Materiali per/da Genova_2001

Raccolta di materiali vari ad uso didattico e mnestico, dunque resistenziale (in aggiornamento).

  1. Documentario Carlo Giuliani, ragazzo [link funzionanti al 10/07/21]

2. La trappola
Nel 2006 il Comitato “Piazza Carlo Giuliani” ha prodotto un documentario intitolato La trappola. Da allora lo ha più volte arricchito man mano che si acquisivano nuovi elementi. La trappola è oggi il compendio più fruibile delle verità  emerse da un enorme, pluriennale lavoro di indagine. Riassume, per dirla con un compagno che conosciamo, «lo stato dell’arte nella ricostruzione della morte di Carlo». Nelle parole di chi lo ha prodotto, il documentario «ricostruisce l’uccisione di Carlo e le violenze efferate compiute sul suo corpo, partendo da tutto ciò che deve essere considerato causa e premessa dell’omicidio». [dal sito di WUMING, qui, dove si trova anche il link all’inchiesta].

Dal sito del Comitato è possibile trarre anche informazioni sui PROCESSI avviati in questi anni: QUI (link dal menù di testa). Sui processi cfr. anche la parte finale della ricostruzione del ILPOST.

3. La Diaz (e Bolzaneto)
Per capire cosa sia stata: QUI, QUI (audio). Di seguito, il documentario di Carlo A. Bachschmidt.

4. Due podcast benfatti (clicca sull’immagine)

(a cura, tra gli altri, di Jonathan Zenti)

5. Libri (clicca sulla copertina)

6. Sommari e punti della situazione

Ricostruzione a cura di Stefano Nazzi de ILPOST.

Wu Ming dal 2009 ma attualissimo QUI

Genova 2001. Un seme sotto la neve – di Alessandro Leogrande QUI

La cura nelle chiacchiere

Il seguito dell’editoriale del numero 121 di Madrugada sarà scaricabile, con il pdf dell’uscita, da questa pagina oppure si può leggere alla pagina del blog di Madrugada.

Il colore dei capelli di Elisa sembra seguire il suo umore: talvolta lo diresti rosso, poi ritorna indeciso e gioca con la luce, come lei con le sue domande. Mi racconta del corso che sta seguendo, in una prestigiosa università del Nordest. Si tratta di una disciplina importante, che il docente affronta parlando fitto in modalità online: più di cento ragazzi di cui si vede un pallino colorato nel rettangolo scuro. Così, per quasi quattro ore di seguito. Su sua accademica richiesta. Elisa si chiede se abbia senso; intanto segue, registra e poi trascrive – anche se gli appunti riproducono cose già dette, reperibili nei manuali o nelle dispense autoprodotte che si comprano in copisteria. 

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Gabriele Salvatores ha l’occhio del fotografo, colui che coglie il momento di singolarità, non ripetibile. Coglie e raccoglie, nel film collettivo â€œFuori era primavera” migliaia di momenti dell’isolamento italiano del 2020, attraverso video inviati o interviste. Tra le molte immagini degli operatori sanitari, una donna spiega con consapevolezza e rigore i limiti della struttura in cui opera. La voce, ferma sino a pochi secondi prima, si incrina, quando ella torna ai familiari dei ricoverati, quindi si ferma, rotta, al pensiero dei malati morti senza poter salutare nessuno.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

La notiziola rimbalza tra i siti che accalappiano click. Un padre canadese, di fronte alla fatica del figlio di accettare e mostrare una vistosa voglia sul torso, si sottopone a trenta ore di operazione per replicare, con un tatuaggio indelebile, la macchia su di sé, proporzionata al torace adulto. Il figlio, felice e confuso, commenta: “ogni volta che c’è papà posso togliermi la maglietta”. Il padre: “adesso avremo gli stessi segni per tutta la vita”.

Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Sulla collina

The Hill We Climb
When day comes we ask ourselves,
where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry,
a sea we must wade
We’ve braved the belly of the beast
We’ve learned that quiet isn’t always peace
And the norms and notions
of what just is
Isn’t always just-ice
And yet the dawn is ours
before we knew it
Somehow we do it
Somehow we’ve weathered and witnessed
a nation that isn’t broken
but simply unfinished
We the successors of a country and a time
Where a skinny Black girl
descended from slaves and raised by a single mother
can dream of becoming president
only to find herself reciting for one
And yes we are far from polished
far from pristine
but that doesn’t mean we are
striving to form a union that is perfect
We are striving to forge a union with purpose
To compose a country committed to all cultures, colors, characters and
conditions of man
And so we lift our gazes not to what stands between us
but what stands before us
We close the divide because we know, to put our future first,
we must first put our differences aside
We lay down our arms
so we can reach out our arms
to one another
We seek harm to none and harmony for all
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew
That even as we hurt, we hoped
That even as we tired, we tried
That we’ll forever be tied together, victorious
Not because we will never again know defeat
but because we will never again sow division
Scripture tells us to envision
that everyone shall sit under their own vine and fig tree
And no one shall make them afraid
If we’re to live up to our own time
Then victory won’t lie in the blade
But in all the bridges we’ve made
That is the promise to glade
The hill we climb
If only we dare
It’s because being American is more than a pride we inherit,
it’s the past we step into
and how we repair it
We’ve seen a force that would shatter our nation
rather than share it
Would destroy our country if it meant delaying democracy
And this effort very nearly succeeded
But while democracy can be periodically delayed
it can never be permanently defeated
In this truth
in this faith we trust
For while we have our eyes on the future
history has its eyes on us
This is the era of just redemption
We feared at its inception
We did not feel prepared to be the heirs
of such a terrifying hour
but within it we found the power
to author a new chapter
To offer hope and laughter to ourselves
So while we once we asked,
how could we possibly prevail over catastrophe?
Now we assert
How could catastrophe possibly prevail over us?
We will not march back to what was
but move to what shall be
A country that is bruised but whole,
benevolent but bold,
fierce and free
We will not be turned around
or interrupted by intimidation
because we know our inaction and inertia
will be the inheritance of the next generation
Our blunders become their burdens
But one thing is certain:
If we merge mercy with might,
and might with right,
then love becomes our legacy
and change our children’s birthright
So let us leave behind a country
better than the one we were left with
Every breath from my bronze-pounded chest,
we will raise this wounded world into a wondrous one
We will rise from the gold-limbed hills of the west,
we will rise from the windswept northeast
where our forefathers first realized revolution
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states,
we will rise from the sunbaked south
We will rebuild, reconcile and recover
and every known nook of our nation and
every corner called our country,
our people diverse and beautiful will emerge,
battered and beautiful
When day comes we step out of the shade,
aflame and unafraid
The new dawn blooms as we free it
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it
If only we’re brave enough to be it.

Amanda Gorman

Chiedere in prestito occhiali altrui

La cultura della pace ancora oggi si presenta come un’autentica urgenza di sopravvivenza globale ed esige un’ethos basato su rapporti non violenti volti soprattutto a istituire la solidarietà nel vivere collettivo. È noto che l’aggressività può essere bloccata attraverso i meccanismi di identificazione, nello scoprire nell’altro la nostra stessa umanità. Una cultura di pace implica il “vedere e sentire” l’altro (individuo o popolo), il percepire la sua diversità, come ricchezza, non come motivo d’odio.

Alessandro Bruni recensisce il libro di Achille Rossi su Panikkar, QUI

Tutti

ESSI, TUTTI LO SANNO

Chiedete ai pittori da marciapiede di Parigi

Chiedete al sole su un cane addormentato

Chiedete ai 3 porcellini

Chiedete al giornalaio

Chiedete alla musica di Donizzetti

Chiedete al barbiere

Chiedete all’assassino

Chiedete all’uomo appoggiato al muro

Chiedete al predicatore

Chiedete all’ebanista

Chiedete al borsaiolo o al prestatore

Su pegno o al soffiatore di vetro

O al venditore di letame o al dentista

Chiedete al rivoluzionario

Chiedete all’uomo che ficca la testa

Nelle fauci d’un leone

Chiedete all’uomo che sgancerà la prossima bomba atomica

Chiedete all’uomo che si crede Cristo

Chiedete alla cutrettola che la sera torna al nido

Chiedete al guardone

Chiedete all’uomo che muore di cancro

Chiedete all’uomo che ha bisogno di un bagno

Chiedete all’uomo con una gamba sola

Chiedete al cieco

Chiedete all’uomo che parla bleso

Chiedete al mangiatore d’oppio

Chiedete al chirurgo tremante

Chiedete alle foglie sulle quali camminate

Chiedete allo stupratore o al bigliettario

Di un tram o a un vecchio che strappa le erbacce nel giardino

Chiedete a una sanguisuga

Chiedete a un domatore di pulci

Chiedete a un mangiatore di fuoco

Chiedete all’uomo più miserabile che riuscite a trovare nel suo miserabile momento

Chiedete a un maestro di judo

Chiedete a un guidatore di elefanti

Chiedete a un lebbroso, un ergastolano, un tisico

Chiedete a un professore di storia

Chiedete all’uomo che non si pulisce mai le unghie

Chiedete a un pagliaccio o alla prima faccia che vedete alla luce del giorno

Chiedete a vostro padre

Chiedete a vostro figlio e al suo figlio futuro

Chiedete a me

Chiedete a una lampadina bruciata in un sacchetto di carta

Chiedete ai tentati, ai dannati, agli stolti,

Ai saggi, agli adulatori

Chiedete ai costruttori di templi

Chiedete agli uomini che non hanno mai portato scarpe

Chiedete a Gesù

Chiedete alla luna

Chiedete alle ombre nel ripostiglio

Chiedete alla falena, al monaco, al pazzo

Chiedete all’uomo che disegna le vignette del “New Yorker”

Chiedete a un pesce rosso

Chiedete a una felce che balla il tiptap

Chiedete alla carta geografica dell’India

Chiedete a un viso gentile

Chiedete all’uomo che si nasconde sotto il vostro letto

Chiedete all’uomo che odiate di più a questo mondo

Chiedete all’uomo che ha bevuto con Dylan Thomas

Chiedete all’uomo che ha allacciato i guantoni di Jack Sharkey

Chiedete all’uomo dalla faccia triste che beve il caffè

Chiedete all’idraulico

Chiedete all’uomo che ogni notte sogna gli struzzi

Chiedete alla maschera di un baraccone

Chiedete al falsario

Chiedete all’uomo che dorme in un vicolo sotto un foglio di carta

Chiedete ai conquistatori di nazioni e pianeti

Chiedete all’uomo che si è appena tagliato un dito

Chiedete a un segnalibro nella Bibbia

Chiedete all’acqua che sgocciola da un rubinetto mentre

Squilla il telefono

Chiedete allo spergiuro

Chiedete alla vernice blu scuro

Chiedete al paracadutista

Chiedete all’uomo col mal di pancia

Chiedete all’occhio divino così mellifluo e lacrimoso

Chiedete al ragazzo che indossa calzoni attillati nell’accademia dispendiosa

Chiedete all’uomo che è scivolato nella vasca

Chiedete all’uomo azzannato dallo squalo

Chiedete a quello che mi ha venduto i guanti spaiati

Chiedete a questi e a tutti quelli che ho lasciato fuori

Chiedete al fuoco al fuoco al fuoco…

Chiedete anche ai bugiardi

Chiedete a chi vi pare quando vi pare il giorno che vi pare

Che stia piovendo o che sia nevicato o che stiate uscendo su una veranda gialla di sole caldo

Chiedete a questo chiedete a quello

Chiedete all’uomo con la cacca d’uccello sui capelli

Chiedete al torturatore d’animali

Chiedete all’uomo che ha visto molte corride in Spagna

Chiedete ai proprietari di cadillac nuove

Chiedete alle celebrità

Chiedete ai timidi

Chiedete agli albini e all’uomo di stato

Chiedete ai padroni di casa e ai giocatori di bigliardo

Chiedete ai cialtroni

Chiedete ai sicari prezzolati

Chiedete ai calvi e ai ciccioni

E agli uomini alti e a quelli bassi

Chiedete agli uomini con un occhio solo,

A quelli sempre arrapati e a quelli no

Chiedete agli uomini che leggono tutti gli articoli di fondo

Chiedete agli uomini che coltivano le rose

Chiedete agli uomini che quasi non sentono dolore

Chiedete ai moribondi

Chiedete a chi falcia il prato e a chi va alla partita di calcio

Chiedete a qualcuno (uno qualsiasi) di questi o a tutti questi

Chiedete chiedete chiedete e tutti vi diranno:

Una moglie brontolona affacciata alla ringhiera è più di quanto un uomo possa sopportare.

Henry Charles “Hank” Bukowski Jr.

Città  sommersa

Marta Barone
Città sommersa
Bompiani, 2020

«Il ragazzo corre nella notte». La scena, onirica, del giovane che percorre la città in pigiama e a piedi nudi, mentre tutti dormono, costituisce un ulteriore inizio della storia, che mi permetto di affiancare ai due indicati dall’autrice. Il primo, dedicato alla madre, presenza lieve che consegna, nel libro, poche ma decisive parole: se è vero che è la madre a costruire l’origine della figura del padre nella psiche del figlio, che apre all’incontro con lo straniero per eccellenza, allora lo spazio vuoto, come il «buco in testa» che immediatamente rapisce il lettore, è quello lasciato dalla sospensione di giudizio da parte di questa donna, spazio che permette alla figlia di ricostruire la relazione con il padre ridefinendone la figura.

Il secondo inizio, poche righe sotto, riguarda Marta e parla, a sua volta, di una figura da ridefinire, questa volta la propria, attraverso la ricerca delle informazioni sul papà, ma soprattutto le parole per dirlo e quindi dirsi. Marta dunque, come Atena, viene partorita dalla testa, ma non di Zeus, giacché egli è assente. E’ dunque una sapienza diversa, non trionfante o disvelatrice di verità marziali quanto di possibilità, per lo più irrealizzabili, come le parole che avrebbe potuto scambiare con il padre Leonardo o come le finalità politiche della lotta armata.

Il “terzo inizio“, se lecito, ha il potere di inserire il lettore nel dramma di questa città sommersa che è dramma di una notte di follia omicida, e insieme di anni insanguinati così vicini da sembrare impossibili e di una storia personale di un uomo irregolare, anti-eroico, perché chiamato sempre – da se medesimo – a ripudiare il piano astratto delle teorie rivoluzionarie, pur così attraenti, o delle istituzioni sanitarie, così potenzialmente – borghesemente – comode, attratto dal «diminuire aritmeticamente il dolore del mondo», come avrebbe detto Camus. Un uomo in rivolta, dunque – e per questo incompatibile con i tentati rovesciamenti totali del sistema.

Può essere davvero questo il modo per interloquire con i cosiddetti Anni di piombo, attraverso cioè la memoria individuale, necessariamente famigliare, che non viene ripercorsa in maniera intimista ma con uno sguardo informato sulla storia.
Viene in mente, con diversissimo stile ma eguale intensità, “I Senza memoria”, di Géraldine Schwarz, perché in entrambi i libri non si corteggia mai il lettore, né le sue emozioni. Marta Barone anzi ci interpella lucidamente, costruendo una certa complicità che senza artefizi conduce (o per lo meno mi ha condotto) alla nostalgia per questa persona e per altre come lui, alla fine vittime come la gente che ha sempre difeso.

La corsa del Leonardo giovane uomo richiama un altro attraversamento di città, stavolta davvero onirico, quello di Herlitzka/Moro, in “Buongiorno, notte”, di Marco Bellocchio. Due vicende nate dalla medesima follia, patologica e ideologica allo stesso tempo; lì la passeggiata melanconica cadenzata all’alba da Schubert, dopo le immagini tragiche dei funerali di Stato commentata dai Pink Floyd, qui una fuga con i piedi feriti, in cui “l’unica cosa autentica che irradia la notte è il sangue”, l’unico suono il fiato spezzato, le parole nella testa. Sullo sfondo, due città, Roma e Torino, addormentate, anestetizzate, sommerse dalla mancanza di senso.

Pensieri dal post

Mi guardo attorno, attraverso i vari schermi, e leggo che in tanti si misurano con l’immaginare il mondo, o l’Italia, al termine della crisi. La narrazione del post-virus dunque imperversa, in questa fine marzo a partire dalla cui reclusione sto scrivendo. Quando queste righe saranno su carta, abiteremo già in un qualche segmento di quel post, e allora qualcosa di questi esercizi sarà stato confermato, altro dimenticato, ritrattato.

Mi piacerebbe avere il coraggio di disegnare l’utopia che verrà, percorrere con la mente i sentieri del Giusto e dell’Impossibile, della Bellezza che ancora non esiste. Ma non lo farò, e non solo per incapacità. Più che mai oggi, vorrei trattenermi nel disordine fertile dello scantinato dell’esperienza, quella reale di questi giorni.

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Simposio in tempi di Dad

Uscire dal meccanismo della conferenza, della lezione. Provare ad elaborare un sapere collettivo. Ciò che a scuola è momento di grazia, può accadere anche nell’emergenza.

Non consideri – disse – che unicamente così, contemplando il bello attraverso ciò che lo rende visibile, gli avverrà di generare non immagini (eidola) di virtù, perché non afferra un’apparenza, ma virtù vera, in quanto afferra il vero? E che, avendo procreato e allevato virtù vera, gli sarà possibile diventare caro agli dei, e anch’egli immortale, se mai altro uomo? (Simposio; 212a) Traduzione di MC Pievatolo, QUI

Non aspettatevi risposte. Domande, tante. Nei link seguenti ho cercato di riassumere la sinuosa caoticità del dialogo.

QUI il PRIMO SIMPOSIO
QUI il SECONDO
QUI il TERZO

una cosa antica

Queste righe sono state scritte su invito della Diocesi di Padova, per questa pagina.

Cinque centimetri dalla realtà
Il fatto è che lo star fermi conduce obbligatoriamente ad aumentare il tempo di pensiero. E se nessuno ci ha insegnato come e cosa pensare, noi semplicemente ospiteremo in testa quanto ci troviamo di disponibile, e quindi – di questi tempi, ben prima dell’epidemia – quanto di letteralmente disponibile troviamo tra le mani, scorrendo le schermate del telefono.
Nulla di male. E’ che, direbbe Foster Wallace, non stiamo facendo nessuno sforzo, non stiamo affatto scegliendo a cosa dedicare il tempo, su cosa accendere la luce della ragione. Immersi nello streaming, nel flusso di notizie, meme, video, audio, immagini possiamo persino convincerci di esserci fatti un’idea del mondo.

Possiamo certo alleviare lo spirito, qualora esso sia appesantito dal dolore. Se tuttavia perseveriamo in un costante status di leggerezza, è perché abbiamo scordato il momento esatto in cui tutto è diventato pesante. In cui noi ci siamo fatti pesanti.

Da pesanti a pensanti: si rende necessario uno sforzo, salire un gradino un poco alto, alzarsi dalla sedia. Uno stacco, un’interruzione forzata. La corrente salta, tutto resta buio. Ecco che reagiamo, cerchiamo una candela – metaforica si intende, nulla da mostrare alla finestra.

Se per cause da noi indipendenti ci sia restituito un poco di tempo, usiamolo per prenderci la distanza di cinque centimetri dalla realtà. Per guardarla da fuori.
Ma se ora ci pensiamo, non facciamolo solo per pensarci su – ricadremmo nella corrente e invece abbiamo voluto togliere la spina.

Ecco: la preghiera – questo millenario istituto – è un modo per galleggiare sulla realtà, senza essere palloni gonfiati. E’ un modo per non affogare nella realtà, facendoci un poco più leggeri, non piume, ma pomici.
Prendere le distanze vuol dire prendere atto che anche oggi possiamo mangiare; vuol dire celebrare che siamo qui e possiamo vederci e parlarci; vuol dire confessarci che la notte fa paura, e che possiamo raccontarci i mostri che stanno sotto i letti; vuol dire riportare alla memoria chi non ha nulla di questo, perché è nato in Siria, o in Libia, o…
Vuol dire sentire sul viso, come nella primavera che inizia, il sole, che dice: voi siete figli amati. Da pesanti, a pensanti, a pensati.