Città  sommersa

Marta Barone
Città sommersa
Bompiani, 2020

«Il ragazzo corre nella notte». La scena, onirica, del giovane che percorre la città in pigiama e a piedi nudi, mentre tutti dormono, costituisce un ulteriore inizio della storia, che mi permetto di affiancare ai due indicati dall’autrice. Il primo, dedicato alla madre, presenza lieve che consegna, nel libro, poche ma decisive parole: se è vero che è la madre a costruire l’origine della figura del padre nella psiche del figlio, che apre all’incontro con lo straniero per eccellenza, allora lo spazio vuoto, come il «buco in testa» che immediatamente rapisce il lettore, è quello lasciato dalla sospensione di giudizio da parte di questa donna, spazio che permette alla figlia di ricostruire la relazione con il padre ridefinendone la figura.

Il secondo inizio, poche righe sotto, riguarda Marta e parla, a sua volta, di una figura da ridefinire, questa volta la propria, attraverso la ricerca delle informazioni sul papà, ma soprattutto le parole per dirlo e quindi dirsi. Marta dunque, come Atena, viene partorita dalla testa, ma non di Zeus, giacché egli è assente. E’ dunque una sapienza diversa, non trionfante o disvelatrice di verità marziali quanto di possibilità, per lo più irrealizzabili, come le parole che avrebbe potuto scambiare con il padre Leonardo o come le finalità politiche della lotta armata.

Il “terzo inizio“, se lecito, ha il potere di inserire il lettore nel dramma di questa città sommersa che è dramma di una notte di follia omicida, e insieme di anni insanguinati così vicini da sembrare impossibili e di una storia personale di un uomo irregolare, anti-eroico, perché chiamato sempre – da se medesimo – a ripudiare il piano astratto delle teorie rivoluzionarie, pur così attraenti, o delle istituzioni sanitarie, così potenzialmente – borghesemente – comode, attratto dal «diminuire aritmeticamente il dolore del mondo», come avrebbe detto Camus. Un uomo in rivolta, dunque – e per questo incompatibile con i tentati rovesciamenti totali del sistema.

Può essere davvero questo il modo per interloquire con i cosiddetti Anni di piombo, attraverso cioè la memoria individuale, necessariamente famigliare, che non viene ripercorsa in maniera intimista ma con uno sguardo informato sulla storia.
Viene in mente, con diversissimo stile ma eguale intensità, “I Senza memoria”, di Géraldine Schwarz, perché in entrambi i libri non si corteggia mai il lettore, né le sue emozioni. Marta Barone anzi ci interpella lucidamente, costruendo una certa complicità che senza artefizi conduce (o per lo meno mi ha condotto) alla nostalgia per questa persona e per altre come lui, alla fine vittime come la gente che ha sempre difeso.

La corsa del Leonardo giovane uomo richiama un altro attraversamento di città, stavolta davvero onirico, quello di Herlitzka/Moro, in “Buongiorno, notte”, di Marco Bellocchio. Due vicende nate dalla medesima follia, patologica e ideologica allo stesso tempo; lì la passeggiata melanconica cadenzata all’alba da Schubert, dopo le immagini tragiche dei funerali di Stato commentata dai Pink Floyd, qui una fuga con i piedi feriti, in cui “l’unica cosa autentica che irradia la notte è il sangue”, l’unico suono il fiato spezzato, le parole nella testa. Sullo sfondo, due città, Roma e Torino, addormentate, anestetizzate, sommerse dalla mancanza di senso.