Che cosa sono, o meglio, chi sono i Millennials? Alcuni parlano di Generazione Y, o vero i nati tra il 1980 e il 2000, coloro che vengono dopo la Generazion X (1960-1980) e che precedono la Z (1995-2010) – prendendo questi range con un poco di grano salis.
Potrebbe essere già di interesse capire il perché di queste classificazioni, che incrociano sociologia, economia e antropologia. Ci si pose il problema dei nati tra il 1860 e il 1880? Coloro cioè che vissero i primi passi dell’Italia Unita? Certo, poco prima sulla scena c’era la generazione dei risorgimentali e poco più tardi appare la prima generazione in qualche modo tradita dai padri che la inviano nelle trincee della Grande Guerra. Ma, al di là di questo, un secolo fa la questione, se mai, era: alfabetizzato o no? Emigrante o no? Inurbato/operaio o no? Militesente o no? Si tratta di domande storiche.
Il “motivatore ed esperto di marketing” Simon Sinek, proprio in quanto tale risulta particolarmente convincente nella descrizione e nella difesa di questo gruppo umano. Una lettura utile per i docenti universitari (al limite) e soprattutto per i datori di lavoro (ai quali non a caso anche J. M. Twenge dedica un capitoletto nel suo Generation Me). Sinek è del ’73, la docente californiana del ’71 – dunque miei coetanei: è possibile che alla soglia dei quarantanni venga naturale porsi una domanda sui giovani che si hanno attorno? Forse perché si fatica a decifrarli? L’analisi della Twenge, tra l’altro, affronta un tema che si ritrova in un passaggio di Sinek, inevitabile per altro: il ruolo della famiglie. Secondo Sinek il bug consiste nell’ipercura come soddisfazione totale e immediata dei bisogni; secondo la Twenge sta nel fatto che la generazione dei genitori (quella del baby-boom, almeno negli USA) aveva acquisito la consapevolezza di dove costruire con cura la propria individualità , ma l’aveva fatto attraverso il poderoso strumento del gruppo. I suoi figli invece hanno perso la dimensione collettiva trattenendo l’obiettivo, il self interest. Lo strumento nuovo, quindi, è divenuto il mercato, sostituto di un efficace legame simbiotico che risponde sempre ai bisogni (se hai di che pagare: soldi, tempo, clic).
La lettura di Sinek si concentra sulla necessità di comprendere nuovamente i propri tempi e i propri bisogni, rinunciando alla soddisfazione immediata e alla trappola chimica del meccanismo della ricompensa, formulando una analogia tra l’uso dei social e le droghe o il giuoco d’azzardo, per esempio. E questo non vale solo per i Millennials, ma anche per i loro fratellini e sorelline – e pure per i genitori e i nonni. Il problema, ammette Sinek, non sono i Social, ma l’eccesso – verrebbe da dire: come sempre. Eppure mi pare che non si arrivi al punto – il che non significa che conosca ove sia questo punto, se non che la parola chiave mi paia “mercato” e dunque la logica neoliberista, ospitante una sorta di inganno sulle possibilità dell’individuo, o perfino sull’esistenza dell’individuo come portatore di bisogni naturali e indotti. In questo senso, il “collettivo” non offre soluzioni, né come mera somma di individui (la città esiste ancora?), né come (soluzione Sinek) possibilità di relazioni più autentiche.