Dacca, Bangladesh

La macchina informativa triturerà nuovamente queste notizie e, con loro, questa immagine. Tra qualche giorno sarà già passato. “E’ tutto passato” si dice ai bimbi, dopo un grande spavento. E noi, come bambini, ci spaventiamo e poi torniamo a giocare.
Ma la dignità di queste persone, la vita di questi lavoratori, la loro morte, non è gioco.
Il sistema che anche noi contribuiamo a realizzare ha ucciso queste persone.
Che cosa deve succedere perché il lavoro torni ad essere questione umana?

E i torturati

in grumi neri

inutilmente

urlano.

(D. M. Turoldo)

Taslima

La foto simbolo di Dacca, Bangladesh – Il Post.

Amore e follia al tempo degli Olmos

Sopraeroietombe

O vero
«Qualcosa di misterioso accade in quei momenti»

L'”anello che non tiene” punteggia alcune fasi della poetica di Eugenio Montale, per poi lasciare il passo ad altro, talvolta evanescente, talvolta solido. Correlativi oggettivi. Questo romanzo di Ernesto Sàbato, Sopra eroi e tombe, al contrario, sembra costruito interamente sui particolari precari che uno sguardo sul mondo, fondato sull’esperienza – e non sull’apparente ingenuità di Martìn del Castillo, uno dei coprotagonisti -, coglie nelle esistenze che intorno crollano.

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Giacché non bastano, pensava, le ossa e la carne per costruire un volto ed è per questo che il volto è la parte infinitamente meno fisica del corpo, fatto di sguardo, di contrazioni della bocca, di pieghe, di tutto quell’insieme di sottili attributi attraverso i quali l’anima si rivela nel corpo»

I fatti che costituiscono la sostanza della narrazione talvolta sfuggono, quasi si trattasse di più opere messe insieme. Ciò che conferisce compattezza al tutto è l’indagine dell’animo umano, o della sostanziale inesistenza della normalità. Martìn è costretto all’angolo della vita da una “madre-fogna”, un abbandono lacerante, il medesimo vuoto che fa vibrare le sue corde all’avvicinarsi di Alejandra. La vediamo parlare ed agire, ma è la sua assenza a risultare macigno ingombrante, non evitabile, né scavalcabile. E del resto il vuoto abita anche questa giovane donna, che – forse per un solo istante – trova nel ragazzo un appiglio, uno specchio.

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Ma vedendo le sue lacrime, le sembrò di capire che non era una risata ciò che aveva udito ma, come sosteneva Bruno, quello strano suono che certi esseri umani emettono in occasioni insolite e che, forse per la limitatezza della lingua, ci lasciamo andare a definire come riso o pianto»

Lo sguardo sulle vicende è distaccato, e potrebbe essere proprio quello filosofico di Bruno, amico-rifugio di Martìn, quasi padre. Come una nottola di Minerva, che osserva dall’alto senza poter intervenire. Che la sua sia una rinuncia, per quanto giustificata e giustificabile dal punto di vista teorico, apparirà chiaro quando finalmente, nella seconda parte del libro, avremo qualche notizia su di lui.

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Saremmo così duri con gli altri, si chiedeva Bruno, se ci rendessimo conto veramente che un giorno devono morire e che niente di quello che abbiamo detto loro si potrà più modificare?»

Perché anche Bruno ha a che fare con questa antica famiglia, gli Olmos, intrecciata con la storia dell’Argentina e, di necessità, con i suoi abitanti, fieramente sudamericani e nello stesso tempo fieramente europei come i loro antenati. Gli avi di Alejandra sono spettri anche quando continuano ad abitare le stanze della villa, il luogo del mistero che apre e chiude la vicenda, ma che non è altro che l’abisso della mente umana. E’ la psiche, nelle parole di Sàbato, a farsi veramente gotica. E Martìn è perso nella sua propria cattedrale.

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La notte, l’infanzia, le tenebre, il terrore e il sangue, sangue, carne e sangue, sogni, abissi, abissi insormontabili, solitudine solitudine solitudine, tocchiamo ma siamo soli. Era un ragazzo sotto una immensa cupola, nel mezzo della cupola, in mezzo a un silenzio terrificante, solo in quell’universo gigantesco»

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Alejandra rifiuta Martìn, perché rifiuta il suo amore, non in quanto tale, ma perché esempio di possibile amore. Alejandra sa di non poter meritare amore, per un imperativo categorico che vive nella sua carne. Martìn potrà sì toccarne la pelle e il corpo, ma è tutto quello che lei può dare, anche contro se stessa. Anzi: proprio contro se stessa.

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E Bruno, non Martìn, di certo, Bruno pensò che in quel momento Alejandra pronunciava una preghiera silenziosa ma drammatica, forse tragica, e che quella preghiera era rimasta inascoltata»

E’ in questo spazio, tra il drammatico e il tragico, che prende posto Sàbato: il dramma sta nelle anticipazioni, negli indizi sparpagliati, nelle cose che prima intuisci e poi ti vengon chiare; persino nella scelta di tracciare capitoli brevissimi, come se anche qui, in alcune decine di righe, si risolvesse un destino. Il tragico, come spazio dell’assenza-di-spazio, come svolta inaudita, voragine dell’insensatezza, è sempre di là da venire, eppure accade.

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E se l’angoscia è l’esperienza del Nulla, qualcosa come la prova ontologica del Nulla, non sarà forse la speranza la prova di un Senso Occulto dell’Esistenza, qualcosa per cui vale la pena lottare? Ed essendo la speranza più forte dell’angoscia non sarà che questo Senso occulto è più vero, per così dire, del famoso Nulla?»

La lotta contro l’angoscia lascia feriti sul campo e dispersi nella terra di nessuno: sono i folli. Come la tanto insensata quanto eroica cavalcata degli uomini del generale Lavalle, del quale giovanissimo portabandiera è Caledonio Olmos, al fine di difendere il cadavere dell’alto graduato dal disonore, eroica e insensata è l’indagine di Fernando Vilas Olmos a proposito di un presunto complotto mondiale ordito dai ciechi. Come l’impresa militare punteggia l’epilogo del romanzo (ma era stata già evocata nella casa degli Spiriti), l’intera Parte Terza è dedicata al fantomatico “Rapporto sui ciechi”, autentico esempio di Schwermerei. L’eroismo nel conflitto con l’angoscia, la ricerca affannosa della luce, la fuga dai fumi della putrefazione: tutto degli Olmos parla in questi termini epici. L’epica della follia, unico luogo rimasto.

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Avrei desiderato che mi chiudessero in un manicomio per riposare, visto che lì nessuno ha l’obbligo di conservare la realtà come ufficialmente si pretende che sia. Come se lì uno potesse dire (e certamente lo dice): e adesso, che s’arrangino»

Bruno annusa la psicosi di Fernando da vicino, e come il suo “protetto” Martìn anni dopo, ne rimane invischiato per amore di una Olmos, Georgina. Ma a differenza del giovane sperduto, Bruno si salva con l’ideologia e il pensiero anarchico, che lo portano fuori, dalle patologie di una casata famigliare, a quelle della società borghese capitalista. Passata l’adolescenza e i suoi nostalgici amori, solo la purezza dei teorici della rivoluzione, o la pazzia di Fernando, riescono a smuoverlo.

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Mio Dio, è possibile trovare esseri umani veramente puliti, se non nei territori, quasi alieni dalla condizione umana, dell’adolescenza, della santità e della follia?»
(…) Ecco una delle grandi contraddizioni della nostra formazione, che finì per scavare un abisso fra noi e la nostra patria: volendo indagare la nostra realtà abbiamo finito per perderci in un’altra. Ma cos’è in
definitiva la nostra patria se non una serie di alienazioni?

Come se realmente l’alienazione dello sfruttato, in termini marxiani, non sia una metafora – o lo sia solo parzialmente: “alienato” è anche tecnicismo psichiatrico e i resti del meccanismo divoratore che costituisce la normalità della vita borghese non sono solo operai e immigrati, ma altrettanto decisamente coloro che perdono il senno, o il senso.
Sàbato, come Pessoa per altri versi e tutta la letteratura come si dice esistenzialista, guarda alle crepe della quotidianità come ad indizi della fine di un mondo: non si tratta di eccezioni su cui passare in fretta, ma carotaggi ontologici. E’ il mondo a cavallo tra ‘800 e ‘900, di cui le guerre mondiali non sono che espressione pandemica e le lotte per l’indipendenza prodromo. Le parentesi aperta e chiusa attorno all’idea di patria e probabilmente la fine della paternità (cioè del senso dei sensi) come la si conosceva.

aperteNon era arrivato il tempo in cui si impara che niente dovrebbe stupirci negli esseri umani, e che se è vero, come afferma Platone, che la saggezza nasce dallo stupore, non è meno vero che lo stupore muore con la saggezza».

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[Le immagini che corredano il testo sono tratte da ELIBRA. Grazie ad Elena.
«Come se quegli oggetti non fossero che ponti tremanti e transitori (come le parole per il poeta) per colmare l’abisso che si apre fra noi e l’universo» E. S.]

L’etica nel lavoro (rileggendo gli stoici)

Leggere gli autori delle cosiddette Scuole ellenistiche rimane uno dei doveri (e piaceri) di chiunque. Ma avere la possibilità di condividere alcune intuizioni di Seneca, Marc’Aurelio ed Epicuro (in ordine sparso) con un gruppo di ragazzi, è un’esperienza appagante. Come diceva il buon Sandro Onofri, questi sono i momenti in cui ringrazio per la professione che ho scelto.

Il dialogo è nato a partire da una provocazione che l’imperatore filosofo riprende da Epitteto (attenzione! Si tratta davvero di un messaggio difficile da ascoltare!):
“Baciando il figlioletto bisogna aggiungere tra sé: «Domani forse morirai». «Ma sono parole di cattivo augurio». «Nessun cattivo augurio – diceva Epitteto -: indicano invece un fatto naturale; altrimenti anche la mietitura delle spighe diventa un cattivo augurio”.

L’anticipazione di un fatto che gli stoici considerano fisiologico, come la morte, avvicinabile al taglio del grano o alla vendemmia, porta il filosofo a considerare tale eventualità reale e addirittura vicina anche per il proprio pargolo. Cattivo augurio? (Diremmo oggi: vuoi portare sfiga?) Non si tratta di pronosticare la morte della persona che ci è più cara al mondo, ma se mai di considerarne appieno la vita, proprio esercitandosi al pensiero della sua conclusione.

Nella concezione stoica della cosiddetta Atarassia (lett. assenza di turbamento), che possiamo pensare anche come Indifferenza (dare alle cose l’egual peso che esse meritano nell’economia del cosmo) o Magnanimità (dilatare il proprio animo affinché possa ospitare continuamente alternative alla prima impressione o al giudizio immediato), immaginare per un padre la possibilità della morte del figlio significa esercitarsi a rinunciare al pieno controllo sulla sua vita.

In altri termini, significa avere ben chiaro che noi possiamo naturalmente desiderare la felicità di nostro figlio, ma che dobbiamo fare i conti con le nostre effettive possibilità di realizzarla. Se essa diventa una sorta di imperativo o addirittura di ossessione, probabilmente otterremo l’effetto opposto. Soffocheremo la nostra creatura con il bene che per lei desideriamo.

Lancio al gruppo di ragazzi uno spunto. Se decidessi di intraprendere un secondo lavoro per poter garantire a mia figlia un livello di vita (economicamente) superiore, sono sicuro che il tempo sottratto a lei non sia in ultima analisi più dannoso per la nostra relazione? Oppure, in altri termini, sono certo che l’esigenza economica non diventi per me una sorta di “passione triste” che si metta in mezzo tra me e lei?

A questo quesito si alzano le barriere, quasi fosse avvertito come una critica al tempo lavorativo dei genitori (formulata per di più da chi, nella vulgata, lavora mezza giornata). Ma non è così.
Incrocio allora questa possibilità con un altro elemento: nei mesi passati una studentessa chiese di poter parlare del fenomeno dei suicidi a causa della crisi e del fallimento della propria azienda. Talvolta, nelle ultime drammatiche spiegazioni del gesto, figurava la vergogna di fronte ai figli, o il timore di non poter garantire loro una vita dignitosa.
Allora, una ragazza disse una cosa che mi diede da pensare: sono grata ai miei genitori per quello che mi danno, tuttavia vorrei vivere diversamente da loro il lavoro. Come dire: è un ingrediente fondamentale dell’esistenza, ma attenzione che non invada ogni ambito dell’esistenza stessa.

Gli stoici s’intendevano di suicidio, giacché lo consideravano l’ultima spiaggia dell’uomo assennato nel momento qualora le condizioni materiali di vita non gli consentissero più di praticare la virtù. Non è quindi un suicidio cercato, come si suole dire, per disperazione e sul quale non è possibile – né corretto – esprimere alcun giudizio. Se mai, una domanda: quale visione del lavoro avevano queste persone? Quale peso ad esso attribuivano?

I ragazzi Рquesto ̬ il primo elemento fondamentale, che costituisce una conferma Рosservano continuamente gli adulti. Che lo facciano consapevolmente o meno, cercano un confronto, una pietra di paragone; misurano le azioni con le parole che i genitori o gli insegnanti pronunciano, ne verificano la coerenza o meno.

Il secondo elemento: alcuni di essi raccontano come hanno compreso quanto il lavoro sia una parte fondamentale della vita adulta e come sia necessario sacrificare il tempo passato con i figli in nome della professione. Sono anche consapevoli che questo sacrificio corrisponde al desiderio di realizzarsi pienamente come persone: non è un dramma, ma un’esperienza di creatività e di impegno personali. Emerge chiaramente come in queste famiglie accada un fecondo e continuo dialogo su quello che la vita richiede, sui patti ai quali dobbiamo scendere, ma anche sui risultati che fanno dell’esistenza un’esperienza entusiasmante.

Altri ragazzi rimangono perplessi. Sono coloro che in silenzio annuiscono quando vengono posti di fronte all’idea di come davvero qualche adulto – forse messo alle strette – abbia prediletto il lavoro (la carriera) alla famiglia. Può sembrare retorico, o cinematografico… Ma neo fatti accade. Si potrebbe dire che non si sentano scelti sino in fondo. Spesso sono i medesimi che comprendono che, qualche volta, giustificare le scelte con un “è per il tuo/vostro bene” nasconda alcune ambiguità. Non le sanno sviscerare, ma le avvertono e si ritraggono. Più di qualche volta sono coloro che faticano a trovare nella scuola un senso, una buona occasione, una sfida ottimale e si trovano piuttosto a subirla.

Ecco quindi il terzo elemento: impariamo a fare “il nostro dovere” non perché ci venga insegnato a parole. Ma perché conviviamo con persone che fanno del proprio dovere un’occasione di ricerca del senso della vita. Non l’unica, non quella esclusiva. Nel lavoro c’è un senso, ma il lavoro non coincide con il senso. Quale esso sia, nemmeno gli stoici possono rivelarcelo in maniera assoluta. Ma dal loro pensiero possiamo prima di tutto riconsiderare questa parola – dovere – spesso non amata (perché spesso imposta) e insieme lasciarci ispirare per la nostra personale ricerca di senso.

Memoria della Dignità

“Ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”
(Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982)

effetto telecomando

Al momento, dovrei soffermarmi sull’Aquinate. Tommaso, insomma. Essere e essenza, prove dell’esistenza di Dio, Deus Absconditus et cetera.
Il fatto è che ho la mania, compulsiva a tratti, di sbirciare Fb o Tw per curiosare e vedere che cosa fa il mio “micro mondo”.
Ecco: non dovrei farlo.

Non parlo di questioni di etica professionale, secondo cui, come qualcuno sostiene, è necessario che i professori non annoverino tra i propri contatti gli studenti, né di etica personale, secondo cui non dovrei proprio perdere tempo in quisquilie.

Si tratta di estetica, di teoria del gusto. Il fatto è che mentre al mattino, spremendo l’enorme agrume della storia e della filosofia, cerco di offrire ai miei studenti, con tanto di vassoio e livrea, un concentrato di provocazioni, illuminazioni (altrui), intuizioni… Durante il pomeriggio vedo molti di loro bearsi e beotarsi di riferimenti – veloci link su Fb, battute magrissime e autoreferenziali – che volutamente e consapevolmente raschiano sul fondo ambiguo del barile del linguaggio del Pop, intrattenendosi tuttavia non con le mutande di quella cantante o con l’attore di quella fiction, insomma con materiali ugualmente pop, ma con argomenti cui la storia dell’uomo ha dedicato le energie migliori.

Dio, Cristo, Allah, Buddha. Le sofferenze e i dolori, la malvagità della creatura umana. Le sue soddisfazioni profonde nell’interesse collettivo e non egoistico. L’elenco potrebbe essere lungo. Pensate a qualcosa cui avete dedicato qualche spazio di pensiero e di emozione; qualcosa per cercare il cui nome avete percorso metri e metri di letteratura e di filosofia; qualcosa che ha inchiodato parte (o tutta) delle vostre giornate. Qualcosa di valore, insomma.

E una volta pensatolo, guardate il primo venuto che ci gioca nel fango. Che lo sbatacchia, lo stropiccia, lo sprimaccia e poi passa ad altro, insoddisfatto, l’occhio vacuo che nemmeno un bue. Un po’ un bambino prima, come si dice, di “affrontare il suo Edipo”, prima di prendere atto che i desideri/impulsi possono essere rinviati, o – assurdo! – disattesi. Non voglio evocare il monaco cieco del Nome della Rosa, secondo cui ridere del poco porterà inevitabilmente a ridere del Tutto. Ma rimane la domanda: si può davvere ridere di tutto?

Ecco io penso che la risposta sia no. No, perché è brutto ridere di fronte alla morte, alla sofferenza, alla ricerca, alla soddifazione altrui, banalizzandola . Non moralmente errato. Proprio brutto, come un abbinamento sbagliato in una sera di gala o un palazzone abusivo, una stecca alla Scala o un lago inquinato. Banale è da bannum che sta per legge divenuta consuetudine. E’ la normalità di cui non ci si accorge, paesaggio ordinario, un canale dopo l’altro nell’atto autoconsolatorio del dito sulla tastiera del telecomando. Come se non ci fossero più vette, in questo che sembra talvolta un deserto della mente e del cuore.

Socrate, i giovani e la morte

XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione , ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.

Platone, Apologia di Socrate, la traduzione è tratta da qui

Socrate indica i giovani come portatori futuri del suo compito. Quale? Quello di condurre la gente a render conto a se stessa e agli altri di come sta vivendo. In altri termini, a dare ragione della paura o del coraggio che anima ciascuna delle nostre scelte.
Perché i giovani? Perché come lui essi più degli adulti possono affrontare la morte guardandola negli occhi; perché essi come lui non hanno ancora costruito o accettato un insieme di piccole certezze o grandi menzogne che aiutino loro a sopportare la vita.
Ma una vita sopportata non è degna di essere vissuta.

Fa eco il Maestrone, che osserva dal tavolino le beghe quotidiane nelle quali ci infiliamo:

O forse non è qui il problema
e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
e ognuno costruisce il suo sistema
di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali,
scordando che poi infine tutti avremo
due metri di terreno…

Francesco Guccini, Canzone di notte n. 2

La vita può solo essere danzata, perché sia vita.