La scuola che cambia? il mio punto di vista

Sguardo d’insieme – appunti (in aggiornamento continuo)

si scontrano modelli (o dispositivi) di cura diversi
(Due? O forse più? Oppure una mescolanza?)
in tutti i casi, essendo cura e controllo complementari, il soggetto della cura (o oggetto-di, il discente) viene creato/costruito (non esiste di per sé, se non come dato anagrafico) e nell’operazione prendono forma anche i soggetti curanti

>>> nel primo, fondato, sul piano ideale, su dialogo e ricerca, si vorrebbe mettere in condizione ragazze e ragazzi di sviluppare le proprie capacità/doti per interagire con e perpetuare il bagaglio delle conoscenze [occidentali per lo più]
Tale modello è stato via via schiacciato sulla comunicazione di contenuti (dati) che vengono verificati in termini di quantità di nozioni (la valutazione sommativa è una quantità e va commisurata con un’altra quantità) – qui parla la mia parva esperienza liceale

Chi resiste alla corruzione del modello cerca di insistere anche sui processi piuttosto che sui meri prodotti – il che non significa rinunciare alle conoscenze, né alla valutazione, ma ordinarle verso una direzione: collaborare per potersi orientare in un mondo sempre più complesso. Questo obiettivo prevede in ogni caso una asimmetria educativa.
Anche parte del discorso ministeriale sulle competenze era (è?) leggibile come teso a questo obiettivo

La corruzione nasce dalla meccanizzazione delle procedure (e restrizione degli spazi di discussione), in contesti di classe affollati, nella moltiplicazione delle pratiche burocratiche, in una progressiva svalutazione del docente come intellettuale, nella sua tendenza a sviluppare pratiche affidabili (efficienti) da ripetere quasi identiche, di contro a famiglie sempre più impegnate a garantire molto/tutto per figlie e figli (ipercura) – vale per il ceto medio-alto in primis (liceo)

>>> Nel secondo modello le/gli alunn* sono esplicitamente ridotti a oggetto dalla “logica della ipercura” emergente a livello sociale
su questo, si può provare a integrare alcune direzioni di ricerca, come quella di Laura Pigozzi; la logica mercantile della prestazione, della costruzione del “soggetto smart”/hungry and foolish/il superuomo realizzato dalla réclame/il ’68 realizzato da B*rlusconi o da m*diaset; come anche un certo abuso interessato del linguaggio dei diritti sociali in quanto riferibili a minoranze di persone guardate solo come possibili consumatori
per cui le linee ministeriali devono rispecchiare le esigenze della famiglia (in quanto target di mercato o dispositivo ideologico, o entrambi) e del mercato tout court e insistono sulla subordinazione della scuola (del lavoro docente) ad esse. Una scuola “a servizio” dunque.
[230904] In questo senso la critica di BIESTA alla learnification può venire intesa come una “controreazione” (dove reazione non deve essere letta nel senso di “reazionario”): se la pedagogia non direttiva (mutuata per es. da Carl R. Rogers) era un antidoto alla scuola di regime otto/novecentesca, depositaria e istituzione-centrica (come l’antipsichiatria lo era per l’Asylum), Biesta decentra l’insegnamento dall’apprendimento, o vero dalla pretesa di predisporre, anticipare e misurare obiettivi didattici “mettendo al centro lo studente” – operazione che sembra scambiare il/la discente con un/a cliente (non nel senso rogersiano, ma mercantile). Obiettivo dell’insegnamento, secondo Biesta, sulla scorta di Levinas, è predisporre l’occasione per cui il/la discente possa farsi soggetto (per una lettura del lavoro di B. si veda QUI).

Se il primo modello, sul piano del principio, si è emancipato (ha cercato di emanciparsi) dalla scuola ottocentesca/primo novecentesca – prodotto dello Stato nazionale nella società industriale e anch’essa “a servizio” di una qualche nazionalizzazione della massa (liberale – fascista – repubblicana; impiegando a tal fine ricerca e nozioni, in ottica depositaria) – lo ha fatto sulla base dell’uguaglianza sostanziale in seno alla Costituzione: dare a tutte e tutti gli strumenti minimi per progettare (o meglio ancora decostruire) il proprio iter di istruzione, come correlato però ad un reale incontro con il mondo (altro da sé), non farsi sfruttare al lavoro, essere cittadini attivi e consapevoli in contesti di democrazia critica (società aperta).

Tale direzione è stata messa in discussione dalla netta subordinazione delle azioni di governo alle logiche populiste e/o di mercato: il taglio/la ripartizione delle spese (accade anche nella Sanità) non avviene solo per razionalizzare un sistema non più sostenibile, ma per produrre semplicemente più laureati (riforma del tre più due), meglio STEM, o in genere per preparare al “mondo del lavoro” (PCTO assunto in modo acritico).
Di qui, la seconda servitù della scuola, sempre più plateale – che nel caso della Scuola 4.0 passa attraverso
1) l’accettazione ingenua del digitale come linguaggio definitivo e “del progresso”
2) l’apertura di una enorme occasione di profitto per un determinato settore produttivo (vedi criteri dei progetti – 60% minimo per devices – o innalzamento delle soglie di spesa senza bando – 140.000 e.).

Senza dubbio la figura dei Tutor può essere annoverata nell’alveo della sollecitudine ipercurante, cioè in altri termini è un ulteriore dispositivo con il quale il Ministero dimostra di “far qualcosa” (democrazia recitativa) e risponde a presunte o reali esigenze delle famiglie. Lo fa, sul piano politico (non tecnico), con un linguaggio più ignorante che semplicemente ideologico.
E tuttavia gran parte dei compiti del Tutor sono già in essere, nella scuola, in termini di sostanziale volontariato (che ben si innesta nella retorica dell’insegnante/eroe e dell’insegnamento/vocazione) oppure con professionalità riconosciute (counselling di orientamento, con ore di formazione e pratica a due o tre zeri – ben al di là dunque delle 20 ore previste attualmente dal MIM, più che altro in termini di esperienze d’ascolto) che altrimenti non avrebbero altro spazio qualora l’istituto adotti la direttiva.

Che fare – spunti

Sul piano pratico, si tratta di
– diffondere le note critiche tra colleghe e colleghi, creando occasioni di dibattito

– monitorare la realizzazione del fantomatico “ambiente di apprendimento” vigilando su lavori e forniture, posto l’innalzamento delle soglie dell’affidamento diretto (cioè senza consultazione di più preventivi) su questo QUI

Sul piano del contrasto al paradigma aziendalista/digitalista (si può dire?):
– monitorare il fatto che il Codice Amministrativo Digitale imponga che le PA acquisiscano unicamente software libero a meno di non fornire una dettagliata valutazione comparativa che dimostri l’inesistenza di un software libero adatto a svolgere un certo compito oppure la netta superiorità di quello proprietario, al punto da rendere impossibile la realizzazione del progetto con quello libero? (cito dal documento del CUB di Torino e cfr anche QUI )

– monitorare l’obbligo di dotarsi di DPIA e TIA (Data Processing Impact Assessment e Transfer Impact Assessment) quando si acquisiscono servizi come Google Suite for Education? (con riferimento sempre dal CUB)

– valutare seriamente il passaggio a Moodle per tali servizi (che mi dicono sia in smantellamento in Provincia di Pd)

– “ridurre il danno” del PCTO, veicolando anche esperienze radicali formative relative al diritto del lavoro, alla precarizzazione incrementale, all’analisi dell’attuale mercato lavorativo etc

– indagare la possibilità di autoprodurre manuali scolastici in open-source

– verificare la possibilità di entrare nell'”offerta formativa” per i docenti, costituendo un’associazione o usando associazioni esistenti, al fine di rendere critico il processo

In generale, vale per la questione Tutor, per il PCTO, per le carriere alias o il congedo mestruale scolastico o qualsiasi altra iniziativa, dall’alto o dal basso: o ne facciamo un’occasione per creare dibattiti pubblici (la cui organizzazione e moderazione richiede anche persone formate, per esempio lavorando sui conflitti) oppure cadremo nella trappola della retorica di questo (e non solo) governo, cioè quella di creare divisioni. Divisivo è chi divisivo fa.

[230728] Adottare obiettivi dialettici come quelli elencati concede la sensazione di poter fare qualcosa di decisivo. Come quando, anni fa (anche ora?), i sindaci si opponevano all’arrivo di poche persone migranti ritenendo di risolvere così il problema della migrazione e invece creando solo complicazioni. Su questo, Bauman disse qualcosa che può interessare il nostro caso:

A differenza delle paure di vecchio tipo, quelle contemporanee tendono a essere imprecise, mobili, elusive, modificabili, difficili da identificare e collocare con esattezza. Abbiamo paura senza sapere da dove viene la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che la provocano. Possiamo affermare che i nostri timori vagano in cerca delle loro cause che noi vorremmo disperatamente trovare per poter essere in grado di fare qualcosa a riguardo o per chiedere che si faccia qualcosa. Le radici più profonde della paura contemporanea – la graduale eppure continua perdita della sicurezza esistenziale e la fragilità della posizione sociale – possono essere affrontate solo con difficoltà, poiché, in un mondo che si globalizza velocemente, gli agenti dell’azione politica non hanno sufficiente potere per sradicarle. E per questo le paure tendono a trasferirsi dalle cause principali su obiettivi accidentali, solo lontanamente collegati alle ragioni dell’ansia, oppure del tutto scollegati da esse e, quindi, ad essere scaricate su obiettivi vicini, visibili, a portata di mano, che sembrino facili da gestire. Queste battaglie sostitutive non faranno scomparire la nostra ansia perché le radici vere della paura resteranno intatte, in compenso otteniamo una certa consolazione dalla consapevolezza di non essere rimasti con le mani in mano, di aver fatto qualcosa e di esserci fatti vedere mentre lo facevamo.
QUI l’intervista.

Senza cadere nel fatalismo, o in qualche pseudohegelismo d’accatto, ritengo che le azioni del PNRR non siano arginabili. Il cambiamento in atto parte da lontano: la cosiddetta “aziendalizzazione” della scuola non è altro che la prosecuzione di un modello di istituzione che è nato con l’allargamento della base produttiva e con il rafforzamento degli Stati-nazione (su questo si riveda qualche video di Ken Robinson). Cioè è la scuola che tutti noi abbiamo fatto e che, nonostante il profitto, il rendimento, i debiti e i crediti, ha fatto di molti di noi persone capaci di critica. Ed è accaduto perché chi ci ha formato si è posto nell’ottica della riduzione del danno: comunicare idee e linguaggi, nonostante il sistema; permettere a ragazze e ragazzi di pensarsi diversi da ciò che il sistema prevede; decostruire più che riempire; collaborare ad una comprensione del mondo (anche usando modalità direttive) più che usare le nozioni come moneta di scambio per i voti.
Penso che una strada praticabile sia quella di cambiare a modo nostro, cioè usando il sistema senza obbedirgli mai fino in fondo, con una certa dose di dissimulazione.

ELEMENTI PER IL DIBATTITO

Qui, articolo di Mario Pomini per Roars