E saranno tanto più duri quanto più sono giovani

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione, ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.
Platone, Apologia di Socrate, trad. it. di Maria Chiara Pievatolo

Leggere il discorso finale di Socrate, per intero, in classe, è una pratica che porto avanti sin quasi dal mio primo anno di insegnamento. Certo, una pratica anomala dal punto di vista didattico: non è in senso stretto un dialogo, genere letterario scelto da Platone e essenziale alla comprensione del suo pensiero; racconta solo alcuni particolari della vita di Socrate, importantissimi per certi versi, ma relativi per lo più al periodo finale della sua esperienza; necessiterebbe della ripresa del contesto politico dell’Atene di allora, cosa che non faccio mai; non riguarda direttamente alcune tematiche che sono molto appetibili per una classe di sedicenni, come l’amore (Il Simposio) o la speranza (il Fedone); occupa molte ore di lezione, ritardando lo svolgimento dell’unico vero idolo ancora in vita nella scuola, il programma.


Eppure ascoltare Socrate che parla, e poi dialogare con lui attraverso l’insegnante, diviene decisivo. Non sempre nello stesso modo: talvolta magicamente d’incanto, altre a scoppio ritardato. Accade quello che, secondo lo storico della filosofia Pierre Hadot, è il cuore di tutto il pensiero antico: «la vera questione che è in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla». Ascoltare dunque l’esistenza di questo antico maestro, in una narrazione imbevuta di ironia e di passione, interpellarla chiedendo chiarimenti, commentarla senza remore, porta i ragazzi, ognuno con il proprio tempo, a fare i conti con se stesso. Perché la fase evolutiva in cui il cervello svolta decisamente, l’adolescenza, «è anche il momento in cui fa la sua comparsa la propensione umana all’autoanalisi», come suggerisce David Bainbridge, il quale sostiene che la complessità dell’Homo sapiens dipenda essenzialmente dall’apparizione dell’adolescenza stessa.
E anche perché non c’è altra età in cui »la Signora vestita di nulla/e che non ha forma», come Gozzano chiama la morte, non venga presa più seriamente come in adolescenza. E Socrate narra la sua vita guardando la fine in faccia, “con gli occhi asciutti/nella notte triste” degli ateniesi.

Poi l’anno scolastico prosegue, costringendo a mirabolanti slalom tra le verifiche e le pagine dei manuali. Ma nel frattempo qualcosa si è attivato, e scava in modo carsico. Per dar voce a questo lavorio del pensiero, ho lanciato la proposta di portare avanti il dialogo con Socrate nelle giornate estive: il vaticinio socratico (quello riportato nelle prime righe di questa pagina) si sta avverando? Ho proposto la scrittura di una riflessione ai membri delle classi a me affidate: chiunque avrebbe potuto intervenire, con la penna o la macchina fotografica. Il risultato sono i pezzi e le immagini che trovate di seguito: non ho rifiutato nulla (non l’avrei comunque fatto) e l’intervento redazionale si è rivelato minimo. Ciascuna delle ragazze, ciascuno dei ragazzi ha lavorato in autonomia, senza il confronto con i pari, né con l’assillo di una valutazione. Qualcuno mi ha solo chiesto una copia della rivista. A fianco, compaiono alcuni scritti “adulti”: si tratta di persone che, di persona o attraverso i loro saggi, ho constatato essere decisamente innamorate dei giovani, della politica, delle domande, della vita degna di essere vissuta.

La raccolta dei testi dei ragazzi esce con il numero di Marzo di Madrugada.

Astio condiviso e apatia


Stando a quanto si legge nell’intervista a Franzen riportata da La Repubblica, il procedimento giudiziario intentato in Germania contro il fondatore di Facebook dovrebbe suonare come una sorta di rivincita, alle orecchie dell’autore di Purity.

Secondo Franzen: 

Il fenomeno Trump è inimmaginabile senza Internet e i social media. Internet ha creato un mondo in cui si può vivere immersi nella la propria realtà virtuale senza doversi mai confrontare con la realtà nel vecchio senso del termine. E Twitter non fa che peggiorare le cose, perché non consente sfumature né complessità. Verrebbe da pensare che postare dei tweet detestabili su una ex Miss Universo alle tre di notte squalifichi un candidato alla presidenza, ma nel mondo di Twitter non esiste distinzione tra pubblico e privato. Se si vive in quel mondo il tweet di Trump, carico d’odio nel cuore della notte, sembra perfettamente normale. Si apprezza Trump perché è “vero”

Franzen non è nuovo a ragionamenti simili, secondo cui la Rete avrebbe il demerito di a. Confondere reale e virtuale e b. Abolire la complessità. E così anche Trump ne sarebbe un sottoprodotto, o almeno sarebbe tale il fenomeno politico a lui collegato, ovvero in altri termini le motivazioni che spingono una parte di aventi diritto a seguirlo. Che su Trump la questione sia un poco più complessa – e allora forse alcune tesi sulla fine della complessità non dovrebbero essere veicolate da una intervista – lo ha dimostrato tempo fa, in Italia su Internazionale, un reportage di Dave Eggers, L’America vista da un comizio di Trump (che non trovo on line se non in inglese, qui).

Ho la sensazione tuttavia che il Web sia solo l’ultimo tratto di un cambiamento ben più imponente. In primo luogo la Rete non fa che ampliare e rendere totalizzante la “logica del telecomando”, secondo cui se alla prima occhiata l’immagine non fa per me, il dito immediatamente mi porta altrove. Lo zapping è l’antesignano della voracità con cui si scorrono i Social. Ora, di per sé, il telecomando non ti dice se ciò che vuoi evitar di guardare o quello su cui ti fermi sono prodotti culturali di qualità o meno. Obbedisce alla tua intuizione del momento, governata da qualche bisogno carsico. Allo stesso modo, la Rete non opera una scelta per te, o meglio, la opera in modo a te incomprensibile, attraverso algoritmi non accessibili ai più. Il cosiddetto virtuale quindi non è l’irreale, ma il massimo della tua realtà fisica di quel momento: un bisogno, una emozione. Che spesso non conosco e a cui non do un nome.

Come intravisto da Baricco nei suoi Barbari, siamo di fronte all’abolizione di qualsiasi gerarchia di valore e ciò ovviamente fa rabbrividire chiunque parta da una prospettiva valoriale di qualsivoglia tipo. Ma non somiglia tutto questo al grido del folle in Nietzsche? L’abolizione di tutti i valori fu da parte sua una presa d’atto, più che una scandalizzata denuncia. E l’avvertimento riguardava il pericolo di costruirsi nuovi idoli, al posto di quelli frantumati. Il Novecento ha fatto del suo meglio, costruendo davvero mondo virtuali ai quali tendere e verso cui trascinare le masse, in nome dell’Uguaglianza, della Nazione, della Razza. Astrazioni, ma portatrici di morte Finì dunque che il mondo vero continuò a divenire favola, ma contro Nietzsche. Ora l’idolo parrebbe il Soggetto, l’io.

A me pare che ci sia ancora, in Franzen, la nostalgia di una guida. Non in termini totalitari certo, piuttosto più vicini alla Missione del dotto di Fichte: qualcuno o qualcosa che salvi le masse dal l’indifferenza della Rete, che le porti alla liberazione attraverso l’intelligenza. In Purity il tentativo dello pseudo-Assange è destinato alla sconfitta, parrebbe. Ma se all’origine sta il dito, che usa il telecomando o sfoglia il tablet, allora si potrebbe trovare una via più efficace negli stoici e contrapporre all’indifferenza forzata della Rete, la loro indifferente apatia, il saper dare un peso adeguato a ciò che incontriamo. Forse dovremmo tornare a studiare Seneca, Marco Aurelio, magari sotto la guida di Pierre Hadot.