la scuola è ri-creazione

Questo video, che ho conosciuto attraverso un post del Post, è stato realizzato dall’Istituto Statale di Istruzione Superiore Enrico Fermi di Bibbiena.

Dateci un occhio.

Trovo che sia ben fatto e divertente. Il finale (prima dei titoli di coda) è significativo: la scuola per trovare un senso va lanciata verso l’esterno. Tutto l’essere che la abita deve, plotinianamente, esondare, per esser fecondo. Non c’è didattica senza divertimento: quando capiremo che la fatica fine a se stessa oggi non porta a nulla? Oppure rimarremo affezionati alla retorica dell’impegno? Perché, per questa creazione artistica non c’è stato impegno? O forse il problema è che nel video non compaiono né un autore latino, né una formula di matematica?

 

pratiche di resurrezione

Martedì scorso l’Istituto nel quale lavoro ha ospitato questo progetto della Comunità di San Patrignano. Dateci un occhio, io vi scrivo quel ho pensato e sentito.

Le questioni sui metodi usati in comunità, probabilmente più in passato che ora (uno dei responsabili, nel colloquio con i docenti ha parlato dell’aver dovuto imparare dai propri errori, in maniera generica, ma sincera), qui non ha importanza. Si tratta invece di aver individuato una formula interessante – ed efficace – per proporre il macrotema “droga” agli adolescenti.

Il primo dato importante è che l’informazione tecnica sulle droghe lascia il tempo che trova. I ragazzi accedono quotidianamente a decine di forum in rete nei quali viene spiegato tutto, dagli effetti al bricolage chimico, ai luoghi reali o virtuali dove acquistare prodotti finiti o materie prime.

Il secondo dato è che parlare di droga mettendo in evidenza la distruzione della vita è una strategia che contiene non solo una logica punitiva per gli ex-tossici, ma anche un messaggio che non permette di andar oltre l’annichilimento sociale che concorre al problema. Il dibattito sulla droga è banale e banalizzato, incastrato nelle polemiche tra legalizzatori e iper-rigidi, tra leggero e pesante, tra droghe illegali e droghe tollerate, come l’alcol. Insomma non tiene conto di che cosa sta dietro. Dietro al mercato del farmaco, come baraccone sostenuto da chi ha convenienza ad individuare la soluzione chimica per ogni micro dolore umano. Dietro alle singole vite di donne e uomini che passano nel buio fitto del silenzio della ragione e conducono se stessi e i propri cari all’autodistruzione.

Al contrario questo progetto punta a mettere al centro la possibilità di uscirne. La strada per tornare ad essere innamorati delle cose e della vita. Può sembrare retorico, detto così. Non lo è se si ascoltano da due protagonisti veri di queste vicende le narrazioni delle proprie normali esistenze, prima durante e dopo. Luca e Riccardo, sul palco insieme al regista e sceneggiatore Francesco Apolloni, sfruttando la dinamica del reality, parlano di se stessi. Non lo fanno da attori protagonisti, perché non interpretano il timore di parlare o cantare, l’imbarazzo, l’emozione di ripensare a papà e mamma. Ma così come sono, si propongono.

La vita parla di sé: la vita parla da sè. Non servono tirate moralistiche, nè rimproveri accigliati. I ragazzi raccolgono un’emozione e questa ricorda loro che la vita è già stupefacente. Al termine Apolloni rammenta al pubblico che alcuni studi dicono che stiamo meglio se ci abbracciamo almeno cinque volte al giorno con qualcuno. E così ha chiesto a noi in platea di farlo. Vinto l’immediato imbarazzo, adulti e ragazzi si sono abbandonati.

Una cosa impossibile nella dinamica glacialmente cartesiana dell’istituzione scolastica. Ho potuto davvero godere di quegli abbracci.

antischola

Secondo quanto riporta La Repubblica, il Presidente del Consiglio avrebbe detto quanto segue:

“Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori”

Ora:

– insegno in una scuola paritaria salesiana e il mio servizio è pubblico; sono diplomato SSIS (III ciclo) a pieni voti, nonché abilitato all’insegnamento da una commissione statale. Per questi motivi sono quindi annoverabile tra i docenti delle scuole dello Stato

– ho studiato per cinque anni presso il Liceo Scientifico Statale “Alvise Cornaro” di Padova, istituto considerato “di sinistra”, secondo banale vulgata. Non ho mai ricevuto, né esplicitamente, né velatamente messaggi partitici, né ideologici. I miei insegnanti migliori, Giuseppe della Frattina e Maria Teresa Vendemiati, non possono certo essere annoverati tra gli ultras bolscevichi, e nemmeno venir scambiati come stolidi e acritici detrattori (o sostenitori) del potere costituito, di destra, sinistra o centro che fosse

– quanto a coerenza, logica, lessico, capacità di analisi storica e di discernimento ideologico, ho imparato da loro in un’ora di lezione più di quanto non me ne sia venuto da tutti i discorsi pubblici del premier italiano messi in fila uno dopo l’altro

– se il punto precedente venisse tacciato di partigianeria ideologica, la logica che lo riterrebbe tale sarebbe da cosiderarsi non falsificabile, quindi non dimostrativa, ergo puramente retorica

– la mia famiglia può serenamente essere detta cattolica: non ho mai sentito i miei genitori lamentarsi di un’invasione ideologica da parte dei miei docenti liceali

– quanto precede può essere tranquillamente sostenuto anche per i contesti scolastici incontrati dai miei fratelli, da mia moglie e da molte persone sensate da me conosciute

– ho prestato servizio presso (almeno) due licei statali della mia città: ho incontrato colleghi cazzoni, incapaci, banali, ma non ho mai incontrato colleghi con posizioni politiche tali da far del loro lavoro un’opera di proselitismo

– è osceno e oltraggioso che un Presidente del Consiglio svaluti un’istituzione che egli stesso rappresenta, in quanto Primo Ministro di una serie di ministeri che comprende anche quello dell’Istruzione, cioè preposto alle scuole di Stato

– è altrettanto osceno e oltraggioso che possa esserci qualcuno che, un domani, impieghi tali vuote affermazioni per difendere la scuola paritaria. Essa non deve difendersi, se opera in obbedienza al dettato costituzionale. La sua validità non può essere misurata sulla base del sistematico affossamento della scuola statale. Se s’intende istituire un sano confronto tra modelli pedagogici diversi, si diano a tutti gli istituti pari condizioni di partenza, sia come attenta cura della scuola statale, sia come aiuti alle paritarie o alle famiglie. Guai all’uomo che prende le parole dello stolto per difendere il giusto.

de-schola#2 – interno giorno

«Scriva un libro, prof!». La voce è quella squillante del mio Sergente Nella Neve. Se mai potessimo calarci nei panni di Er, ne La Repubblica platonica, e scorgere il momento di scelta del proprio destino, so che vedremmo E. prender su la vita di un soldatino italiano, nella Prima o nella Seconda. Uno di quelli che ha dato tutto e poi è tornato sconvolto ma vivo e poi si è messo in testa di cambiare il paese, come Revelli ne Le due guerre. Insomma, E. parla con la voce del coraggio e se mi lancia questa provocazione non vuole solo mettere in pausa le mie elucubrazioni sulla scuola, ma anche invitarmi a far di più e meglio. A dimostrare che un senso una scuola ce l’ha ancora.

La mia tirata, tra una citazione hegeliana e l’altra – perché bisogna pur sempre obbedire al kantiano andareavanticolprogramma – nasceva da qualcosa che aveva corso carsico per tutta la mattinata. Una reazione della classe all’idea di interrogare, una risposta timida a proposito di persone che si offrivano e morta là. Anzi no. Qualcosa ruminava nei gangli della pancia. Ero uscito dall’aula sovrappensiero, con una lucetta illuminata sul cruscotto: il check automatico aveva segnalato un guasto. Già, ma dove cercarlo? Nella difficoltà di interrogare? Nella fatica del valutare? Nel voler concludere un argomento senza interruzioni? Nel secondo quadrimenstre che precipita? Nella temperatura della classe? Nella cravatta stretta? Nella borsa inutilmente pesante? Mah.

La grande luce, ad un tratto: la mia personalissima reazione è scattata di fronte a quella gentile timidezza. Giovani uomini e donne che hanno una soluzione sensata ed equlibrata e non la schiaffano in faccia al loro prof. Ancora una volta avevo paura della paura. Paura mia di fronte alla paura loro. Perché la timidezza non è che una sfumatura inizio/metà novecentesca della paura. Non sarà mica un timido, lei? Dice il superiore all’ufficiale deputato a vigilare in attesa dei tartari nel deserto buzzatiano. Si, avrei risposto. Ma tanto il militare non l’ho fatto e quindi che cosa parlo a fare. Timido io, nella mia insicurezza di insegnante, timidi loro nel doversi destreggiare in una selva di valutazioni-trappole.

Provare paura o rabbia. Emozioni umane troppo umane ma che per un accordo tacito un adulto maturo occidentale dovrebbe avere superato da tempo. Figuriamoci un insegnante, colui che deve istruire con fermezza d’animo, per definizione. Paura o rabbia non sono tollerate dal sistema, che chiede efficienza. E con sistema non intendo né colleghi o superiori, che a parlarci con pazienza a tu per tu si scopre – guarda un po’ – che s’intimoriscono e impauriscono pure loro; e nemmeno i ragazzi, la cui soglia di tolleranza è sempre più alta di quanto gli adulti non immaginano. Ma proprio una struttura impersonale, fondata su consuetudine e meccanismi inconsci, che si nutre del “si fa” e “si dice”, che s’abbevera dell'”opportuno”, del “utile”, del “necessario”, del potente “avresti dovuto”.

La cara Paola Mastrocola ama i ragazzi, lo si percepisce. Chiede che il sistema venga cambiato, cosa che qualunque insegnante appassionato sa e vuole. Proprio in nome di quell’amore, chiede che venga data la possibilità di studiare a chi desidera accoglierla. Nel breve colloquio con Fazio non ha potuto descrivere quello che vede, e ha solo elencato alcune conclusioni. Penso che possa trovarsi d’accordo su questo: questa scuola non istruisce alle discipline o al metodo, perché in sostanza e generalmente non propone contenuti e metodo. Propone continuamente strategie per condurre allo studio, un continuo ostinato lavoro metacognitivo o meglio ancora metamotivazionale. Si propone come schizofrenica: ti propongo cose che per accettarle e indagarle ci vuol la passione, ma non posso permettermi di impiegare la sola passione. E così i ragazzi non si allenano a confrontarsi con variabili essenziali (per il dopo) come l’interesse, la creatività o la responsabilità; ma continuamente sono portati a confrontarsi con la strategia migliore per non essere sommersi. A strategia rispondo con strategia.

Una versione leggermente modificata di questo pezzo comparirà sul prossimo numero di Madrugada, rivista dell’associazione Macondo.

 

de-schola#1

Rilancio l’intervista di Paola Mastrocola a Fazio. E’ un tema che mi sta a cuore, al di là del fatto che la scuola è la mia professione principale. Sarà interessante seguirne il dibattito e se possibile integrarlo.

http://www.youtube.com/watch?v=QYzQ4pgTMxY

La mano sulla culla

Arianna è una cara amica. Amica nel senso che ci parli e avverti una sintonia di princìpi e di ideali. Ci si indigna per le stesse piccolezze, ci si entusiasma per progetti vicini. Amica nel senso che se ti vede debole, impacciato, insicuro non se ne accorge. Non è che fa finta: proprio non ci bada. Pensa già a quel che di intelligente potresti dire o fare subito dopo.

Quando ha saputo/sentito di portare sua figlia Viola in grembo, ha pensato di non poter tenere la lampada sotto il moggio, e – intuendo che sono i figli a scegliere i genitori già da sempre – ha pensato bene di preparare l’universomondo all’arrivo della sua creatura.

Lo ha fatto con un blog nel quale all’attenzione educativa abbina la passione che è divenuta per lei professione, quella del cinema. La mano sulla culla è la mano che governa il mondo.

Socrate, i giovani e la morte

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione , ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.

Platone, Apologia di Socrate, la traduzione è tratta da qui

Socrate indica i giovani come portatori futuri del suo compito. Quale? Quello di condurre la gente a render conto a se stessa e agli altri di come sta vivendo. In altri termini, a dare ragione della paura o del coraggio che anima ciascuna delle nostre scelte.
Perché i giovani? Perché come lui essi più degli adulti possono affrontare la morte guardandola negli occhi; perché essi come lui non hanno ancora costruito o accettato un insieme di piccole certezze o grandi menzogne che aiutino loro a sopportare la vita.
Ma una vita sopportata non è degna di essere vissuta.

Fa eco il Maestrone, che osserva dal tavolino le beghe quotidiane nelle quali ci infiliamo:

O forse non è qui il problema
e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
e ognuno costruisce il suo sistema
di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali,
scordando che poi infine tutti avremo
due metri di terreno…

Francesco Guccini, Canzone di notte n. 2

La vita può solo essere danzata, perché sia vita.

sir Ken Robinson # 2 – sull’emancipazione

Ci sono idee che diamo per scontate, che hanno partecipato alla nostra crescita e adesso sono parte di noi, ma alle quali siamo parimenti assoggettati. Le consideriamo ordine naturale delle cose. Molte di queste idee sono state concepite in tempi e situazioni diverse dal presente e sono ormai relitti, reliquie o fossili. Magnifici magari, ma esseri morti. Una di queste, nell’istruzione, è l’idea di linearità, per cui se segui esattamente il percorso scolastico prefissato, arriverai a sistemarti per il resto della vita. Ma questo non succede, o non succede più. E soprattutto questo non tiene conto delle effettive potenzialità di ciascuno, che potrebbero essere del tutto divergenti, o non contemplate, nel curriculum “normale”… «Ci siamo svenduti ad un modello-fastfood di istruzione».

L’intervento di Ken Robinson è qui. E’ in un inglese affascinante, ma è possibile selezionare i sottotitoli in italiano.