimi cambiamenti della tecnoscienza, da scordarci che quel noi siamo oggi in fondo è cominciato ad esistere compiutamente nel secondo dopoguerra (qualcuno direbbe anche prima del primo). Non è un tempo meraviglioso e lontano, è solo l’inizio. E così, quel che EF nota di un gruppo di ragazze, potrebbe benissimo essere detto di qualche studentessa di oggi, con l’unica differenza che la serietà da lui allora evidenziata si è trasformata oggi in una sorta di seria leggerezza, nella quale si muove la consapevolezza che la responsabilità è anch’essa un gioco:

Danno l’impressione di aver saltato un’età e di essere già le loro stesse madri, deluse di una vita che le ha rese responsabili, rimpiangendo la felice adolescenza, che si apriva come un sipario su tutte le loro ambizioni, e su molte legittime curiosità“.
(«Corsera», 23 settembre 1960).

Fecondo sceneggiatore, EF comprese subito la potenzialità del mezzo visivo, la potenza dell’immagine e la sua supremazia rispetto alle altre impressioni sensibili in tutto ciò che è pubblico. Quanto egli ritrae, descrivendolo, è spesso cinematografico anche se non composto immediatamente per il cinema. Collaboratore di Fellini, EF sa che l’immagine è ambigua in duplice modo: sia perché, come segno, rimanda ad altro, come ogni linguaggio, ma anche e soprattutto perché essa riesce a nascondere questa sua capacità simbolica, proponendosi come realtà delle cose. Le cose stanno come si presentano al mio sguardo, ora? Si, ma anche no. Eppure il “ma anche no” sfugge.

La realtà (rispetto a quanto descritto dal film ambientato in Via Veneto, La dolce vita, ndr) è migliore, in un certo senso: più agghiacciante. I caffè della strada si sono tutti rinnovati e così vistosamente che si pensa subito alla loro solitudine invernale quando – finita la bella stagione – la loro gaiezza risulterà inutilizzata e susciterà malinconia, come un luna-park sotto la pioggia. I cattivi arredatori interpretano bene la nostra sete di sfarzo, e il Caffè – vecchio baluardo della borghesia – è diventato la mostra del mobiliere. Sono spariti i divani foderati di cuoio e di velluto, gli specchi che moltiplicavano le prospettive, i camerieri sordi e venerabili e i tavoli di marmo sui quali si poteva disegnare. Adesso i caffè sembrano alcove, pagode, padiglioni di cura, tombe di famiglia“. («Europeo», 15 luglio 1962)

Osservare i propri simili, sapendone la similitudine, come seduto da un tavolino di caffè. Non so se EF potrebbe oggi apprezzare tale medesimo sguardo posato sulle cose a partire da un weblog come questo. Ma la realtà multiforme appariva ai suoi occhi non dissimile dal turbinio del materiale on-line dei nostri tempi: un deposito enorme, da maneggiare con cura.

Lavoro immenso che si presenta a chiunque volesse, oggi, mettere su un archivio di sciocchezze: imbarazzo nella scelta, rinvii ad altre voci, ripetizioni, cataloghi di formule che hanno fortuna. Alla fine, un lavoro sulla stupidità contemporanea diventa stupido, questo è il punto. Se ne può restare affascinati. («Corsera», 18 gennaio 1970)

Contemporaneamente a Noam Chomsky, forse addirittura prima, se pur in altro modo, EF riconobbe il fascino e la pericolosità di una società centrata sull’informazione e sulla visibilità. L’imposizione del pensiero di regime non può più essere fatta attraverso azioni coercitive, data la democrazia; altri sono i mezzi, sempre più subdoli, perché rispettosi in apparenza delle scelte individuali e invece capaci con ancor più forza di un manganello di convincere, di addormentare, di renderci piccoli e impotenti.

Il tiranno più amato è quello che punisce per una sua esclusiva ragione, la ragione che riguarda la sua propria esistenza. Chi tocca i fili del tiranno, muore. Ma con la vastità delle informazioni e quindi con la molteplicità delle emozioni che ogni giorno si scatenano in un mondo sempre più al limite dell’isterismo, le dittature hanno infine scoperto la magnanimità. Esse condannano a morte i loro nemici (il mondo freme e sussulta), e il giorno dopo li graziano. Così il mondo respira di sollievo, scodinzola di riconoscenza e rovescia altro amore sulle magnanime dittature”.
(«Corsera», 21 febbraio 1971)

l’occhio sul pianoterra della vita

La vicenda della fotografa Vivian Meier, o meglio della sua produzione, è interessante.

«Vivian’s work was discovered at an auction here in Chicago where she resided most of her life. Her discovered work includes over 100,000 mostly medium format negatives, thousands of prints, and countless undeveloped rolls of film»

Perché una persona per così dire normale, una casalinga forse, fotografa la gente per strada?Perché le sue foto non dicono qualcosa solo a chi conosce la persona ritratta ma anche a me, anni o decenni dopo?

Dove sta la potenza dell’occhio fotografico, il suo ingrediente segreto?

Perché un’immagine, che è cosa morta, rende così bene la vita?

Esiste un patrimonio di sguardi sul mondo, affastellato nelle soffitte della terra.