Chiedere in prestito occhiali altrui

La cultura della pace ancora oggi si presenta come un’autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un’ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l’aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell’altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l’altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d’odio.

Alessandro Bruni recensisce il libro di Achille Rossi su Panikkar, QUI

Apologia del tradimento

Declinazioni in ino
Sguardo bovino. E’ quello tipico del padre al parcogiochi, mentre spinge l’altalena o attende che la creatura sguazzi nella sabbia. Lo so perché lo vedo, e lo vedo perché mi ci specchio. Ebbene, anch’io faccio parte della nobile schiera di maschi adulti che accompagnano la prole al parco, e non solo il sabato o la domenica. Non è tutto: preparo la pappina, cambio pannolini, pulisco sederini, infilo il pigiamino… Le riviste patinate – quelle che addolciscono i quotidiani nazionali nella seconda parte della settimana – ci dicono che i padri sono cambiati, anzi che si tratta di una «rivoluzione antropologica» (“La Repubblica-D”, 10 settembre 2012): «fino alla fine del Novecento sopravviveva la vecchia figura del padre fisicamente e emotivamente distante dal bambino nel suo primo anno di vita, frutto di una società maschilista e patriarcale che considerava la cura, il care, un’esclusiva della donna», afferma il neonatologo Volta, che nel suo sito (vocidibimbi.it) confessa che se non fosse se stesso, vorrebbe essere sua moglie Monica.

Ecco, io non so se vorrei essere mia moglie e, per quanto colga l’affetto e l’ironia dell’espressione, non lo desidero per non soggiacere all’epiteto, oltraggioso per la grammatica e insensato per la pedagogia, di “mammo”. La fretta di catalogare, che talvolta sembra unico criterio adottato da chi compone gli articoli di giornale, ha creato questo vocabolo, che genera confusione invece di aprire nuovi spazi semantici. Il dottor Volta stesso ne è pienamente consapevole, perché, incalzato dal giornalista, sottolinea che «il padre non deve scimmiottare la madre. Deve trovare un modo suo di prendersi cura del bambino». Insomma, si tratta di uno stile di cura del figlio che, ispirato alla madre, viene però interpretato in modo pienamente e totalmente maschile. Ma perché allora schiacciare in genere la questione sulla mamma-con-la-o? Che ci sia un cambiamento nell’aria, è testimoniato dal moltiplicarsi dei testi, scientifici o meno, sulla figura paterna, sulla sua crisi, sulla trasformazione di una società – come direbbero femministe d’altri tempi – fallocentrica, in qualcosa di diverso, a prima vista più empatico, meno direttivo o impositivo. E come spesso accade, di fronte all’inedito scarseggiano le parole.
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Cosa resta dei padri?
Macondo se lo è chiesto in uno degli ultimi convegni per le famiglie, su ad Asiago nel settembre 2012. La domanda, carica del potenziale provocatorio tipico della titolistica associativa, giunge al termine di un’amara constatazione: il senso di comunità vacilla, da un lato, e dall’altro è venuta a mancare la continuità tra le generazioni. Le due cose vanno pensate insieme: fatichiamo a riconoscere dei luoghi in cui sperimentare il legame sociale, contenitori di persone e di senso che fungano da occasione per incontrarsi e costruire nuove narrazioni collettive; solamente in essi padri e figli possono parlarsi, scontrarsi, riconoscersi e infine differenziarsi. Ma non c’è già la famiglia, per questo? Qualcuno potrebbe domandare… Non è la famiglia infatti il luogo principe per l’incontro e anche per lo scontro? Non è la famiglia il laboratorio per sperimentare finalmente il conflitto? E se non fosse così?

A scuola, la storia è per lo più teoria di guerre, una polemologia nascosta. Sono di fronte alla sostanziale impreparazione di una delle mie classi a proposito del Risorgimento italiano e mi chiedo che cosa avrei potuto fare di più, dire meglio, schematizzare con maggior precisione. Li colgo in ansia, braccati da uno stress inguardabile in un adolescente: non è l’adrenalina di fronte ad una sana sfida, ma un imbuto di doveri, il più vicino dei quali è la cosiddetta “pagellina”. Apro la questione e presto qualcuna, in primo banco, svela l’arcano: se porto a casa le insufficienze mi «cavano la vita». Il punto sta qui: non ho fino in fondo la possibilità di affrontare con loro argomenti didattici, perché in questione è un sotterraneo conflitto irrisolto sul senso della scuola e dello studio, uno scontro congelato che riposa nel freezer di questa e di altre famiglie. I ragazzi vengono ammoniti, minacciati, giudicati, ma non sembra ci sia nessuno che litighi seriamente insieme a loro sulla gerarchia degli impegni, sulla priorità dei doveri.
«Il tuo lavoro è la scuola», si ripete. Ma se nel contempo, nelle azioni, comunico a mio figlio che non amo il mio lavoro, né informarmi, né capire il mondo che mi circonda anche attraverso un libro? Perché tutto questo dovrebbe essere per lei o per lui una cosa ovvia? «Perché studiare ti prepara al futuro» e quindi «te lo dico per il tuo bene». Ecco l’inganno: ti sto proteggendo, per questo ti impongo la strada.

La domanda non fa riposare
Prevale il legame simbiotico: di origine materna, necessario e fisiologico sino ai primi anni di vita, diviene poi una non voluta strategia di soffocamento. Per non soggiacere alla mia ansia di genitore per la tua felicità, sono costretto a costruire una campana di vetro intorno alla tua esistenza. Ti trattengo, ti mantengo, ti custodisco: devi fare quel che ti dico. Non c’è discussione sui possibili valori altri dei quali tu, in quanto essere umano adolescente, ti potresti far portatore. La simbiosi non è inefficace di per sé, ma diventa distruttiva se cade fuori tempo. Di qui la necessità di tornare a parlare del conflitto, che è il motore fisiologico di una relazione tra generazioni (e non solo) che sia sana, tema portante delle riflessioni di Daniele Novara e del Centro da lui fondato (www.cppp.it). Solo il conflitto può spingerci verso un legame creativo, una relazione che proietta verso l’esterno, che libera.

Conflitto… Si tratta quindi di un invito a litigare? Litigare in famiglia? In parrocchia? A scuola? Le domande a quanto pare si stanno moltiplicando. E porre una domanda, con il coraggio di chi vuol capire, di chi cioè non presume già di avere “la” risposta, significa già aprire un conflitto. Chi chiede, lo fa perché è interessato a quello che l’altro pensa, perché mette a repentaglio la propria visione del mondo, perché ha bisogno di completarla. E così facendo spariglia l’altrui visione, lo status quo. Altrimenti, è solo un’affermazione che per gentilezza viene corredata alla fine da un punto interrogativo.

Ecco: chi è in grado di domandare senza timore? Il bambino, quando entra nel tunnel dei “perché” e dei “che cosa è” e si fa insistente nel suo cercare la rete che chiarifichi gli eventi. La categoria della causa-effetto appare all’orizzonte dei due anni, quasi insieme al linguaggio, e se sei fortunato questo interrogativo non ti molla più. E poi l’adolescente, che chiede non solo per sapere ma per mettere in discussione la tua granitica sapienza del mondo. La quale spesso si rivela saccenza, se ci facciamo trovare impreparati, insofferenti, frettolosi, schematici. Socrate dedica ai giovani alcune tra le sue ultime parole: «più di uno sarà di chi vi accusa, gente che io trattenevo, e voi non ve ne siete accorti; e saranno più duri, quanto più saranno giovani, e voi tanto più ne sentirete il peso» (Apologia).AdoCarrello

Socrate non portava i jeans
Bambini e adolescenti cercano, così, per natura. Ma chiunque ha bisogno di un senso, foss’anche, come diceva Camus, per rispecchiarsi nell’assurdo. E a questa “domanda di senso” l’immaginario collettivo cerca risposta nella figura del vecchio saggio: è il nonno che, placido, fuma la pipa e osserva dalla sua sedia il moto circolare della famiglia. E’ il decano del gruppo, colui che ne ha viste tante e riesce a collocare la tua inquietudine come un passaggio necessario, drammatico, ma non distruttivo. Costituisce la riserva, la memoria del gruppo, e perciò sa di che cosa sta parlando la tua ansia, ma non deve tranquillizzare, perché poi, se solo dai tempo, sarà la vita a guarire. E’ il senatore, chi cioè può poggiarsi al bastone del suo essere senex per operare nel delicato compito di nomoteta, di legislatore. E’ lo starec Zosima per Aleksej Karamazov, il Gandalf di Tolkien, Albus Silente per Harry Potter, Mago Merlino per il piccolo Artù disneyano, Morpheus per Neo in Matrix, sino al prete solo e solitario, in Corpo Celeste, che finalmente fornisce un minimo orientamento a Martina.
La lista sarebbe lunga e l’intento non è quello, a questo punto, di contrapporre semplicemente queste figure maschili alla Fata Turchina collodiana, la Smemorina di Cenerentola o Flora, Fauna e Serenella della Bella Addormentata. Ma la tentazione è forte: se in questi casi infatti la “madre” buona, consolatrice e amorevole, per quanto anche severa, si prende cura del piccolo, negli altri il maschio rappresenta un riferimento sicuro ma che costringe alla solitudine della scelta.

Allora, data per certa la presenza materna, i nonni hanno sostituito i padri? Perché la letteratura e il cinema rincorrono la sapienza, le risposte di questo “padre non padre” che è il nonno? Che cosa accade in questo spazio creato dal salto di una generazione?
Un ulteriore elemento aumenta la complessità. Siamo nella società del forever young: la Chiesa dovrebbe farsi giovane per parlare ai giovani (eventi, musica, WEB); la Scuola dovrebbe svecchiare il corpo docente per ritornare ad essere efficace e agganciarsi al mondo attuale; la comunicazione nei media scoppia di colori, icone e di link, quasi avesse come interlocutrice solo la gioventù. Dell’anziano il corpo va monitorato, aggiustato, protetto dalla chimica medicinale, quando non restaurato con capelli e zigomi posticci, camuffato da giovane con le giacchette strette e i pantaloni alla moda. Le rughe rimangono solo nelle suggestive foto dei reportage dal terzo e quarto mondo: vecchi peruviani o tibetani, immagini in bianco e nero, qualcosa che c’era e non c’è più. Fossili.

La situazione appare quindi schizofrenica: abbiamo nostalgia di un “padre buono”, qualcuno che ci accolga per poi lasciarci al mondo, che ci consegni un messaggio di senso. Lo cerchiamo nell’antenato che lassù ha costruito la casa sulla roccia, che sappiamo dove trovare, ma poi, ridiscesi in pianura, ci manca qualcuno che ci accompagni nelle cose di ogni giorno. Dove sono i maestri che, come nelle botteghe artigiane, affiancano nelle difficoltà correnti? Dov’è la capacità di comunicare un mestiere ai novizi da parte di avvocati più grandi (ma non fuori gioco), di commercialisti con più esperienza (ma non in pensione), di insegnanti o presidi maturi (e ancora in ruolo), di parroci capaci di segnare la via ai cappellani, di datori di lavoro non ottusi? Non possiamo abbandonarci al loro sguardo, perché temiamo il tradimento. Perché loro non sono abituati a lasciar andare e noi non siamo abituati al tradimento e lo concepiamo come la fine di tutto.

Nel deserto, una via
Arturo Paoli è un esempio di “vecchio saggio”. La sua centenaria esperienza è in parte raccontata nella recente raccolta di scritti La pazienza del nulla. E’ qui che narra il suo decisivo incontro con il maestro dei novizi Milad, che lo introduce nella fraternità di Charles de Foucauld. Dice Paoli: «fu per me l’incontro con una persona assolutamente insolita (…). Sembrava veramente come l’uomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti (…) era l’uomo “del sì e del no”, “il resto viene dal maligno” (…). E quello che mi attirava di più era il suo rigore nei richiami all’essenziale e l’umorismo con cui commentava le goffaggini dei novizi, suscitando una incontenibile ilarità». Guardate: rigore e ironia, cioè insieme presenza ferma e presa di distanza. Ci sono, ma tu sei solo.

Se c’è qualcuno che può tradire – scomodando James Hillman – quello è il padre. Certo, anche la madre tradisce e può rifiutare la vita cui ha dato origine, ma nel farlo nega se stessa. Il padre è solo all’apparenza in una posizione più comoda. Luigi Zoja afferma che “tutti padri sono adottivi”, perché ciascun essere umano maschio adulto, portatore del seme della generazione, deve porsi radicalmente la questione di accettare come “sua” quella creatura così aliena e in totale simbiosi con la propria compagna. Ogni genitore maschio, in altri termini, è messo di fronte ad un individuo separato: il neonato, “sangue del suo sangue”, era in realtà corpo unico con la madre e poi, venuto alla luce, è corpo a sé, comunque e ancora estraneo. Il padre biologico è costretto ad una crisi, ad una decisione fondamentale: entrare o meno in relazione, accettare o meno il fatto che quella persona, che pure contiene il tuo patrimonio genetico, non è stata e non sarà mai una parte di te. Il padre può decidere se sopportare la contraddizione: una distanza che può essere colmata, ma che rimane tale; uno spazio vuoto che può essere misurato dalla lunghezza delle braccia in un abbraccio, ma che poi torna ad essere vuoto. Il padre deve scegliere di esserci e proprio perché deve sceglierlo conferma il suo poter non esserci, la sua assenza, che verrà vissuta come tradimento. Ma se è una persona che mi ama, cosa vuol dire che mi tradisce? Non sta agendo contro di me, ma mi sta decisamente mettendo sulla strada della piena autonomia. Lo strappo è necessario e se non avviene, il padre replica la simbiosi materna e il figlio rimane intrappolato. Ben venga allora un padre più empatico, capace in ultima analisi di riconoscere i bisogni dei figli, della compagna e propri, anche perché in fondo all’ossitocina non si comanda. Ma a questo nuovo padre è chiesto uno sforzo suppletivo: non perché divenga supplente della madre, ma perché nel porsi in relazione prepari il terreno di una feconda separazione.

[Scritto nell’autunno 2012; apparso su Madrugada, giugno 2015]

Platone, il guru e gli strilloni

newsboyLo sguardo è quello di sempre: candido e provocatorio. Franz mi osserva sospeso per qualche istante e poi, come un eroe disegnato su di un vaso greco, scocca la freccia, preciso: «Prof vedo che ultimamente non scrive niente di suo sul blog, ma riporta solo cose altrui…». Colpito. Il mio tallone d’Achille di questo momento, e cioè il tempo, che è sempre tempo altrui.

E allora.
Pensavo, l’altro giorno, leggendo le belle cifre di Internazionale sul suo festival ferrarese (QUI i dati sull’interesse a mezzo tweet), alla potenzialità di legame sociale contenuta in queste occasioni: con l’occasione di ascoltare il punto di vista sul mondo di una certa persona (o di vedere, se son foto), incontro altre persone accomunate dal medesimo interesse. Poi, chi lo sa, nasce un collegamento, un appuntamento altrove, uno scambio di libri, un’associazione, un partito, una casa editrice…

Con questi pensieri in testa, inciampo nella “Bustina di Minerva” di Eco, da cui riporto queste parole (Eco sta parlando dei vari Festival di cui l’Italia è fiorita):

la gente (almeno, molta gente) non è stupida come pensano i produttori di trash televisivo, e gli editori di riviste a colori sulle affettuose amicizie di attrici e calciatori. Vogliono qualcosa di serio da mettere sotto i denti. Voi mi colmate di grandi fratelli? Ebbene, vorrei un poco di Platone. Sembra un’esagerazione, ma le cifre sono cifre: moltissimi vogliono sentirsi coinvolgere in esperienze “nutritive”. Giocherà anche l’elemento turistico, ma non è il turismo delle famiglie che vanno a vedere il Mulino Bianco (se non ci credete c’è, e ci vanno). E ci vanno anche moltissimi giovani, in parte quelli cui l’università del triennio sta dando meno di un tempo. Un altro elemento è che questa gente vuole incontrare persone in carne e ossa. Certo, se andate su Internet potete trovare i testi di molti di coloro che parlano ai vari festival, e forse potete persino vederli mentre si parlano addosso in televisione, e se vi sono piaciuti o dispiaciuti potete dirlo a qualche fantasma di corrispondente elettronico via Twitter o Facebook. Ma evidentemente non basta: c’è un bisogno profondo di contatti faccia a faccia, di vicinanza fisica. C’è anche del divismo? In parte sì, posso vedere in persona l’autore che amo e magari chiedergli un autografo e persino un “selfie”; ma in fin dei conti questi fan vogliono vedere un filosofo o un poeta e non una valletta.

Dunque la gente si muove, perché non si accontenta. Nemmeno di accumulare pagine da leggere sui tablet, che poi magari non leggeremo mai.
Severgnini, quando lo incontrammo nella scuola in cui faccio l’insegnante, ci parlò del “Five million club”, cioè della cifra di italiani che – in genere e generale – si informano. E’ un numero dolente, specie per questa fase storica in cui i giornali cartacei debbono reinventarsi, immaginando nuove combinazioni con soluzioni WEB (e non solo quelli che vendono di meno, ma anche il già citato, ottimo, Internazionale, come QUI ci spiega il suo direttore Giovanni De Mauro).

Ecco: io ho un problema allergico, che mi fa venire delle bolle in testa. Accade quando, la mattina in bicicletta, sfreccio davanti ai giornalai (a proposito, perché abbonarmi all’altrettanto ottimo Pagina99 se, pur spendendo [molto] di meno, in qualche modo tolgo lavoro ai giornalai, nella fattispecie a Fabio che mi procura ogni cosa uscita negli ultimi 10 anni, e contribuisco al losco mercato della logistica?) – beh insomma, non proprio sfreccio, perché faccio a tempo a leggere quelle cose di carta che stanno in piedi fuori dalle edicole e che mi pare si chiamino strilloni, come i ragazzetti di inizio secolo scorso, i newsboys. E quelle cose scritte a caratteri cubitali e immaginate dai più fetenti giornalisti (?) mi fanno venire le bolle in testa. Perché sono fatte apposta per solleticare la nostra parte peggiore e correre ad acquistare i sempre peggiori quotidiani locali, per abbeverarsi del sangue versato, delle rapine-finite-male, del 14enne/imprenditore suicida, del povero anziano trovato cinque giorni dopo.

E allora, a chi sono dedicati gli strilloni? Riguardano il Five Million Club? Oppure parlano alla pancia di qualche altro million di persone, che immaginano – loro, gli intellettuali – passare dal frigorifero pieno di cose non biologiche alla TV per guardare Uominiedonne?

Ebbene, in questa foga di ascoltare un pezzetto di Platone, mi sono recato ad un paio di appuntamenti in zona. Il primo, organizzato da Macondo, con Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, a propositi di questo libro; il secondo, opera di Segnavie, per Nuccio Ordine e quest’altro libro. Due serate buttate via, che era davvero meglio stare a casa e rileggersi il Fedone.

Intendiamoci: si tratta di due persone illuminate e valide, che hanno davvero qualcosa da dire. Di Zoja ho amato “Il gesto di Ettore”, un libro decisivo per chiunque si appresti a diventare padre. Eppure quella sera, e non per sua volontà – ma nemmeno degli organizzatori, il vento del gurismo si è abbattuto su Bassano, spazzando via l’opportunità di capire il senso del libro e dell’occasione. Dopo un’attenta analisi delle possibilità e dei limiti del Sessantotto, Zoja ha imboccato una strada importante, ma del tutto secondaria in quel momento (questioni ecologiche e nemmeno troppo approfondite). Nel narrare le argomentazioni, condivisibili (anticipate tra gli altri in questo libro francese, un bel po’ di tempo fa), a proposito della necessità (camusiana, direi) di abbandonare le grandi Risposte, per cercare percorsi minimi di rinnovamento – le Utopie Minimaliste appunto, Zoja non ha fatto la cosa più ovvia: cedere il microfono alla platea e lasciare che venissero raccontate queste micro scelte rivoluzionarie. Che ci sono! Specie a Macondo.

Quanto a Ordine, la sala strapiena del Centro Papa Luciani, ha riprodotto il medesimo effetto-Guru. A sua discolpa devo dire che non sono rimasto oltre la prima ora – e non ho ascoltato lo cambio con Mieli. E però già mi bastava (e non solo a me… O forse era il richiamo di un bicchiere e una fumata in una sera di autunno?). La tesi è interessante (guardatevela), ma proprio per questo meritava argomentazioni serrate e non una serie ininterrotta di slogan contro cose magari vere – la mentalità mercantile che ci affoga – ma del tutto in linea, essendo appunto slogan, con tale mentalità mercantile. Pubblicità progresso.

Dunque, Platone. Se dobbiamo fermarci alle risposte, a tesi già confezionate, allora tanto vale leggere gli strilloni e i quotidiani di Padova. Anche se venissero da illuminate menti, da uomini e donne di ferrea morale e di spaziosa cultura, si tratta pur sempre di risposte. E non di domande. Il punto è che, ascoltata una proposta di ragionamento, dovremmo sederci in cerchio e poi parlarne, discuterne e litigarne perfino. Argomentare pro e contro fino a che non siamo stufi, ma argomentare e non affermare e poi ritirare la mano. Ma sciogliere insieme il nodo del pensiero, ascoltando Socrate e mettendolo alla prova, per poi accoglierne la conclusione, magari, o andarcene insoddisfatti a guardare la mariadefilippi.

Polemos è padre di tutte le cose (Eraclito)

Mons. Sudar sarà ospite di Macondo il 12 marzo per una testimonianza profetica: ha vissuto la tragedia dei Balcani negli anni novanta e viene per parlare di relazioni che salvano e di relazioni che tradiscono.
macondo12marzo
Qui sotto, un’intervista di Giovanni Panozzo a mons. Pero Sudar, a Giuseppe Stoppiglia presidente di Macondo e a Cinzia Tarletti, cooperante internazionale in Bosnia

But don’t try to talk to me

But don’t try to talk to me
I won’t listen to your lies
You’re just an object in my eyes
You’re just an object in my eyes
(The Cure,  Object, 1978)

Va beh: nel ’78 avevo cinque anni e ascoltavo la musica di mio papà, Bach. Ma alle scuole superiori ho avuto una fase, se così possiamo dire, dark. Adesso forse si definirebbe goth che sta per “gotico”: prevalenza del nero, aria depressa, bassa motivazione nei confronti di qualunque cosa e di chiunque, maniche lunghe a coprire le mani. Col popolo dark non potevo essere però confuso: troppo ansioso per permettermi il nichilismo, troppo in carne per assumere l’aria giusta, quella dell’emaciato esistenzialista senza-Sartre.
Mi ha colpito il fatto che più di uno dei miei studenti e delle mie studentesse di quinta si sia posto il problema di che cosa votare alle passate elezioni amministrative, o al referendum. Mi ha colpito perché i miei diciotto anni erano mescolati a quelle fosche atmosfere adolescenziali e mi coglievano del tutto sprovveduto sul piano politico. Mi ha colpito perché talvolta anch’io rischio di cadere nella vulgata secondo cui “i giovani non si interessano di nulla, men che meno di politica”. Giravano per la classe fogli stampati da internet, con tutti i programmi dei candidati. Qualcuno se li è letti per filo e per segno, prima di andare al seggio.
La sorpresa è proseguita quando, parlandone, è emerso che questa frangia consapevole non disdegna il voto disgiunto: centrosinistra per le europee, centrodestra per le amministrative. Una sorta di attenta ricerca della persona di cui potersi fidare, al di là del colore, dello schieramento, delle ideologie. Qualcuno intuisce che sia questa la strada della morte del partitismo.

Inexperience sweet delirious
Supernatural superserious
wow!
(R.E.M., Supenatural Superserious, 2008)

Partitismo o personalismo? Gli analisti osservano la scena italiana e registrano quotidianamente sui giornali l’apporto dei cosiddetti “vent’anni di berlusconismo”. Il mio pensiero corre subito alla scena europea, o addirittura mondiale, per cercare di dare senso al quadro. Perché mi pare evidente che in Italia ci siamo come ammalati, abbiamo succhiato un morbo funesto, che ci costringe subito a schierarci pro o contro questa persona. E così l’opposizione, qualsiasi colore sbiadito abbia, non pare costruire parole e pensieri alternativi, ma fa da sponda all’innominabile. Quando parlo di “alternativi”  non intendo quindi opposti e contrari a lui, ma capaci di stare su da soli, e per tanto decisamente nuovi. E guardando oltre – già Blair, Zapatero, Obama, in parte Merkel – ho l’impressione che come in ogni tempo di crisi, emergano figure più o meno forti: in questo senso abbiamo anticipato i tempi, come già successe alla fine del primo conflitto mondiale.
L’analogia con quell’altro Ventennio viene del resto invocata da più parti, alla ricerca delle trappole di un nuovo totalitarismo. A me pare che la più profonda somiglianza stia nell’assuefazione con cui il cosiddetto popolo italiano accetta gli attori della scena politica.
C’è un certo interesse, nelle classi quinte, per il periodo fascista e osservo come l’attenzione si faccia più acuta quando cerco di spiegare come in determinate fasi storiche il Parlamento subisca una sorta di svuotamento di potere. Il fatto che anche oggi si riconosca senza troppi drammi che gli onorevoli sono troppi e che il loro numero vada tagliato non è colto tuttavia come un segno cupo: in realtà – come allora – prevale la nausea per la sfera pubblica e quindi ben venga uno sfoltimento di teste e di stipendi. Qualunquismo a go-go?
Si, se pensiamo al fatto che l’unico percorso che pare più efficace per mettere alle strette questo governo è quello di indagare le frequentazioni erotiche del premier. Senza però pensare che esse destano meraviglia e invidia in molti dei maschi italiani, gli stessi che cliccano sui sederi nudi nelle pagine web dei medesimi giornali che per altro invocano lo scandalo. Come sempre c’è qualcosa che tira di più di un carro di buoi.
Ma qui non sta l’alternativa, e il fichista di Arcore non cadrà per questo. Ancora analogie, perché il comportamento è il medesimo di quell’altro “premier”, come ricorda Meneghello in Fiori italiani, facendo riferimento al direttore del quotidiano per cui giovanissimo scriveva.
A Mussolini, che chiamava il Professore, riconosceva una dote suprema, di essere stato «un grande regista»: ma ora gli era capitata la sventura di cadere in mano a una donna che gli succhiava le energie, letteralmente, con la bocca; diceva che questa donna chiamava il Duce Lulù.
Lulù o Papi, non c’è molta differenza. Ma Mussolini non cadde per le sue abitudini sessuali.

Cogliere segni

Più di una volta mi è capitato che uno studente o una studentessa mi abbia detto, facendomi arrossire: si candidi, prof, io la voto! Beata ingenuità? Eppure è proprio questo il fatto: cercare persone di cui fidarsi.
Nel paradigma democratico nel quale siamo inseriti è necessario proprio fare attenzione ai meccanismo di creazione della fiducia, e su quali basi intellettuali ed emotive la fiducia dei singoli si fonda. Mi pare che il percorso sia lunghissimo, e fondamentalmente apolitico: non è l’orizzonte pubblico quello su cui incidere, ma la frequentazione di uomini e donne a tu per tu. Il Partito Democratico deve ricominciare dai quartieri, se davvero ha qualcosa da far dire a qualcuno.
E per far questo deve rinunciare alla caratteristica spocchia dei militanti cattolici e di sinistra, quella per cui c’è qualcuno che possiede la verità e si piega per concederla al popolo bue. Ricordo un incontro in una sperduta parrocchietta fuori Padova, un consiglio pastorale in cerca di formazione, dodici-quindici persone tra i cinquanta e i settanta. Si era allora candidato un noto direttore di quotidiano, di larghissime forme e di strettissime vedute, sulla base della “difesa della vita”. Ebbene, quale terreno migliore di un gruppo di parrocchiani? Eppure quelle stesse pasionarie di Cristo mi fecero caldamente presente che non si sarebbero lasciate fregare!
Altroché popolo bue. Si tratta di far emergere con pazienza quello che già c’è: un misto di buon senso che nasce dallo svegliarsi alle cinque per andare al lavoro, di capacità di cogliere il valore delle persone, di quella forza che ha la meglio quando tacitiamo per un attimo le ansie indotte e ascoltiamo le nostre paure. Davvero, c’è. E’ quella resistenza fisiologica che non ama gli “uomini forti”.
IL PRESIDENTE ha una caratteristica che balza agli occhi di chiunque lo avvicini: mentre gioca a bocce o beve birra, durante la notte o quando copula; persino nelle sedute parlamentari che presiede da quando si è verificato il gran cambiamento. Più di un movimento delle sue mani lascia trasparire questa sua caratteristica, inspiegabile a tutti, e che tuttavia appare così evidente da non sfuggire nemmeno ai profani. Si sostiene che la sua origine vada ricercata in un processo che non si può, né si vuole, più arrestare. Si richiamano alla memoria momenti in cui si sono percepiti fenomeni che potrebbero averla determinata. In realtà tutti sanno di cosa si tratti. Nel timore di poter essere chiamati a risponderne, evitano di parlarne o discuterne in pubblico. Anzi, confondono accuratamente le tracce. Ma non la si trova solamente nella coda dell’occhio del presidente. C’è anche in altri punti del suo corpo, opulento e inquieto. Nei suoi stessi sogni. In chiunque la riconosca produce una tensione che col tempo si tramuta in contagio. Sino ad esserne invasi. Non è nient’altro che la brutalità“. (Thomas Bernhard, Eventi, 1969)

[questo è un mio Pianoterra del 2009 – m’è parso attuale]