E saranno tanto più duri quanto più sono giovani

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione, ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.
Platone, Apologia di Socrate, trad. it. di Maria Chiara Pievatolo

Leggere il discorso finale di Socrate, per intero, in classe, è una pratica che porto avanti sin quasi dal mio primo anno di insegnamento. Certo, una pratica anomala dal punto di vista didattico: non è in senso stretto un dialogo, genere letterario scelto da Platone e essenziale alla comprensione del suo pensiero; racconta solo alcuni particolari della vita di Socrate, importantissimi per certi versi, ma relativi per lo più al periodo finale della sua esperienza; necessiterebbe della ripresa del contesto politico dell’Atene di allora, cosa che non faccio mai; non riguarda direttamente alcune tematiche che sono molto appetibili per una classe di sedicenni, come l’amore (Il Simposio) o la speranza (il Fedone); occupa molte ore di lezione, ritardando lo svolgimento dell’unico vero idolo ancora in vita nella scuola, il programma.


Eppure ascoltare Socrate che parla, e poi dialogare con lui attraverso l’insegnante, diviene decisivo. Non sempre nello stesso modo: talvolta magicamente d’incanto, altre a scoppio ritardato. Accade quello che, secondo lo storico della filosofia Pierre Hadot, è il cuore di tutto il pensiero antico: «la vera questione che è in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla». Ascoltare dunque l’esistenza di questo antico maestro, in una narrazione imbevuta di ironia e di passione, interpellarla chiedendo chiarimenti, commentarla senza remore, porta i ragazzi, ognuno con il proprio tempo, a fare i conti con se stesso. Perché la fase evolutiva in cui il cervello svolta decisamente, l’adolescenza, «è anche il momento in cui fa la sua comparsa la propensione umana all’autoanalisi», come suggerisce David Bainbridge, il quale sostiene che la complessità dell’Homo sapiens dipenda essenzialmente dall’apparizione dell’adolescenza stessa.
E anche perché non c’è altra età in cui »la Signora vestita di nulla/e che non ha forma», come Gozzano chiama la morte, non venga presa più seriamente come in adolescenza. E Socrate narra la sua vita guardando la fine in faccia, “con gli occhi asciutti/nella notte triste” degli ateniesi.

Poi l’anno scolastico prosegue, costringendo a mirabolanti slalom tra le verifiche e le pagine dei manuali. Ma nel frattempo qualcosa si è attivato, e scava in modo carsico. Per dar voce a questo lavorio del pensiero, ho lanciato la proposta di portare avanti il dialogo con Socrate nelle giornate estive: il vaticinio socratico (quello riportato nelle prime righe di questa pagina) si sta avverando? Ho proposto la scrittura di una riflessione ai membri delle classi a me affidate: chiunque avrebbe potuto intervenire, con la penna o la macchina fotografica. Il risultato sono i pezzi e le immagini che trovate di seguito: non ho rifiutato nulla (non l’avrei comunque fatto) e l’intervento redazionale si è rivelato minimo. Ciascuna delle ragazze, ciascuno dei ragazzi ha lavorato in autonomia, senza il confronto con i pari, né con l’assillo di una valutazione. Qualcuno mi ha solo chiesto una copia della rivista. A fianco, compaiono alcuni scritti “adulti”: si tratta di persone che, di persona o attraverso i loro saggi, ho constatato essere decisamente innamorate dei giovani, della politica, delle domande, della vita degna di essere vissuta.

La raccolta dei testi dei ragazzi esce con il numero di Marzo di Madrugada.

La morte di un ragazzo, la morte di Socrate


Stamattina, come ogni mattina a scuola, il pensiero era: andare avanti col dannato programma. Poi ho ascoltato, nella Rassegna di RadioTre, la lettura di Saviano, su Repubblica, a proposito della morte del ragazzo di Lavagna e della questione della droga. Avrei avuto di fronte una classe di coetanei di quel giovane, e, lo ammetto, avrei voluto qualche spiegazione o rassicurazione, proprio da loro.

E già qui, qualcuno potrebbe obiettare che un docente, uomo di quasi quarantacinque anni, non dovrebbe aver bisogno di rassicurazioni dai suoi alunni. Che, se siamo arrivati a tutto questo, è proprio per questa voragine assenza di adulti, figure forti capaci di spiegare indirizzare correggere. Ammaestrare.

Ma io non lo so. Ho apprezzato Saviano, quando ha sospeso il giudizio sulla famiglia, sulle relazioni, sulla vita intima di questa povera persona e si è limitato, per così dire, a parlare di argomenti che conosce bene, quali le dinamiche criminali sottese al consumo di droghe. Allo stesso modo, io non so da dove partire, per capire. Perché farlo, poi? Per evitare altre morti? Perché i miei figli saranno sedicenni in Italia tra non troppo tempo?

Ho letto alla classe la lunga riflessione di Saviano. A metà si è fatto grande silenzio, non so bene in quale punto, ma ho la sensazione che si sia trattato di un riferimento al dolore. O alla morte. Se c’è un argomento tanto lontano e tanto vicino alla mente e al cuore dei ragazzi che incontro, è proprio la morte. La neuroscienza ce lo ha spiegato (vedi “Il cervello adolescente” o anche “Adolescenti. Una storia naturale”), ma Socrate – Platone – ce lo ha rivelato più di duemila anni fa.

Potere uccidere me, dice nell’Apologia, ma dopo di me verranno altri a chiedervi conto di come conducete la vostra vita. E saranno tanto più rognosi quanto più sono giovani. Mi chiedevo perché Socrate facesse riferimento alla età dei suoi imitatori, forse per un pensiero a Platone, forse perché erano sempre i giovani a stargli intorno. Poi ho pensato che solo i giovani possono tenere a bada la morte allo stesso modo di Socrate. Mi son chiesto, e lo chiedo ai miei alunni, perché moltissimi di loro, e anche io alla loro età, abbiano rinunciato a mettere in discussione gli adulti. Non contestazione, si badi, non occupazioni vere o finte, ma domande incalzanti e continue che ci facciano vergognare.

Al termine della lettura, la classe è rimasta in silenzio. Poi come sempre qualcuno ha iniziato a dire la propria, parlando non di teorie, ma di amici che fumano, si fanno, vendono, finiscono al Sert o in comunità, dove imparano a fumare, farsi, vendere ancor meglio. Pensavo al lavoro durissimo di Granello di Senape in carcere a Padova, alla lucidità di Ornella Favero nel testimoniare il fallimento di un sistema che non riesce ad essere educativo. Né dentro, né fuori. Non educa perché pretende di ammestrare, di raddrizzare con la minaccia delle punizioni. Lo fa col carcere, lo fa per la droga, lo fa per lo studio a scuola, dove la motivazione a stare sul libro è evitare il due.

Qualcuno in classe ha detto che se i genitori non danno (o non sanno di non sapere) un limite, poi da adolescenti non si saprà gestire desideri e dipendenze. Qualcuno ha detto che non si può non sapere cosa implica spacciare. Qualcuno, che il gesto è stato egoista, ma vi era tenerezza in queste parole. Tutti convenivano nella possibilità di pensarsi, di essere riconosciuti, responsabili, in modi diversi, con parole anche opposte. Non abbiamo potuto proseguire, perché alla fine, per me come per loro, diventa indispensabile la dinamica burocratica della scuola, obbidirvi e scantarla. Poi, se mai, la vita verrà.

Usare lo stesso linguaggio dei terroristi


La risposta al gesto violento e violentissimo – Parigi o Nigeria o- si situa sempre su di un piano simbolico. L’inno francese rimanda all’unità nazionale (tanto quanto un fascio repubblicano scolpito, tra le mani di una Marianne, essa stessa simbolo) e ai valori fondativi veicolati dalla Rivoluzione del 1789, più o meno depurati degli eccessi; il minuto di silenzio – o come si dice “di raccoglimento” – rimanda alla sospensione della vita nella sua fluidità feconda, imperterrita – almeno secondo le intenzioni del suo ideatore; la foto del profilo del social sostituita da una bandiera, o da un disegno: sono segnali di partecipazione, emotiva e intellettuale.
Istantanei, questi simboli rimangono nell’aria qualche istante, per poi venir sommersi dal calcio di inizio, dal riprendere del fare quotidiano, dallo scorrere della pagina Web. Ci appare sufficiente, questo o quel gesto. Come a dire: anch’io ci sto, anch’io sono acceso su questo dolore. E invero, spessissimo è una partecipazione sincera, per quanto possibile.

Che cosa però raccogliamo in questi raccoglimenti? Che cosa rimane, poi?

La “strategia del terrore” – in senso stretto e non come veniva intesa nei nostri Anni di Piombo – è più sottile, anche se si muove sullo stesso piano delle sue risposte, che almeno in questo sono plausibili. Sin dalla sua origine, il terrorismo rivoluzionario della Parigi oggi straziata, essa adotta un meccanismo disarmante, nella sua semplicità. Disarma cioè con le armi. Individua una persona di cui è noto il nome, oppure un gruppo di sconosciuti, e usa su di loro la Parola Definitiva, la morte. Il piano del simbolo, astratto per i distratti, si fa carne e sangue. Elimino te in quanto tu rimandi alla tua ideologia, alla tua appartenenza, alla tua religione, al sistema che ti ha generato e che sto combattendo.

Tu non sei padre, fratello, sorella o madre; non sei donna o uomo con emozioni, pulsazioni, bisogni, passato e desideri. Tu sei una vita da troncare. Perché qui sta il simbolo per eccellenza, l’interruzione del respiro, la mortalità del cuore intermittente.

Valse per Roberspierre stesso, suo ideologo. Valse per Umberto I, in quel caldo luglio che inaugurava il secolo breve; valse per Moro Aldo (come magistralmente rende Lo Cascio diretto da Bellocchio). Vale per i morti nella discoteca, per i bambini delle scuole nigeriane. Per gli intrappolati delle Torri Gemelle.
Non c’è alcuna astrazione, in queste morti. La morte – la Signora vestita di nulla di Gozzano – non è proprio qualcosa di etereo, impalpabile, pensato o pensabile, per quanto (o per questo) il ragionare occidentale (non solo) ci vada dietro da millenni.
La morte è il sangue sparso. Il corpo smembrato.

Il pontefice Francesco sta avviando un processo drastico, ben più radicale della riforma delle luride finanze vaticane. Sta rimettendo al centro quello che è stato marginale, almeno in alcuni dei suoi predecessori (ma qui ci sarebbe da approfondire): si sta focalizzando sull’ortoprassi, invece che sulla ortodossia. Mi pare che il suo incedere sia cauto, ma non per questo non riconoscibile: si tratta di ricordare che quel che si fa ha più forza di quel che si pensa. Che la Verità, se è tale, accade – anche senza essere pensata o persino riconosciuta intellettualmente come tale (“Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare?” Mt. 25).

E questa mi pare una buona risposta ai gruppi che hanno fatto dell’ortoprassi la cifra del proprio integralismo. Perché il pensiero estremista di matrice islamica – interpretazioni radicali della lettera coranica possibili nell’assenza più totale non solo di una unica gerarchia religiosa, ma persino di un coordinamento tra le interpretazioni teologiche delle sure – traduce in azioni sanguinosissime le proprie teorie manichee, o meglio ancora ritiene che la propria verità coincida con la morte del diverso. Agiscono solo su di un piano simbolico totalizzante. La Morte è Simbolo perché annulla le parole.

Se è vero che come occidentali abbiamo scelto la mediazione del pensiero e della ricerca di significato (ma Nietzsche aveva scoccato l’avvertimento), e questo costituisce un prezioso filtro tra quel che si ritiene vero e quel si ha da fare, è altrettanto vero che, immersi nella informazione globale, noi occidentali rischiamo oggi di rimanere solo sul piano dei significati pensabili. Astratti. Aria fritta, diceva Lombardi Vallauri, a noi imbranatissimi fucini, decenni fa.

E allora il linguaggio più efficace per rispondere in maniera decisiva all’alfabeto terrorista mi pare quello di affidarci anche noi all’ortoprassi. Non che non ci abbiano pensato anche quelli che stanno armando i cacciabombardieri… Aprendo così l’infinita questione del quando porre un limite alla tolleranza – di questo si discuterà, rischiando ancora e ancora di rifriggere l’aria, nei prossimi mesi. Il punto è, mi pare, che non si potrà trattare di una guerra onesta, di una guerra ultima. Troppe le speculazioni (speculare è anche pensare, rifarsi all’ortodossia quindi) che temo entreranno in gioco, se non sono già alla base dell’esistenza del cosiddetto Stato Islamico.

Il richiamo dell’ortoprassi è radicato nel nostro essere uomini, e quindi la guerra ci appare lecita, invocabile, necessaria. Azione scaccia azione. Morte scaccia morte?

Possiamo essere certi che l’occidente, che ha prodotto donne e uomini capaci di riconoscere la folle ortodossia jihadista e farsene carico (parlo dei giovani che son partiti dalla Francia o dall’Inghilterra), sia in grado di dare una risposta definitiva con un’azione militare? Su quale base? O vero, supponendo anche si tratti di una guerra trasparente, come difendere la presunzione che sia anche l’ultima?

Se fosse giusta, non ne potremmo parlare nei cosiddetti contenitori televisivi pomeridiani, non ne avremmo parole; se fosse trasparente e necessaria, le nostre italianissime e validissime imprese costruttrici di armi metterebbero a gratis a disposizione il proprio made in Italy, perché, data una guerra giusta e necessaria, gli operai lavorerebbero senza pretendere stipendio, per più di qualche mese, perché poi la gente accorrerebbe a contribuire ai loro e degli imprenditori bisogni primari, di propria sponte. Se la guerra è giusta, avrà un meraviglioso fronte interno.

Non so se ci sia stata una guerra di questo tipo. A leggere Meneghello, Fenoglio: sì. Qualcosa di liberatorio, di urgentissimo.
Ma adesso? Mi pare che la migliore delle ipotesi sarà quella di spostare i cattivi, dopo Al Qaeda, Al Nusra; dopo Al Nusra, l’Isis; dopo l’Isis, chi sa. E intanto noi a impegnarci sulla nostra sicurezza, sui nostri diritti, sul nostro stile di vita. Un fortino sicuro, meglio se anche elegante.
L’Isis appare la critica più efficace alla nostra cultura liberale. Appare a molti l’unica risposta vera, qualcosa di realmente rivoluzionario: l’uso strategico della tecnologia in ogni sua forma contro il sistema che l’ha inventata. Porre fine al Male col male stesso.
La guerra rilancerebbe la medesima logica, sposterebbe il problema di qualche anno, di una generazione.

A me pare che non resti altro che praticare un’altra ortoprassi radicale, si chiami essa virtù socratica, o Non violenza, o Evangelo, o socialdemocrazia, o Perfetta Letizia di Francesco d’Assisi. Praticare radicalmente una proposta radicale, che esiste già nella nostra storia. Nulla a che fare con i simboli – bandiere della pace o presepi a scuola – solo microazioni quotidiane, di comprensione, inclusione, ascolto. Pratiche di misericordia, di eguaglianza sostanziale.

I cinici diranno: sì, bravi bambini, così morirete felici.
Non sarebbe cosa da poco.

Apologia del tradimento

Declinazioni in ino
Sguardo bovino. E’ quello tipico del padre al parcogiochi, mentre spinge l’altalena o attende che la creatura sguazzi nella sabbia. Lo so perché lo vedo, e lo vedo perché mi ci specchio. Ebbene, anch’io faccio parte della nobile schiera di maschi adulti che accompagnano la prole al parco, e non solo il sabato o la domenica. Non è tutto: preparo la pappina, cambio pannolini, pulisco sederini, infilo il pigiamino… Le riviste patinate – quelle che addolciscono i quotidiani nazionali nella seconda parte della settimana – ci dicono che i padri sono cambiati, anzi che si tratta di una «rivoluzione antropologica» (“La Repubblica-D”, 10 settembre 2012): «fino alla fine del Novecento sopravviveva la vecchia figura del padre fisicamente e emotivamente distante dal bambino nel suo primo anno di vita, frutto di una società maschilista e patriarcale che considerava la cura, il care, un’esclusiva della donna», afferma il neonatologo Volta, che nel suo sito (vocidibimbi.it) confessa che se non fosse se stesso, vorrebbe essere sua moglie Monica.

Ecco, io non so se vorrei essere mia moglie e, per quanto colga l’affetto e l’ironia dell’espressione, non lo desidero per non soggiacere all’epiteto, oltraggioso per la grammatica e insensato per la pedagogia, di “mammo”. La fretta di catalogare, che talvolta sembra unico criterio adottato da chi compone gli articoli di giornale, ha creato questo vocabolo, che genera confusione invece di aprire nuovi spazi semantici. Il dottor Volta stesso ne è pienamente consapevole, perché, incalzato dal giornalista, sottolinea che «il padre non deve scimmiottare la madre. Deve trovare un modo suo di prendersi cura del bambino». Insomma, si tratta di uno stile di cura del figlio che, ispirato alla madre, viene però interpretato in modo pienamente e totalmente maschile. Ma perché allora schiacciare in genere la questione sulla mamma-con-la-o? Che ci sia un cambiamento nell’aria, è testimoniato dal moltiplicarsi dei testi, scientifici o meno, sulla figura paterna, sulla sua crisi, sulla trasformazione di una società – come direbbero femministe d’altri tempi – fallocentrica, in qualcosa di diverso, a prima vista più empatico, meno direttivo o impositivo. E come spesso accade, di fronte all’inedito scarseggiano le parole.
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Cosa resta dei padri?
Macondo se lo è chiesto in uno degli ultimi convegni per le famiglie, su ad Asiago nel settembre 2012. La domanda, carica del potenziale provocatorio tipico della titolistica associativa, giunge al termine di un’amara constatazione: il senso di comunità vacilla, da un lato, e dall’altro è venuta a mancare la continuità tra le generazioni. Le due cose vanno pensate insieme: fatichiamo a riconoscere dei luoghi in cui sperimentare il legame sociale, contenitori di persone e di senso che fungano da occasione per incontrarsi e costruire nuove narrazioni collettive; solamente in essi padri e figli possono parlarsi, scontrarsi, riconoscersi e infine differenziarsi. Ma non c’è già la famiglia, per questo? Qualcuno potrebbe domandare… Non è la famiglia infatti il luogo principe per l’incontro e anche per lo scontro? Non è la famiglia il laboratorio per sperimentare finalmente il conflitto? E se non fosse così?

A scuola, la storia è per lo più teoria di guerre, una polemologia nascosta. Sono di fronte alla sostanziale impreparazione di una delle mie classi a proposito del Risorgimento italiano e mi chiedo che cosa avrei potuto fare di più, dire meglio, schematizzare con maggior precisione. Li colgo in ansia, braccati da uno stress inguardabile in un adolescente: non è l’adrenalina di fronte ad una sana sfida, ma un imbuto di doveri, il più vicino dei quali è la cosiddetta “pagellina”. Apro la questione e presto qualcuna, in primo banco, svela l’arcano: se porto a casa le insufficienze mi «cavano la vita». Il punto sta qui: non ho fino in fondo la possibilità di affrontare con loro argomenti didattici, perché in questione è un sotterraneo conflitto irrisolto sul senso della scuola e dello studio, uno scontro congelato che riposa nel freezer di questa e di altre famiglie. I ragazzi vengono ammoniti, minacciati, giudicati, ma non sembra ci sia nessuno che litighi seriamente insieme a loro sulla gerarchia degli impegni, sulla priorità dei doveri.
«Il tuo lavoro è la scuola», si ripete. Ma se nel contempo, nelle azioni, comunico a mio figlio che non amo il mio lavoro, né informarmi, né capire il mondo che mi circonda anche attraverso un libro? Perché tutto questo dovrebbe essere per lei o per lui una cosa ovvia? «Perché studiare ti prepara al futuro» e quindi «te lo dico per il tuo bene». Ecco l’inganno: ti sto proteggendo, per questo ti impongo la strada.

La domanda non fa riposare
Prevale il legame simbiotico: di origine materna, necessario e fisiologico sino ai primi anni di vita, diviene poi una non voluta strategia di soffocamento. Per non soggiacere alla mia ansia di genitore per la tua felicità, sono costretto a costruire una campana di vetro intorno alla tua esistenza. Ti trattengo, ti mantengo, ti custodisco: devi fare quel che ti dico. Non c’è discussione sui possibili valori altri dei quali tu, in quanto essere umano adolescente, ti potresti far portatore. La simbiosi non è inefficace di per sé, ma diventa distruttiva se cade fuori tempo. Di qui la necessità di tornare a parlare del conflitto, che è il motore fisiologico di una relazione tra generazioni (e non solo) che sia sana, tema portante delle riflessioni di Daniele Novara e del Centro da lui fondato (www.cppp.it). Solo il conflitto può spingerci verso un legame creativo, una relazione che proietta verso l’esterno, che libera.

Conflitto… Si tratta quindi di un invito a litigare? Litigare in famiglia? In parrocchia? A scuola? Le domande a quanto pare si stanno moltiplicando. E porre una domanda, con il coraggio di chi vuol capire, di chi cioè non presume già di avere “la” risposta, significa già aprire un conflitto. Chi chiede, lo fa perché è interessato a quello che l’altro pensa, perché mette a repentaglio la propria visione del mondo, perché ha bisogno di completarla. E così facendo spariglia l’altrui visione, lo status quo. Altrimenti, è solo un’affermazione che per gentilezza viene corredata alla fine da un punto interrogativo.

Ecco: chi è in grado di domandare senza timore? Il bambino, quando entra nel tunnel dei “perché” e dei “che cosa è” e si fa insistente nel suo cercare la rete che chiarifichi gli eventi. La categoria della causa-effetto appare all’orizzonte dei due anni, quasi insieme al linguaggio, e se sei fortunato questo interrogativo non ti molla più. E poi l’adolescente, che chiede non solo per sapere ma per mettere in discussione la tua granitica sapienza del mondo. La quale spesso si rivela saccenza, se ci facciamo trovare impreparati, insofferenti, frettolosi, schematici. Socrate dedica ai giovani alcune tra le sue ultime parole: «più di uno sarà di chi vi accusa, gente che io trattenevo, e voi non ve ne siete accorti; e saranno più duri, quanto più saranno giovani, e voi tanto più ne sentirete il peso» (Apologia).AdoCarrello

Socrate non portava i jeans
Bambini e adolescenti cercano, così, per natura. Ma chiunque ha bisogno di un senso, foss’anche, come diceva Camus, per rispecchiarsi nell’assurdo. E a questa “domanda di senso” l’immaginario collettivo cerca risposta nella figura del vecchio saggio: è il nonno che, placido, fuma la pipa e osserva dalla sua sedia il moto circolare della famiglia. E’ il decano del gruppo, colui che ne ha viste tante e riesce a collocare la tua inquietudine come un passaggio necessario, drammatico, ma non distruttivo. Costituisce la riserva, la memoria del gruppo, e perciò sa di che cosa sta parlando la tua ansia, ma non deve tranquillizzare, perché poi, se solo dai tempo, sarà la vita a guarire. E’ il senatore, chi cioè può poggiarsi al bastone del suo essere senex per operare nel delicato compito di nomoteta, di legislatore. E’ lo starec Zosima per Aleksej Karamazov, il Gandalf di Tolkien, Albus Silente per Harry Potter, Mago Merlino per il piccolo Artù disneyano, Morpheus per Neo in Matrix, sino al prete solo e solitario, in Corpo Celeste, che finalmente fornisce un minimo orientamento a Martina.
La lista sarebbe lunga e l’intento non è quello, a questo punto, di contrapporre semplicemente queste figure maschili alla Fata Turchina collodiana, la Smemorina di Cenerentola o Flora, Fauna e Serenella della Bella Addormentata. Ma la tentazione è forte: se in questi casi infatti la “madre” buona, consolatrice e amorevole, per quanto anche severa, si prende cura del piccolo, negli altri il maschio rappresenta un riferimento sicuro ma che costringe alla solitudine della scelta.

Allora, data per certa la presenza materna, i nonni hanno sostituito i padri? Perché la letteratura e il cinema rincorrono la sapienza, le risposte di questo “padre non padre” che è il nonno? Che cosa accade in questo spazio creato dal salto di una generazione?
Un ulteriore elemento aumenta la complessità. Siamo nella società del forever young: la Chiesa dovrebbe farsi giovane per parlare ai giovani (eventi, musica, WEB); la Scuola dovrebbe svecchiare il corpo docente per ritornare ad essere efficace e agganciarsi al mondo attuale; la comunicazione nei media scoppia di colori, icone e di link, quasi avesse come interlocutrice solo la gioventù. Dell’anziano il corpo va monitorato, aggiustato, protetto dalla chimica medicinale, quando non restaurato con capelli e zigomi posticci, camuffato da giovane con le giacchette strette e i pantaloni alla moda. Le rughe rimangono solo nelle suggestive foto dei reportage dal terzo e quarto mondo: vecchi peruviani o tibetani, immagini in bianco e nero, qualcosa che c’era e non c’è più. Fossili.

La situazione appare quindi schizofrenica: abbiamo nostalgia di un “padre buono”, qualcuno che ci accolga per poi lasciarci al mondo, che ci consegni un messaggio di senso. Lo cerchiamo nell’antenato che lassù ha costruito la casa sulla roccia, che sappiamo dove trovare, ma poi, ridiscesi in pianura, ci manca qualcuno che ci accompagni nelle cose di ogni giorno. Dove sono i maestri che, come nelle botteghe artigiane, affiancano nelle difficoltà correnti? Dov’è la capacità di comunicare un mestiere ai novizi da parte di avvocati più grandi (ma non fuori gioco), di commercialisti con più esperienza (ma non in pensione), di insegnanti o presidi maturi (e ancora in ruolo), di parroci capaci di segnare la via ai cappellani, di datori di lavoro non ottusi? Non possiamo abbandonarci al loro sguardo, perché temiamo il tradimento. Perché loro non sono abituati a lasciar andare e noi non siamo abituati al tradimento e lo concepiamo come la fine di tutto.

Nel deserto, una via
Arturo Paoli è un esempio di “vecchio saggio”. La sua centenaria esperienza è in parte raccontata nella recente raccolta di scritti La pazienza del nulla. E’ qui che narra il suo decisivo incontro con il maestro dei novizi Milad, che lo introduce nella fraternità di Charles de Foucauld. Dice Paoli: «fu per me l’incontro con una persona assolutamente insolita (…). Sembrava veramente come l’uomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti (…) era l’uomo “del sì e del no”, “il resto viene dal maligno” (…). E quello che mi attirava di più era il suo rigore nei richiami all’essenziale e l’umorismo con cui commentava le goffaggini dei novizi, suscitando una incontenibile ilarità». Guardate: rigore e ironia, cioè insieme presenza ferma e presa di distanza. Ci sono, ma tu sei solo.

Se c’è qualcuno che può tradire – scomodando James Hillman – quello è il padre. Certo, anche la madre tradisce e può rifiutare la vita cui ha dato origine, ma nel farlo nega se stessa. Il padre è solo all’apparenza in una posizione più comoda. Luigi Zoja afferma che “tutti padri sono adottivi”, perché ciascun essere umano maschio adulto, portatore del seme della generazione, deve porsi radicalmente la questione di accettare come “sua” quella creatura così aliena e in totale simbiosi con la propria compagna. Ogni genitore maschio, in altri termini, è messo di fronte ad un individuo separato: il neonato, “sangue del suo sangue”, era in realtà corpo unico con la madre e poi, venuto alla luce, è corpo a sé, comunque e ancora estraneo. Il padre biologico è costretto ad una crisi, ad una decisione fondamentale: entrare o meno in relazione, accettare o meno il fatto che quella persona, che pure contiene il tuo patrimonio genetico, non è stata e non sarà mai una parte di te. Il padre può decidere se sopportare la contraddizione: una distanza che può essere colmata, ma che rimane tale; uno spazio vuoto che può essere misurato dalla lunghezza delle braccia in un abbraccio, ma che poi torna ad essere vuoto. Il padre deve scegliere di esserci e proprio perché deve sceglierlo conferma il suo poter non esserci, la sua assenza, che verrà vissuta come tradimento. Ma se è una persona che mi ama, cosa vuol dire che mi tradisce? Non sta agendo contro di me, ma mi sta decisamente mettendo sulla strada della piena autonomia. Lo strappo è necessario e se non avviene, il padre replica la simbiosi materna e il figlio rimane intrappolato. Ben venga allora un padre più empatico, capace in ultima analisi di riconoscere i bisogni dei figli, della compagna e propri, anche perché in fondo all’ossitocina non si comanda. Ma a questo nuovo padre è chiesto uno sforzo suppletivo: non perché divenga supplente della madre, ma perché nel porsi in relazione prepari il terreno di una feconda separazione.

[Scritto nell’autunno 2012; apparso su Madrugada, giugno 2015]

Metter in ceppi le parole

Agostino_carracci,_democrito,_1596_ca,_Q487

Terza liceo delle scienze applicate, entro in classe per un’ultima ora di un giovedì qualunque, e quindi abitato dall’ansia dei tempi stretti, delle interrogazioni, della dittatura del programma (nonostante la scuola delle competenze). Avevamo giorni prima affrontato la soluzione dei fisici pluralisti (il terzetto inseparabile di Empedocle, Anassagora e Democrito) alla cosiddetta aporia eleatica, e cioè ai limiti che il padre tremendissimo Parmenide aveva decretato per la filosofia a venire. Come render compatibile l’immobilità dell’essere con i fenomeni della natura, movimento incessante e creativo?

Con Democrito la questione si fa non solo più complessa, ma anche amplificata. Vive in un’epoca in cui le tematiche di ordine morale e politico sono tornate a far discutere, nelle accademie e nelle piazze. E’ l’epoca dei sofisti, la medesima che vede Socrate bighellonare tra i banchi del mercato. Saggiamente, quindi, il manuale in adozione fa un riferimento alla visione etica del fondatore dell’atomismo. In particolare, gli autori affidano alla nostra riflessione una frase lapidaria di Democrito: «l’anima è la dimora della nostra sorte».

Ora, passare indenni un’ora con ventidue sedici-diciassettenni che sono appena usciti da un compito di matematica rappresenta già di per sé una sorte avversa. Tanto più se si tratta di coinvolgerli in una questione di tipo morale (e politico) lanciata centinaia di anni fa.

Che fare? Se la frase è lapidaria – al limite dell’aforisma -, ho pensato, potrebbe essere interessante lanciare loro la provocazione di tradurre Democrito in modo altrettanto immediato. Del resto, ma la questione pur interessantissima porterebbe altrove, la pratica dell’ “esercizio spirituale”, chiave di volta in Hadot per spiegare la filosofia antica, non è poi così lontana dalle frasi che ogni giorno i ragazzi (e non) si scambiano sulle bacheche dei vari social network: piccole pillole di saggezza personale che ci ricordano qualcosa di essenziale per vivere meglio.

Prendete un foglio a quadretti – esordisco ingenuo. E contatene 140, come in tweet… E qui si è accesa la lampadina. Anzi, chi di voi ha un account Twitter può usarlo, così la macchina fa il conto per voi. Reazione immediata: ma prof, possiamo usare il cellulare in classe? Si. Siete ad uno scienze applicate? Ebbene, applicate.
Così ho comunicato il mio riferimento sul social e qualcuno si è iscritto al momento, di chi non lo fosse già. Solo due o tre persone hanno preferito comunicarmi la soluzione, che poi ho girato in un mio messaggio. Dopo aver al momento retweetato le loro parole, coinvolgendo @twitSophia_it ho riassunto poi il risultato in questo post su Tumblr.

La dinamica attuata è perfino banale. Ma la considero solo un inizio, che però ha qualche aspetto promettente. Un ragazzo giorni dopo mi scrive via email: «Prof, la mia spiegazione di democrito su twitter mi sta facendo guadagnare popolarità. O mio dio hahaha». Certo, possiamo aprire un dibattito sulla sovraesposizione narcisistica dell’individuo nell’era del web, ma non è qui il punto. Questa persona ha preso atto delle reazioni intelligenti ad una sua affermazione intelligente; ha sfiorato con mano il fascino delle cose ben dette.

E allora mi è venuto in mente Bacone, quando nel ragionare sull’esperimento e sul lavoro dello scienziato, parla di “mettere in ceppi la natura” per costringerla a rivelarci le sue leggi. Non succede lo stesso con il linguaggio, quando siamo inseguiti dall’esiguo numero di caratteri ammessi? Con la differenza che qui potremmo intuire qualcuna delle leggi che adoperiamo per pensare e parlare, e quindi essere indotti a formulare un piccolo ragionamento metacognitivo. Imparare ad imparare… Si dirà che di Democrito forse non ricorderanno nulla, o forse sì. Io ci provo, perché se Democrito mi suggerisce una cosa intelligente, forse varrà la pena ascoltarlo.

 

un(a) Filo lungo un anno

Sulla lavagna, orfana di gessi, la mano sudata traccia le parole di quella che possiamo chiamare una integrazione metacognitiva: l’operazione secondo cui si cerca di fissare non il contenuto appreso, ma i modo con cui lo si è appreso. La testa si guarda dall’alto, la cognizione si specchia, si fa speculativa.
Nella foto ci sono le parole della Terza A, che ringrazio: è stato un anno costruttivo.

unAnnoDiFilo2

Mi pare interessante notare come il fuoco-sabba attorno a cui danzano le parole-streghe è l’idea-sensazione di pensiero divergente, di qualcosa che ha scompaginato l’ovvio, il normale. Beh, è l’effetto della filosofia greca, dove un altro mondo è stato possibile.

Se è vero che, seguendo la scia dei Barbari di Baricco, sempre più oggi prevale la velocità-in-superficie, e la categoria di “smart” è la più utile a comprendere come si muova la conoscenza, mi pare anche vero che la vecchia polverosa categoria dell’approfondimento, che non viene scalzata, oggi, ma solo messa nel mucchio, non se la passi poi male. Se è vero che tutte le alternative sono possibili, quella della profondità mantiene ancora un fascino particolare. E, sfruttando la contemporanea sensibilità estetica, non potrebbe succedere davvero che sia la bellezza a salvare il mondo?

Difendere la filosofia? La filosofia è una malattia mortale

L’articolo di Alberto Gaiani su Alfabeta ha il merito di raccogliere i contributi al tema in oggetto e nel contempo di superarne la parzialità, convogliandoli in alcune proposte per rilanciare il dibattito.

Su queste pagine notturne mi permetto quindi di obbedire e di contribuire con un frammento, partendo da quattro citazioni di varia natura:

«La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque»
Novalis, Schriften

… Lei mi domandò cosa si fa quando si è studiato da filosofia, e io le dissi che si prende la laura. Lei voleva sapere che mestiere si fa, e io dissi che volendo si può insegnare filosofia agli altri, ma di solito quelli che la sanno non la insegnano, mentre quelli che la insegnano non la sanno.
“E cosa fanno allora quelli che la sanno?”
“Se la tengono a mente,” dissi.
“E poi?”
“E poi pensano, e tutto quello che pensano è filosofia.”
“E poi?”
“E poi muoiono.”
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1998

Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Per il momento, più che cercare la loro definizione, ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo?
Maria Zambrano, Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendagron, Bologna 1998

«Caspita Socrate – dice l’amico Simmia con il sorriso sulle labbra – non avevo alcuna voglia di ridere, ma tu adesso mi hai proprio fatto sorridere! Infatti credo che la maggior parte della gente, sentendo queste parole nei confronti dei filosofi, le considererebbero ben dette. Del resto, anche i nostri concittadini sarebbero completamente d’accordo nel sostenere che quelli che fanno filosofia sono proprio dei moribondi e, anzi, vi aggiungerebbero di non ignorare affatto che essi sono meritevoli di subire questo destino»
(…) «Allora Socrate – disse l’amico Cebete sorridendo – prova  a convincerci come se avessimo effettivamente paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi vi fosse un bambino terrorizzato da queste cose. Cerca di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio». «Ma questo bambino, rispose Socrate, bisogna incantarlo ogni giorno, finché non siate riusciti ad ammansirlo del tutto»
Platone, Fedone 64b e 77 c

Per difendere la filosofia, le varie voci che compongono il dialogo aereo su cui Alberto Gaiani fa il punto, ci si richiama soprattutto a quanto la filosofia stessa PUO’ FARE, al suo POTERE, inteso in senso stretto, proprio come “poter fare”:

Рpoter contenere anche sistemi opposti, perch̩ le nostre idee non sono definitive (Reale)

– il respiro della mente (Giorello)

– una messa in ordine delle idee sulla vita e su noi stessi (Vattimo)

– esprimere, nella relazione drammatica tra origine e compimento, il principio stesso del politico (Galli Della Loggia/Esposito/Asor Rosa, sul sapere umanistico in generale)

– definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi; La capacità, e anche il desiderio, di aprire un confronto, in qualche caso uno scontro, rispetto a ciò che esiste a favore di una diversa disposizione delle cose.  (Esposito)

– un’insuperata capacità di fare un passo indietro rispetto al piano dal quale di solito guardiamo la realtà e concederci così una visuale più ampia sulle cose (Quit The Doner)

– critica delle diverse forme di presupposizione assunte come scontate, come capacità di mettere in questione tutte quelle parole che spesso il discorso pubblico assume come non necessitanti di discussione alcuna, come possibilità, attraverso l’argomentazione, di decostruire le pratiche discorsive che si fondano sull’autorità della persuasione e, dunque, del potere (Illetterati)

Tutto quanto riportato è l’importantissima eredità dei nostri padri-nel-pensiero, la Carta Costituzionale della nostra Repubblica degli Spiriti, quanto ha reso possibile in ogni epoca del nostro decadente occidente (ma al dibattito manca una voce orientale, per ora) la camusiana rivolta contro chi, in nome di presunte Verità, schiaccia, zittisce, impoverisce, chiunque altro.
La filosofia è strumento degli scomodi, degli insoddisfatti, delle minoranze, dei ghetti.

Ma perché lo è? Perché la filosofia è una malattia. O meglio, è la consapevolezza di essere malati.
Chi fa filosofia – o ci prova – davvero, in fondo, è consapevole che non può non farlo; è cosciente che la sua curiosità, il cercare di riempire i buchi nella realtà che osserva, nasce fondamentalmente da un essere disadattato – dal non adattarsi alla normalità, da non essere capace di adattarsi.

La “nostalgia” di Novalis, Heimweh, era al tempo classificata come una vera e propria patologia della mente. Collegarla al filosofo, significa ricordarci come egli, nel pensare, cerchi di curare questa sua radicale mancanza del “tutto” (l’essere a casa ovunque), cerchi la cura per dare ordine non solo ad un pezzetto della realtà, ma al suo senso complessivo. Ma non può non farlo, come il malato non può allontanare da sé questa condizione di bisogno.
Una sorta di condizione a cui non si riesce a rinunciare, questa.
Talvolta capita, in classe, che emerga nei ragazzi messi di fronte alla storia della filosofia, questo pensiero: ma non sarebbe più facile non farsi tutte queste storie (per essere eleganti) mentali? Eh, già: come fanno loro, la maggior parte degli altri uomini e donne, a vivere senza pensieri? Non sarebbe meglio, più facile?
Viene in mente Montale:

Ah l’uomo che se ne va sicuro
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Meneghello è sottile come sempre e ci suggerisce che la filosofia non è una professione, ma una condizione permanente. Come una malattia incurabile, che la Zambrano (e, a margine, perché così poche filosofe nei nostri programmi?) individua in una radicale mancanza di amore, o più precisamente: la filosofia (e la poesia) cercano in tutti i modi di metterci al riparo dalla nostra condizione limitata umana, dall’esser-esposti.
Deboli, vulnerabili.

Ma pensiamoci: i ragazzi a scuola, messi in questa condizione, riconoscono di essere portatori sani di questo virus, che si dibatte, fa venire la febbre, di fronte – su tutti – a due temi radicali: l’amore e la morte. Come fai a starci dentro (a star di fronte alla persona che ti ha scelto o al fatto che qualcuno se ne è andato) senza farti una domanda?
Se tu, adulto o ragazzo, non hai lo spazio per fartela, se non c’è un luogo per un tragico “perché?”, significa che la tua testa e il tuo cuore sono strapieni di cose. Che sei caduto nella trappola di chi ti ha venduto un bel po’ di risposte, di chi ti ha soddisfatto.
Possibile che il nostro ruolo di umani sia solo quello di compilare questionari di soddisfazione del servizio?

Ma il punto ̬ che da sempre qualcuno cerca di venderci risposte, proprio perch̩ ̬ radicale il bisogno di risposta. Erano (sono) i sofisti, i mercanti, i capitalisti, perfino coloro che Рstabilita Una Filosofia Рci campavano e ci campano sopra.
E se oggi c’è un sistema – chiamiamolo mercato, chiamiamola tecnoscienza coniugata con il mercato – che non solo fornisce ottime soluzioni, ma crea bisogni considerati essenziali per poi venderci altre soluzioni… Se in altri termini siamo costretti ad esser sempre sani pronti e competenti, è chiaro che sarà fatto di tutto per espellere la malattia, il bisogno, la vulnerabilità propri di chi non riesce ad adattarsi.

L’espulsione della filosofia, ma anche della musica e della storia dell’arte, sono fisiologiche in questo sistema della prestazione. Non c’è tempo da perdere, se devi produrre e poi comperare. Siamo sempre in tempo di saldi ed è saggio affrettarsi.

Eppure questo bisogno di trovare una risposta, che giace all’origine anche delle varie Risposte, non è sinonimo di forza, ma di spaesatezza, di fragilità. Che tuttavia è la stessa che, dal tornitore al fisico, dal ricercatore biologo al direttore d’orchestra (direbbe Sennett), pone l’essere umano di fronte alla meravigliosa necessità di risolvere un problema. Mi pongo di fronte ad un’attività, rilevo che qualcosa non funziona, potrebbe andare meglio, e cerco finché non trovo il pezzetto che manca. E’ la stessa spinta che muove un bimbo in un gioco e un filosofo teoretico: trovare ciò che manca.
Ma è un bisogno, non una potenza!

Ecco perché, a mio avviso, la filosofia – come presa in cura della nostra fragilità – andrebbe sparsa in ogni ordine e grado di scuola, con linguaggi diversi, con pratiche da pensare, e non solo come comunicazione della storia della filosofia.
Ecco perché questa domanda sulla filosofia porta con sè anche la domanda sulla scuola in generale, come bene evidenzia Illetterati.
Per quale motivo, in fondo, Socrate pensa ai giovani, quando lancia il suo vaticinio alla città di Atene? Molti seguiranno le sue orme di tafano e saranno più fastidiosi quanto più saranno giovani – egli dice. Ma perché, i giovani?
Perché, penso, sono coloro che, essendo più lontani dalla morte, si permettono di pensarci, spesso perfino di giocarci con leggerezza. Accettano il fatto che ci si debba pensare, anche se non si vorrebbe. Perché essi sono coloro che non sono stati ancora convinti/persuasi da una delle tante Risposte, che immagano e spingono altrove il pensiero che siamo e potremmo non essere.

A conti fatti, nell’ascoltare il canto notturno di una civetta, emergono due tipologie umane: chi ascolta affascinato e chi si produce in gesti apotropaici.

Ma che cosa vogliamo dalla scuola?

0_f37db_e8db03d8_origMichele Visentin scriveva nel suo blog (ora dormiente)

Quello che ci capita sembra ci capiti sempre per la prima volta, a scuola. E ragazzi così non ne abbiamo mai avuti; così indisciplinati, intendo. Falso. Siamo, forse, solo più stanchi.
Una decina di anni fa sintetizzai il testo di Charles sulla gestione della Classe per gli insegnanti “desiderosi di ristabilire l’ordine e la disciplina”. Condividemmo un’idea diversa di “controllo” discutendo i principi di fondo proposti da A. Kohn in Beyond the discipline: from compliance to community e da essi si lasciammo ispirare per impostare le norme della nostra vita scolastica.
Una convinzione ingenua, che rifiutammo, fu quella che concepiva la disciplina come lo sforzo di far aderire gli studenti alle aspettative degli insegnanti piuttosto che una conseguenza naturale di una relazione fondata su interessi comuni.

Porsi il problema della DISCIPLINA è all’ordine del giorno, in ogni grado scolastico. Potrebbe sembrare ovvio: per raggiungere determinati obiettivi debbo predisporre altrettanto determinati strumenti. Tra di essi, compare la disciplina. E se invece la questione della disciplina, spesso ridotta a lamentele ansiose, non fosse che un sintomo? Se fosse il nostro modo di annaspare all’interno di un sistema in cui obiettivi alienanti sono ormai arrivati alla coscienza di tutti gli attori?

La scuola serve per preparare al lavoro? Serve per preparare – nel caso della secondaria di secondo grado – alla frequenza dei corsi universitari (o addirittura al solo TEST d’ingresso)? Serve per educare? Serve per dare contenimento ad esserini in preda alle proprie pulsioni?

Questa questione è enorme, me ne rendo conto. Ma è necessario porla tra docenti, con i ragazzi, con i genitori. Ma quali spazi apriamo per farlo? Qualcosa qui e là si muove, e da tempo: in questo post tratto da UNIMONDO, Anna Molinari dà conto del progetto REEVO, che nasce dal documentario La educacìon prohibida, a partire (anche) da questa riflessione:

La scuola segue ancora un paradigma troppo frammentato, basato su un “apprendimento preventivo”nella convinzione che “un giorno tutto questo potrebbe essere utile”. I concetti si acquisiscono con uno sforzo sproporzionato di memoria, calcolo e concentrazione e l’aspetto sconcertante è che, sfortunatamente, questi concetti hanno una durata limitata. I metodi di apprendimento cambiano velocissimamente, ed è chiaro che i metodi educativi non stanno al passo con i tempi – si noti, nel film si parla di metodi, non di strumenti educativi, che invece spesso sono di ultima generazione.

Reevo cerca di mettere in rete, e non solo nella Rete (Web), le esperienze di educazione alternativa. Interessante capire se questo scambio di buone pratiche divenga incontro reale tra persone e quindi mutua contaminazione, occasione in cui davvero si viene a conoscenza diretta di persone capaci di forme altre di scuola.
Di questa conoscenza epidermica c’è davvero bisogno, per non cadere nella retorica del piccolo gruppo che resiste contro il sistema, o degli individui eroici e isolati che popolano (e per fortuna!) le nostre scuole.

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Il progetto trentino di SCUOLAEVOLUTIVA (link non più attivo a marzo 23) per esempio,  è coraggioso. Un gruppo di persone decide che è possibile fondare una scuola diversa, con proposte che vadano ad integrare i programmi “normali”:

Abbiamo fondato una scuola che si rivolge ai genitori che, come noi, sentono il bisogno di integrare i programmi scolastici non con dei corsi pomeridiani tradizionali, che inevitabilmente rimangono fini a se stessi, ma con un vero e proprio progetto educativo integrato, considerate le carenze logistiche della scuola attuale, permettendo dunque al bambino di crescere in modo più sano, creativo, consapevole, fornendo al tempo stesso un’educazione più completa ed armoniosa della persona.

La proposta corre parallela al “normale” curricolo e ne costituisce nel contempo una radicale critica. Ritengo sia una premessa al cambiamento del curricolo stesso, immaginando proprio una diversa “normalità”. Anche perché il rischio è quello di occupare ancor di più il tempo di bambini e ragazzi.

La questione sembra questa: dato questo sistema, è possibile adottare atteggiamenti e pratiche che per lo meno “salvino il salvabile”? Che producano risultati CON i ragazzi e non a spese loro? Che non consista in una ulteriore strategia di soffocamento?
Si presume che lo spostamento sulle competenze provochi lo smottamento del sistema stesso, finalmente adatto a… A cosa?
Christian Raimo non ha mezzi termini: a produrre futuri uomini flessibili, cioè perfettamente sincronizzati con il mercato del lavoro – con QUESTO mercato del lavoro…

Perché insomma le aziende si devono far carico di educare alla flessibilità se lo può fare la scuola? Perché non rendere il pensiero critico neutralizzato e strumentale ai bisogni di un’azienda? La verità  è che ogni volta che s’invoca il feticcio della misurabilità  oggettiva si occulta la più assoluta legittimazione della pura soggettività , dell’arbitrio. Come accade per le competenze, così accade per la “meritocrazia”, altro pseudoconcetto, altro plastismo che delle competenze è lo speculare; se io ho per le mani concetti così vaghi come competenza o merito, è chiaro che sarà  fondamentale chi è che decide quali sono le persone competenti o quelle meritevoli.

Ma voi genitori, che chiedete l’inglese già in prima elementare, che vi lamentate per i pochi compiti alla primaria; o voi (noi!) , insegnanti, che per tema di queste critiche, riempite (riempiamo) il pomeriggio e le sere di intere famiglie… Vi siete chiesti che cosa possono essere queste persone in miniatura che avete in casa o in classe e non solo quale lavoro debbano fare?

SHORPY_8d33944a.previewLe voci che dicono: guardate, con questo sistema non si va da nessuna parte, se non a contribuire a disagio e disuguaglianza… Si stanno moltiplicando, o semplicemente stanno emergendo, perché il punto di rottura è vicino e non sarà evitato aggiustando gli edifici scolastici. Ken Robinson, altrove, lo ripete da tempo.

Gianni Marconato, attento osservatore della formazione e dei nuovi media:

Quanto di tutto quello che queste persone sanno lo hanno imparato in modo strutturato a scuola? Ovvero, attraverso strategie di insegnamento intenzionale? Quanto ha inciso, in senso positivo, la scuola nella costruzione di quelle carriere professionali?
Si dirà: la scuola ha posto le basi del loro sapere. Ha fornito loro un metodo e degli strumenti per imparare quello che, poi, sarebbe servito loro.
Siamo certi che questo sia avvenuto ed avvenga tutti i giorni? Che ci sia una diretta correlazione tra ciò che una persona conosce e l’insegnamento ricevuto?
E’ evidentemente (sic) che la scuola una sua traccia la lascia. Ma quale?

E Paolo Mottana, docente alla Bicocca, autore tra gli altri del Piccolo Manuale di Controeducazione, e di cui si veda anche QUESTO, adotta una posizione ancor più radicale e si richiama ad Illich:

La scuola è un’impresa delittuosa, l’artefice principale del “sequestro educativo”. E’ il principale strumento al servizio del soffocamento di quelle esperienze meravigliose e insostituibili che si chiamano infanzia e adolescenza. Noi dobbiamo strappare bambini e ragazzi ai reclusori, ai sarcofagi di cemento dove vengono internati per lunghissimi anni fino a che non siano stati trasformati in materia buona solo per far girare gli apparati di potere. Noi dobbiamo salvarli, memori di quanto abbiamo sofferto allora, quando ne fummo anche noi rapiti e inebetiti, e di quanto ineludibilmente si continua a soffrire anche ora, silenziosamente e perlopiù inconsapevolmente, a fronte del funzionamento osceno e apparentemente inarrestabile di quel meccanismo normativo e martirizzante. Occorre restituire ai bambini e ai ragazzi la loro esperienza. Occorre riportarli sulla scena del mondo, della natura, delle strade, dei luoghi dove si vive e si traffica e si impara sul serio.

Il tono può apparire apocalittico, non diversamente dal Fofi di Salviamo gli innocenti.
Ma chiunque di noi in classe – a meno di una totale sclerocardia – abbia per un solo istante interrotto l’andamento meccanico del riversare nozioni per osservare le creature che ha di fronte, non può non aver avvertito che senza desiderio l’intelligenza non funziona. E senza interesse, emozioni, e perfino eros, come già Socrate ci ha insegnato.

Varrebbe la pena parlarne, per lo meno?

L’incantesimo della speranza. Cit.#3

Più spesso Socrate descrive [la sua dottrina] semplicemente come un motivo di speranza. (…) O vi è una possibilità che la vita abbia un senso, oppure sarebbe meglio non esser nati. O si può sperare di là da questo mondo in una giustizia per i giusti, oppure non resta che disperarsi per un’esistenza tanto irridente da far re i giullari e tanto tragica da far acclamare dalla torma il martirio degli innocenti. Se non trovassimo una qualche ragione per poter sperare in un’altra esistenza, saremmo annientati dalle troppe occasioni d’infelicità che questo mondo ci offre. Non ci si può salvare che con la speranza, e questa speranza non può essere salvata che con la fede. Per quanto poco sia credibile, il meglio che si possa fare è sempre credervi. Se il tenue filo della logica può condurci alla minima ragione di speranza, occorre stare attenti a non romperlo, e a non permettere che alcuna riserva rimetta in discussione la ragione. Ecco perché “giova fare a se stessi di tali incantesimi” (Fedone, 114d): non bisogna smettere di credere alla ragione, se si vogliono avere motivi di speranza.
(…)
Proprio perché la nostra vita deve testimoniare il nostro pensiero, dobbiamo vivere quello che pensiamo via via che andiamo a scoprirlo. (…) Puntiamo la nostra vita su una speranza, e questa, a sua volta, su qualche associazione logica. Per aver fede in questa aspettativa, dobbiamo quindi esserne convinti, e per credervi è indispensabile identificare la nostra anima col nostro pensiero. Solo così il nostro pensiero si fa “incantesimo”, e la nostra vita testimonianza. Eccoci nuovamente di fronte ad una scelta: o il nostro linguaggio assume la funzione di evocazione e, tenendoci distanti da ciò che descrive e riporta, ascrive il nostro pensiero a oggetti che gli sono esteriori, o agisce da incantesimo e rende interiore tutto quello che enuncia: non solo crea ciò che dice, ma ci trasforma subito in ciò che crea. Attraverso una sorta di mimo interiore, ci dentifichiamo in quello che afferma il linguaggio. Non ce ne distinguiamo più: lo siamo”.

(N. Grimaldi, Socrate, lo sciamano. Il primo guaritore di anime; Asterios, Trieste 2012; pp. 92-96)

lui, lei e Socrate

Sapete, Pipsi, la mia vita, che cos’è questa mia vita? Io sono così contento di esistere, di essere al mondo, che qualsiasi cosa bella io veda, subito la sposo, io sono innamorato non solo delle persone ma anche delle cose, del lavoro, ah come mi è piaciuto fare di tutto, mi è piaciuto fare l’assicuratore, mi è piaciuto fare il capomovimento, come mi è piaciuto andare al lavoro là allo stabilimento metallurgico Poldi…ah! ogni barra dell’acciaieria, ognuna aveva impressa nell’acciaio una bella testolina femminile, la testina col ricciolo bruciacchiato dalla stella, sapete, Poldinka si chiamava quell’ebrea che il direttore dello stabilimento amava tanto, al punto da far incidere quella testina sullo stampo e così quella testolina amata va ancor oggi in giro per il mondo in ogni barra… lo sapete che avete lo stesso profilo di quella Poldinka? E quando verrete da me al lavoro, guardate pure come sono fiero di pressare la carta, di caricare quei pacchi, come sono felice di essere là precisamente dove sono. Perché la vita non è affatto una valle di lacrime ma gioia nuziale e festa nuziale, per questo festeggio i matrimoni in questa casa e voglio bene agli zingari tanto che a certa gente do fastidio… (p. 71).

Mi meravigliai per come mi era potuto accadere di vedere cose, persone, alberi così belli, di cui non mi ero mai accorta, non che non ne avessi avuto il tempo, fino a quella domenica camminavo come una tonta, sempre testardamente dentro i miei guai, neppure da ragazza mi ero accorta di quanto sono belli gli alberi, di quanto sono gradevoli i cespugli e le foglie su di essi, di quanto sono belle le aiuole di fiori, e anzi non mi ero mai accorta, solo lì, di quanto è bella la verdura che donne grasse annaffiano unicamente vestite, sopra il corpo nudo, di enormi grembiuli che non si usano più. Aveva trasformato ogni cosa per me proprio quella persona che procedeva accanto a me come la mia balia, il mio istitutore, quella persona che non aveva bisogno di spiegare, di insegnare nulla e anzi se mi avesse insegnato, per il mio carattere, io sono caparbia come la mamma, non avrei guardato nulla apposta, non mi sarei accorta di nulla, mi sarei intestardita in me stessa, mi sarebbe venuto il naso a patata, mi si sarebbero allagati gli occhi e avrei guardato in terra… ma lui semplicemente procedeva accanto a me, guardava intorno a sé e anch’io guardavo là dove lui guardava e cominciavo a vedere quasi come lui vedeva, non guardai l’orologio, quasi non volevo che il tempo trascorresse per poter procedere sempre così, solo nello spazio percorso dalle nostre persone (pp. 77-78).

(Bohumil Hrabal, Le nozze in casa. Romanzetto femminile. Trad. di Alessandra Trevisan; a cura di Sergio Corduas; Einaudi, Torino, 2006)

E dunque, per concludere, l’amore è tendenza a possedere per sempre il bene.
E io dissi: Dici una cosa verissima.
Poiché l’amore consta sempre in questo – continuò – secondo quale condotta e in quali attività l’impegno e lo sforzo di chi mira ad esso, possono essere chiamati con il nome di amore? Qual è questa attività? Sei capace di dirlo?
Se lo fossi, Diotima – risposi – non ti ammirerei tanto per la tua sapienza e neppure verrei da te per apprendere queste cose.
Te lo dirò io. E’ un partorire nel bello secondo il corpo e secondo l’anima (p. 107).

(Platone, Simposio. O sull’Amore. Intr. di Umberto Galimberti; trad. e cura di Fabio Zanatta; Feltrinelli, Milano, 2006)