de-schola#2 – interno giorno

«Scriva un libro, prof!». La voce è quella squillante del mio Sergente Nella Neve. Se mai potessimo calarci nei panni di Er, ne La Repubblica platonica, e scorgere il momento di scelta del proprio destino, so che vedremmo E. prender su la vita di un soldatino italiano, nella Prima o nella Seconda. Uno di quelli che ha dato tutto e poi è tornato sconvolto ma vivo e poi si è messo in testa di cambiare il paese, come Revelli ne Le due guerre. Insomma, E. parla con la voce del coraggio e se mi lancia questa provocazione non vuole solo mettere in pausa le mie elucubrazioni sulla scuola, ma anche invitarmi a far di più e meglio. A dimostrare che un senso una scuola ce l’ha ancora.

La mia tirata, tra una citazione hegeliana e l’altra – perché bisogna pur sempre obbedire al kantiano andareavanticolprogramma – nasceva da qualcosa che aveva corso carsico per tutta la mattinata. Una reazione della classe all’idea di interrogare, una risposta timida a proposito di persone che si offrivano e morta là. Anzi no. Qualcosa ruminava nei gangli della pancia. Ero uscito dall’aula sovrappensiero, con una lucetta illuminata sul cruscotto: il check automatico aveva segnalato un guasto. Già, ma dove cercarlo? Nella difficoltà di interrogare? Nella fatica del valutare? Nel voler concludere un argomento senza interruzioni? Nel secondo quadrimenstre che precipita? Nella temperatura della classe? Nella cravatta stretta? Nella borsa inutilmente pesante? Mah.

La grande luce, ad un tratto: la mia personalissima reazione è scattata di fronte a quella gentile timidezza. Giovani uomini e donne che hanno una soluzione sensata ed equlibrata e non la schiaffano in faccia al loro prof. Ancora una volta avevo paura della paura. Paura mia di fronte alla paura loro. Perché la timidezza non è che una sfumatura inizio/metà novecentesca della paura. Non sarà mica un timido, lei? Dice il superiore all’ufficiale deputato a vigilare in attesa dei tartari nel deserto buzzatiano. Si, avrei risposto. Ma tanto il militare non l’ho fatto e quindi che cosa parlo a fare. Timido io, nella mia insicurezza di insegnante, timidi loro nel doversi destreggiare in una selva di valutazioni-trappole.

Provare paura o rabbia. Emozioni umane troppo umane ma che per un accordo tacito un adulto maturo occidentale dovrebbe avere superato da tempo. Figuriamoci un insegnante, colui che deve istruire con fermezza d’animo, per definizione. Paura o rabbia non sono tollerate dal sistema, che chiede efficienza. E con sistema non intendo né colleghi o superiori, che a parlarci con pazienza a tu per tu si scopre – guarda un po’ – che s’intimoriscono e impauriscono pure loro; e nemmeno i ragazzi, la cui soglia di tolleranza è sempre più alta di quanto gli adulti non immaginano. Ma proprio una struttura impersonale, fondata su consuetudine e meccanismi inconsci, che si nutre del “si fa” e “si dice”, che s’abbevera dell'”opportuno”, del “utile”, del “necessario”, del potente “avresti dovuto”.

La cara Paola Mastrocola ama i ragazzi, lo si percepisce. Chiede che il sistema venga cambiato, cosa che qualunque insegnante appassionato sa e vuole. Proprio in nome di quell’amore, chiede che venga data la possibilità di studiare a chi desidera accoglierla. Nel breve colloquio con Fazio non ha potuto descrivere quello che vede, e ha solo elencato alcune conclusioni. Penso che possa trovarsi d’accordo su questo: questa scuola non istruisce alle discipline o al metodo, perché in sostanza e generalmente non propone contenuti e metodo. Propone continuamente strategie per condurre allo studio, un continuo ostinato lavoro metacognitivo o meglio ancora metamotivazionale. Si propone come schizofrenica: ti propongo cose che per accettarle e indagarle ci vuol la passione, ma non posso permettermi di impiegare la sola passione. E così i ragazzi non si allenano a confrontarsi con variabili essenziali (per il dopo) come l’interesse, la creatività o la responsabilità; ma continuamente sono portati a confrontarsi con la strategia migliore per non essere sommersi. A strategia rispondo con strategia.

Una versione leggermente modificata di questo pezzo comparirà sul prossimo numero di Madrugada, rivista dell’associazione Macondo.

 

Socrate, i giovani e la morte

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione , ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.

Platone, Apologia di Socrate, la traduzione è tratta da qui

Socrate indica i giovani come portatori futuri del suo compito. Quale? Quello di condurre la gente a render conto a se stessa e agli altri di come sta vivendo. In altri termini, a dare ragione della paura o del coraggio che anima ciascuna delle nostre scelte.
Perché i giovani? Perché come lui essi più degli adulti possono affrontare la morte guardandola negli occhi; perché essi come lui non hanno ancora costruito o accettato un insieme di piccole certezze o grandi menzogne che aiutino loro a sopportare la vita.
Ma una vita sopportata non è degna di essere vissuta.

Fa eco il Maestrone, che osserva dal tavolino le beghe quotidiane nelle quali ci infiliamo:

O forse non è qui il problema
e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
e ognuno costruisce il suo sistema
di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali,
scordando che poi infine tutti avremo
due metri di terreno…

Francesco Guccini, Canzone di notte n. 2

La vita può solo essere danzata, perché sia vita.