Insomma, sempre fuori dai!

Mi pare che non vi sia nulla di meno vicino a Kierkegaard di un aspetto dei tempi in cui vivo.

Kierkegaardiana era la consapevolezza dolorosa che qualcosa in noi è sempre e comunque manchevole. Niente di autoflagellatorio, ma la certezza che non siamo – direbbe Arthur Schopenhauer – “angeli senza corpo”: la semplice presenza di un corpo ci rende limitati. Bellissimi, angosciati e limitati. Anche se rassodato, depurato, tirato a lucido, anabolizzato… Il nostro essere corpo ha limiti evidenti, diversi tra uomo e uomo, simili in generale.

Al contrario, oggi ci è chiesta sempre la massima prestazione. Non sono queste righe una critica al senso del dovere, al lato costruttivo di porre accento sul merito o all’assunzione delle proprie responsabilità, quanto un breve borbottio notturno circa la pressione sociale del dover essere sempre “a posto”. Siamo misurati – da chi? – nel nostro fare lavorativo, economico, solidale, estetico; digerente, circolatorio, sessuale, riproduttivo; intellettivo, relazionale, affettivo, erotico.

La massima prestazione comunque e ovunque è un ideale, una ideologia. Il fatto stesso che aumenti il numero dei Neet, o che la transizione verso il lavoro sia rimandata di continuo, in / da un sistema formativo autoreferenziale, sembrano strategie di resistenza contro la “società della prestazione” come direbbe Byung-Han. Ma il tutto si riduce così ad uno scontro tra ragazzi testardi.

È ideologico, dunque, l’Ottimo-sempre. E lo sappiamo, nelle nostre vene. Ma non lo conosciamo, e quando da lontano, ai margini della coscienza, si avvicina una qualche minuscola sconfitta, ma la distanza è ancora ampia e nulla possiamo figurarci di preciso, quando solo avvertiamo la possibilità remota di qualcosa che ci metterà alla prova – come un leggero profumo dolciastro di alberi in autunno, percepito ma non realizzato in questa strada di città – ecco che attiviamo difese minime immediate, che confermino il nostro essere a posto, cioè essere al mondo. Una musica nelle cuffie, un caffè al bar, un acquisto on-line, il progetto di una vacanza. Ecco dove agisce il Mercato, ecco dove ci vogliono a posto, ecco il luogo che stanno costruendo per noi, l’Utòpia reale, la Città Iperconnessa, nella quale tutto è a portata di mano, al nostro prezzo, calcolato proprio per noi sulla base di algoritmi a seconda del quartiere, degli acquisti recenti, dei like prima espressi.

Non v’è scampo. Abbiamo nei fatti accettato (i nostri avi lo fecero) il sistema industriale e tecno-scientifico, accetteremo anche questo, perché pagare con il pollice è in effetti molto comodo (l’opponibilità non nacque per ciò?) , così come farci arrivare un libro o usare la banca-on-line per i biglietti del teatro.
Ma.
Rimane il ma, lo stesso da Parmenide in poi: guarda al tuo bisogno reale, e poi alle tue possibilità, non avanzare come un “uomo a due teste”: curvati sulla tua pancia e ascolta la richiesta vera.

PS. a perfetto commento di quanto scritto (o meglio, viceversa), questo video by Steve Cutts [grazie Ric]

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