padre, David

Papa, amore ci ridoni al silenzio.
Dio è silenzio: muriamo
di pietra le porte del tempio
della cella, del cuore. Diremo poi
la sola parola
capace di spegnere l’incendio: dopo,
dopo i lunghi anni di silenzio
di amato, divino, salvatore
silenzio.

Papa, non sappiamo nulla
e ne sapremo ogni giorno di meno.
Nulla della vita, della morte
del tempo; nulla
della fine e del principio.
Forse gli uomini apprenderanno
ancor più dal silenzio,
da una vita murata in silenzio,
offerta, consunta
dal fuoco nel deserto
dell’abbandono e della “Non-curanza”,
il fiore del deserto tra le aride pietre.

Papa, non dire di quanto un uomo è responsabile
e poi lo espropri della sua coscienza. Non dire
di come Dio è coinvolto:
di fronte a un bimbo deforme,
irrimediabilmente deforme,
legittima è la bestemmia.

Papa, non dire di queste cose troppo alte,
di cosa è il tempo e la storia,
e ogni apocalisse e la profezia.
Soli o insieme lo Spirito ci guidi
a ritrovare il metro delle cose.
Ritorni il contemplativo,
uomo della misura: lui solo!

E dopo anni di benedetto silenzio
ritorni a dirci, lui solo
cosa veramente importa. – Ma dopo!

(David Maria Turoldo, + 6 gennaio 1992)

turoldo


Poche ossa, poca carne

COLLOQUIO NOTTURNO
(Davide Maria Turoldo)

E quando la notte fonda
ha già inghiottito uomini e case,
una cella mi accoglie
esule del mondo. Gli altri
nulla sanno di questa mia pace,
di questi appuntamenti.

Forse neppure io stesso
saprei rifare l’itinerario del giorno,
ripetere la danza del mio Amore.
Quasi nulla avanza di me
la sera: poche ossa, poca carne
odorosa di stanchezze,
curvata sotto il peso
di paurose confidenze.

Allora Egli mi attende solo,
a volte seduto sulla sponda del letto,
a volte abbandonato sul parapetto
della grande finestra. E iniziamo
ogni notte il lungo colloquio.

Io divorato dagli uomini, da me stesso,
a sgranare ogni notte il rosario
della mia disperata leggenda.
Ed Egli a narrarmi ogni notte
la Sua infinita pazienza

E poi all’indomani io, a correre
a dire il messaggio incredibile
ed Egli ferino al margine delle strade
a vivere d’accattonaggio.

(da O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1990, pag. 166)

Un uomo senza travestimenti. Per don Cristiano Bortoli

donCristianoBortoli

«Sembrava veramente come luomo del deserto da cui era emerso Gesù, l’unico Maestro. Mi apparve come l’uomo spogliato di tutti i travestimenti che ci vengono chiesti». Così Arturo Paoli descrive il suo maestro dei tempi del noviziato, nel deserto, con i Piccoli Fratelli.
Nei primi anni di università , quando la mia esperienza di chiesa cominciava ad essere messa in crisi da dinamiche parrocchiali sempre più anguste e dal sostanziale isolamento culturale vissuto dalla Fuci, trovai un luogo sicuro presso il Centro Universitario padovano. La sicurezza di cui parlo non aveva tuttavia nulla a che vedere con appartenenze forti o strutture solide e ben avviate. Al contrario, quel che incontravo durante l’Eucarestia del sabato sera e, ancor più forse, nella celebrazione mattutina delle Lodi, era la certezza di una possibilità  fondamentale, e fondativa: l’inesauribile energia della fede come domanda continua.

donCristiano

E’ proprio questo sguardo disarmato, non violento, anti-ideologico ciò che mi torna nella mente e nel cuore, pensando a don Cristiano. Venivo dall’assidua lettura di Turoldo e trovai una persona illuminata che ne citava i versi durante o al termine delle omelie: intuivo la medesima radicalità  del servita, ma con una dolcezza per me nuova. Don Cristiano, durante la consacrazione o per la benedizione finale, aveva un modo tutto suo di aprire le braccia, di spalancarle, precarie e accoglienti nello stesso istante. Non sapendo quando verrà  l’alba, io spalanco ogni porta: una disponibilità  totale nel permetterci di partecipare dei suoi dubbi e interrogativi, nel farli risuonare – da lui a noi – senza vergognarsene mai. La sequela perdeva e caratteristiche del regime, delle rigidità  di una Chiesa vincente e diveniva comunità danzante, fondata sulla misericordia.


Non ho mai avvertito semplice avvicinarmi a don Cristiano e ho spesso avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad uno spirito monastico, pronto per la solitudine, e nello stesso tempo dedito al lasciar essere, ad una tolleranza che sconfinava nella ritrosia. All’alba, nelle mattine degli inverni universitari, suonare al portone di via Zabarella rappresentava un’incognita. Eravamo spesso in due o tre, don Cristiano apriva e, dopo un cenno di saluto, le prime parole che sentivamo erano quelle del breviario di Bose, i cui salmi cercavamo di cantare intuendo una melodia talvolta troppo vaga per non sentirci in imbarazzo. Ma la fatica finiva presto: egli insisteva perché la colazione fosse condivisa, perché salissimo le strette scale fino al primo piano e ci accomodassimo in cucina. Dopo il caffè, don Cristiano si ritirava, come se fosse scontato che era tempo per ognuno di andare al proprio lavoro, al proprio banco di studio.

Aveva un’attenzione particolare per i fermenti della chiesa e della cultura: tra i primi a farci conoscere la liturgia di Taizé e padre Enzo Bianchi, non temeva di annoverare nel calendario delle conferenze del Centro (il cui poster giallo è rimasto tale penso da sempre) personalità  marginali e talvolta scomode, purché genuinamente in ricerca. Era la nostra “cattedra dei non credenti”, uno spirito di ascolto che, nonostante il lento e non semplice passaggio, rimane ancora oggi la cifra del Centro. Ci sono stati anni in cui il salone nobile – o la chiesa di Santa Lucia – non bastavano a contenere le persone, non più solo universitari, o studenti di un tempo, ma gente qualsiasi, bisognosa di parole significative. Sentivo, nei preparativi all’interno della minuscola sagrestia del Corpus Domini, come non amasse esser considerato un riferimento imprescindibile, un “guru”, e che non desiderasse dar peso alle incomprensioni tra i gruppi che in tempi diversi si era trovato ad allevare. Come se volesse, per lo più in silenzio, rimanere solamente un veicolo verso il Maestro, più simile al Battista che non a Pietro.

IsaccoTaize

Gettare lo sguardo sempre al di là : qualcuno avrebbe potuto trovarlo semplicemente eccentrico, specie chi non si fosse fermato ad ascoltarlo. Invero, la sua eccentricità  era radicale: il centro a cui additava non era mai il suo discorso o la sua persona, ma sempre e comunque il Sacro. Ora ci ha preceduti, e nello stesso tempo ci sta alla spalle, come quella figura misteriosa posta dietro al piccolo Isacco delle vetrate di Taizé, che con una mano custodisce, con l’altra spinge verso il sogno del mondo: «guarda fuori al miracolo delle cose, oltre il tuo lavoro».

Nell’astuccio

Ultimi tratti di Agosto. Dopo la carrellata di focose figure mitiche, sembra che Beatrice abbia aperto l’uscio all’autunno, «mia antica stagione». E comunque ci penserà Settembre a ricordarci che l’estate non è per sempre. Penso siano questi i giorni più difficili, almeno per chi vive ormai da anni abbarbicato ad una temporalità circolare che vede il suo rinnovo proprio in questi tempi.
Anche la vita civile sembra però seguire i ritmi della scuola, al di là del monomaniacale egotismo dei docenti, data la sparpagliata popolazione studentesca che rianima i quartieri. Questo è il tempo del diario nuovo e del riassetto di astucci e cartelle: l’odore della plastica nuova di cartoleria è l’odore del precipizio che si avvicina, è l’odore della fine del tempo liberato.
Diversamente dall’anno scorso, quando il tempo estivo si era prolungato nella mente e nel cuore sino ad averne tedio, quest’anno avverto che la sfida è più acuminata. La rincorsa pare troppo scarsa e il cavallo troppo alto: nonostante la pedana elastica, come alle medie, vorrei rinunciare al salto. Il prof. Angeli mi guardava compatendo più se stesso che il sottoscritto, pensando alla forza che doveva metterci per far fare il volteggio all’adolescente rotondo che aveva di lato. Ora ci incrociamo sul ponte dei Quattro Martiri, la stessa agilità ciclistica e la medesima borsa di cuoio. Che ci metteranno in borsa i prof. di educazione fisica?
La mia, di borsa, giace triste e piegata su se medesima a lato della scrivania, mi osserva panciuta e svuotata, le mentine gorgogliano nella pancia. Domani riprende a vivere e ne gode, sotto sotto.
Che cosa debbo sfidare? L’estate non mi è mai appartenuta, luogo troppo luminoso per non far risaltare i miei luoghi oscuri. Ma mi è ancor più lontana, se penso alla sforzata allegria di cui è popolato FB e i link laterali dei maggiori quotidiani. E’ un unico linguaggio, fatto di vittoria e di olio per il sole, muscoli, propaggini fisiologiche erettili al massimo dell’espansione, costumi alla moda mai troppo piccoli. Tutta questa fisicità mi incanta e incatena, ma non riesco a condividerne nemmeno la giovanile vitalità. Come Comisso, nel suo racconto della guerra: l’esaltazione della gioventù libera in un tempo (e una terra) di nessuno, toraci nudi al sole, il giorno prima della terra di trincea nella bocca, negli occhi. Era vita, ma pur sempre guerra, che fa male anche se è bella.
E ora devo tornare a far da arbitro al vostro gioco del silenzio, come tra i cipressi nell’asilo del Santo Spirito: piccoli prometei incatenati ai banchi (o alle cattedre – che facciamo finta di nulla, ma è uguale). La sfida è far volare lo spirito, quel punto luminoso di energia vitale, senza il quale anche il sangue a gonfiar le vene non scorrerebbe, se non pigro e indolente. La sfida è riprendere quota, su, dalle sabbie appiccicose e dalle ghiande dei porci, ai masi solitari sotto le Pale di San Martino, meta comoda finché non si tratta di spegnere il motore e vedere se camminare è ancora possibile (ma non come escursionisti: ché, anche là il meglio è la vittoria del fisico sulla pendenza. Io invece parlo di sconfitte). La sfida è un’aria più sottile, senza onde di telefonini: il segnale è assente, il messaggio sarà inviato più tardi. Eh no, perché il messaggio siete voi, siamo noi.

oggi

Novantacinque anni fa nasceva, a Coderno, frazione di Sedegliano, in Friuli,
Davide Maria Turoldo.

 

 

 

 

 

 

 

Canta il sogno del mondo
di Davide Maria Turoldo

Ama
saluta la gente
dona
perdona
ama ancora e saluta
(nessuno saluta
del condominio,
ma neppure per via).

Dai la mano
aiuta
comprendi
dimentica
e ricorda
solo il bene.

E del bene degli altri
godi e fai
godere.

Godi del nulla che hai
del poco che basta
giorno per giorno:
e pure quel poco
– se necessario –
dividi.

E vai,
vai leggero
dietro il vento
e il sole
e canta.

Vai di paese in paese
e saluta
saluta tutti
il nero, l’olivastro
e perfino il bianco.

Canta il sogno del mondo:
che tutti i paesi
si contendano
d’averti generato.

dopo il discorso devastatore

Omaggio ad Andrea Zanzotto arrivatomi dalla ML [R-esisitiamo], scritto da Giuliano Scabia.

Non è vero che Andrea (Zanzotto) è morto.
 Lo so di sicuro.
 Mi ha strizzato l’occhio alcuni mesi fa, a casa sua – e ci siamo messi d’accordo
(nell’occhio – che di là passa tutto) 
e anche Uttino (il gatto) ha strizzato l’occhio – prima ad Andrea, poi a me.
 Per questo so che Andrea (col gatto – come Petrarca) è scappato dalla porta di dietro 
e si è nascosto fra le erbe – a Ligonàs – nell’umido –
e là passeggia e coltiva visioni e paesaggi –
e se la ride. 
Perché in 90 anni non ha imparato niente.
È sicuro che è là:
 e so che ci sono anche Goffredo (Parise), Mario (Rigoni-Stern), Gigi (Meneghello) 
e probabilmente Comisso.
 Sono là a Ligonàs ma hanno progetti di giro vagare:
 a volte su in Altopiano – a casa Rigoni: 
a volte a Malo – e anche a Urmalo –  lungo il Leogra:
 a volte a Salgareda – nella casetta di Parise:
 a volte a Zero Branco – da Comisso mato.
 A fare cosa? 
A dirsi le novità, e qualche requiem, qualche libera nos – e anche stupidade. 
E il gatto dietro.
 Insomma vagano le terre di casa – e le pesteggiano.
Giorno e notte.
 Non muoiono mica, gente così.
 Lo so.
 Prima di partire strizzano l’occhio.
Vero, Andrea Zanzotto?”

Succede questo: è come restaurare il vuoto che c’é nel mondo,
attraverso la trama dei versi, dei ritmi…
però all’inizio c’era il vuoto, c’era il no,
la negazione”

Andrea Zanzotto risponde alla domanda: perché hai iniziato a scrivere poesie? Tratto da Ritratti, a cura di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, ed. Biblioteca dell’Immagine, 2001

(il titolo del post è un verso di Davide Maria Turoldo:
Poesia
è rifare il mondo, dopo
il discorso devastatore
del mercadante
Poesia, in O sensi miei…, intr. di A. Zanzotto e L. Erba, Rizzoli, Milano 1993)

vivi da millenni

Un silenzio da udire
il rompersi di un ramo
come un fragore di mondo!

Tanto è cresciuto il mistero
in cinque notti di neve,
impaurita è anche la torre.

Dal bosco ti guardano gufi
occhi di monaci,
vivida millenni.

Anche il tempo è assente,
il chiostro assorto! Nessuno
dica: «E’ natura morta!»