Di Maria Luisa Verlato, leggendo Identità alla deriva, non si percepisce solo la professionalità , ma persino lo sguardo. Attento, non giudicante, concentrato sulla vita della persona che le siede davanti nei colloqui di psicoterapia; e poi aperto, trasversale, curioso dei mutamenti che i meccanismi sociali impongono a ciascuno di noi, lo si sappia o meno. Ma esserne coscienti o non esserlo genera un’enorme differenza nella capacità di resilienza che possiamo adoperare per non essere sommersi e imprigionati dalla logica atomista del mercato.
Che cosa sta avvenendo intorno a noi? E dentro di noi? «Lasciati i tormenti della generazione precedente, la persona non si sente più in colpa e responsabile per le proprie difficoltà . Al contrario la causa dei propri problemi tende a essere collocata all’esterno di sé. E’ colpa degli altri se sto male. Io starei bene se solo fossero più precisi, se facessero come dico io, fossero più attenti a me, a venirmi incontro, a darmi ragione, a capire il mio valore, …se non mi lasciassero solo…» (pp. 21-22).
Edipo si sta allontanando, emerge Narciso: ma cercare di valorizzare il “tu” dialogando con questi “io” ipertrofici non basta più. Il disagio cambia volto e assume i connotati drammatici di una rottura del legame sociale. Ecco allora che non si tratta più solo di accompagnare le persone alla ricerca delle cause della propria infelicità , ma anche di collocare queste cause medesime in una società che è capace di creare il vuoto intorno a noi.
A partire dalla pratica dell’approccio di Carl Rogers e della teoria dell’attaccamento di John Bowlby, la Verlato guarda dentro questo spazio annichilente, nel buio oltre la siepe. Il nulla sperimentato da giovani e adulti, ma anche da bambini, è costituito da messaggi sociali alienanti. La competizione, per esempio, non intesa come positiva spinta a migliorarsi, ma come trionfo del giudizio, dell’etichetta incollata su di sé e sugli altri; la confusione esistenziale, per cui non so se i miei affetti sono reali, se davvero intendo proseguire gli studi; la rabbia divoratrice, cui si reagisce riempiendo il vuoto con oggetti, con cibo, alcool, gesti autolesivi. E’ faticoso non riuscire a dare il nome a quello che ci abita, andar oltre il “sto bene” o “sto male”, riconoscere le sfumature di quella che chiamiamo normalità .
E allora il nebuloso universo del Web 2.0, stadio dell’evoluzione di Internet nel quale trionfa l’interazione tra sito e utente, dà l’illusione di essere realmente in contatto con qualcuno. Ma se manca il contatto di noi con noi stessi, i messaggi sul cellulare, i contatti Facebook, le righe di Twitter sono solo tante richieste di aiuto, mascherate. «La vera autonomia in realtà nasce da relazioni sicure. Dal giusto equilibrio fra i bisogni di sicurezza, data dai legami, dal poter contare sugli altri nei momenti di difficoltà o quando si desidera stare con loro e i bisogni di libertà , di poter fare affidamento anche su di sé, consapevoli del proprio valore e delle proprie risorse per esplorare nuovi territori» (p. 85).
Ansia smodata, attacchi di panico… Non sono fenomeni legati unicamente alla vita profonda del singolo. E’ la cultura ad esser ferita: siamo sul ghiaccio sottile e bisogna pattinare veloci, correre per non restare esclusi (p. 94). E’ la vittoria dell’isolamento sulla sana capacità di solitudine.
C’è un’unica via: ripristinare la capacità di stare in relazione. Ancora una volta, la cosa che appare più ovvia (abbiamo genitori, viviamo con le altre persone, interagiamo continuamente) è invece quella che viene ignorata: prendersi cura del mio essere con te, del tuo essere con me. Maria Luisa Verlato non parla solo a specialisti terapeuti, ma con un linguaggio chiaro e mai retorico si rivolge a chiunque desideri accettare la responsabilità di custodire il legame sociale.