In ricordo di Alan M. Turing

Chiese il necessario per scrivere. Glielo portarono subito. Forse non era quella la carta che avrebbe voluto avere: i fogli non avevano intestazioni di sorta – e questo andava bene – ma era troppo ruvida al tatto e granulosa. Anche la penna poi, vecchia stilografica recuperata chissà dove, non era proprio ciò che desiderava.
Suonò ancora. Abituato da vent’anni ad avere come esclusivi strumenti di lavoro una risma di carta quadrettata e un mazzetto di matite ben appuntite, rinunciava malvolentieri a queste abitudini, ovunque gli capitasse di mettersi a lavorare.
Finalmente gli fecero avere la matita: una matita sola, ma nuova e ben temperata. Mancava, tuttavia, il temperino. Solo avendolo a portata di mano la scrittura avrebbe potuto prender corso senza limite alcuno e, le rotture della mina, o il suo progressivo spuntarsi, non sarebbero diventate interruzioni poste al fluire dei pensieri.
Ma, più piacevolmente, si sarebbero trasformate in soste durante le quali sarebbero state le mani e le dita – impegnate nel gesto di infilare, sostenere, ruotare e raccogliere – a mimare o scolpire, in una sorta di aerea scultura, le volute che il pensiero inanellava.
Cercò di dimenticare un vecchio calendario, fermo al dicembre dell’anno precedente, appeso alla parete, sopra la semplice scrivania di metallo verde.

Questo l’incipit del ricordo di Alan Mathison Turing, scritto QUI da Giorgio Boatti.

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