Galimberti e la questione dell’insegnamento

Adoro quanto Galimberti dice e come lo dice in questo scambio.
Penso che abbia ragione su tutto, sia nella sua parte distruttiva che nelle sue proposte radicali: l’assenza di desiderio, l’empatia necessaria, la conoscenza di base delle dinamiche dell’evoluzione della mente e del corpo degli adolescenti (la mia esperienza è nella secondaria superiore), l’opportuna capacità teatrale e la sua carica vitale, la selezione sulla base di un colloquio che implichi l’insufficienza del mero titolo di laurea, l’emozione come principio dell’apprendimento (su questo, anche Daniela Lucangeli), lo schiacciamento dell’istituzione sulla professione docente, il numero degli alunni per classe, la formazione indispensabile.

Eppure penso che il tutto sia nel complesso sbagliato.
Ciò di cui non si tiene conto- in primo luogo – è che la nostra è scuola di massa, intendendo con questo non una critica alla massificazione dei saperi, quanto la necessità inderogabile di realizzare il principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla nostra Costituzione. La scuola pubblica deve essere per tutti. Ma per tutti (anche in fase di collasso demografico) devono esserci moltissimi insegnanti. Come formare un così alto numero di addetti? Si dirà, giustamente: con l’ingresso di nuove abbondanti risorse e la revisione del processo di entrata. D’accordo.
Ma intanto? Possiamo azzerare la situazione attuale? Evidentemente no. Alcune delle riforme, dei ritocchi, degli ultimi anni cercano di apportare alcune novità, spesso incomprese e criticate senza essere per lo meno capite. Concepisco per esempio l’insistere sulle competenze non tanto come la volontà di aziendalizzare la scuola, o finalizzarla al lavoro, quanto come tentativo di relativizzare un insegnamento costituito da mere nozioni, che tuttavia appare indispensabile nell’ottica della valutazione quantitativa: se dobbiamo mettere un numero dobbiamo partire da una quantità. In questo senso dovremmo formarci di più sulla valutazione formativa, sulla diversificazione delle prove, sulla personalizzazione della richiesta.
E qui entra perfettamente la questione del numero di alunni per classe.

Ma c’è dell’altro. Probabilmente pecco di hybris o di supponenza nell’affermare che quotidianamente cerco di interpretare tutto ciò che di costruttivo Galimberti afferma e di realizzarlo al meglio. Così dico a me stesso nei giorni buoni, così – sempre nei giorni buoni – mi pare mi venga riportato, circa il mio operato, da ragazzi, genitori e talvolta colleghi.
Supponendo sia vero, come possono uno o due insegnanti per consiglio di classe apportare un cambiamento? Nel tempo in cui costruisco una lezione partecipata, che coinvolga il piano emotivo, che venga proposta in modo efficace (io dico: faccio la scimmia), che tenga conto dei ragazzi che ho di fronte, e che soprattutto dia strumenti per indagare se stessi e il mondo di oggi… La maggioranza dei miei colleghi ha fissato una sfilza di compiti e interrogazioni che risucchiano le energie della classe. Mi dice una collega e amica, raccontandomi di una confidenza del figlio: mamma, vorrei poter godere delle cose belle che mi vengono dette in quest’ora, se solo non fossi catturato dall’ansia della verifica dell’ora successiva.
E non possiamo nasconderci, come docenti, dietro alla pretesa di “insegnare a vivere” creando situazioni di stress “che poi la vita blablabla”.

Infine, la cosa che mi fa più paura: la modalità di istruzione che abbiamo costruito nel tempo conduce i ragazzi ad imparare subito una cosa, la strategia migliore per sopravvivere. Sono abilissimi nel comprendere la richiesta e tenersi a galla nel modo più efficace, cioè risultati quanto più alti con lo sforzo minore (non parlo di chi non faccia questo calcolo: egli o ella è in uno di questi due casi, o non ha bisogno della scuola – arriva da sé – oppure ha stabilito con me una qualche relazione di lealtà, di fiducia). Posta sempre la premessa di cui sopra, alcuni di questi ragazzi entrano perfettamente nella modalità “insegnante-tollerante ON” e sostanzialmente sfruttano i miei sforzi. Per fare di meno. Triste, ma accade.

Talvolta penso che tutto quanto di meglio io possa fare è l’opzione migliore per quello studente che ero io (e i miei compagni al Cornaro) trent’anni fa. E che, se è vero che l’insegnamento di Platone è immortale, è altrettanto vero che l’uomo sta cambiando. Non penso per forza che cambi verso il peggio, anche se i toni di Galimberti stesso in altri interventi non sembrano lasciare troppe speranze. Eppure, se mi percepissi senza speranza dovrei decidere di non entrare più in classe. Pertanto continuo, fidando nell’unica risorsa, il lento miglioramento, la paziente convivenza con colleghi alieni a me, la bella alleanza con colleghi, studenti e genitori che credono in altre possibilità.

PS#1: Luca Illetterati mi segnala questo suo intervento di alcuni anni fa, ma sempre valido.


2 risposte a “Galimberti e la questione dell’insegnamento”

  1. No, non adoro Galimberti ma quello che dice mi fa male. Davvero. Perché racconta il verosimile e mi prendo qui lo spazio per aggiungere una riflessione amara e rabbiosa.
    Giovanni, la scuola continua ad essere un luogo che offre solo parole che non hanno movimento. Un luogo dove ci si annoia, dove non entrano le storie dei ragazzi. Un luogo che ha una scarsa, scarsissima , capacità di rispondere alle loro esigenze perché istruisce, è un centro di istruzione, di addestramento e chi non impara rimane fuori. Questa è la realtà! Un luogo dove si cerca solo lo sviluppo curricolare, dove tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace (penso al voto che già di per sé crea conflitti a livello cognitivo).
    Io ho paura di una scuola che deve rispondere alle esigenze del mercato, una scuola massacrata dalla dottrina neoliberista con un vocabolario di impostazione aziendalistica. La scuola non dovrebbe insegnare a entrare nel mondo del lavoro la scuola deve insegnare a cambiare il mondo.
    Che fare ,allora? Ti pongo questa domanda perché credo che in quanto insegnanti non possiamo fare nulla per poter cambiare il modo in cui è suddivisa la giornata nelle scuole, ma possiamo molto per il modo in cui è organizzata la giornata della nostra classe. (unica nota di speranza).
    Ancora una domanda..come riuscire a mantenere viva e a non fare perdere quella bellezza di cui parla quello studente?

    Una sacca di resistenza umana.

    1. Ciao Silvia,
      sì, la questione delle parole è davvero importante. A partire dal termine profitto, che esiste ben prima del binomio debito/credito. Che cosa vuol dire “studiare con profitto”? Se è principio di azione didattica, perché non aspettarsi che tutto venga sottoposto ad uno scambio di tipo commerciale e poco invece (che pure esiste) viene percepito all’interno di quell’altra forma di scambio che è il dono?
      Per insegnare a cambiare il mondo dobbiamo poterlo raccontare nella sua amara o solo complessa realtà. Mi è stato fatto notare che il mio commento tradisce una certa amarezza: sì, è vero. Perché, nel complesso, è come se volessimo spiegare le farfalle attraverso i quadri con gli insetti morti e fermati con lo spillo. La logica dello scambio commerciale porta i ragazzi a non considerare parte effettiva della lezione i riferimenti al presente, perché tanto non verranno chiesti nella prova. E se poi si iniziano a mettere nella prova, vengono di fatto trasformati in cadaveri di realtà…
      Grazie, Gv

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