Il mio 25 Aprile

Padova, oggi, 25 aprile.

Porto Elena sul listòn ad ascoltare la banda dei Bersaglieri. Le autorità hanno appena terminato i discorsi, la piazza di fronte a Palazzo Moroni si mescola di divise e di persone.
Indosso una coccarda tricolore, fermata sulla giacca con la “R” e “I” intrecciate, recuperate da chi sa quale decorazione del nonno. In Prato incontro il mio professore di filosofia della scuola superiore. Elegante e composto come allora, lo sguardo arguto e disincantato, accusa un po’ il peso degli anni. Con la moglie a braccetto, fanno qualche festa alla bimba. Poi il prof osserva la coccarda e dice: «A me non piace. In quel giorno là, mi prendevano a schioppettate». E poi: «Se questo che vediamo è il risultato della Liberazione…».

Il mio professore non nascondeva, nemmeno allora, le sue simpatie monarchiche. E decisamente anticomuniste. Lettore di Marx e dei socialisti, amante in genere dei libri, uomo di destra, vagava durante la ricreazione con “Il Giornale” di Montanelli sottobraccio. Ci stupivamo della sua capacità di leggerlo senza stropicciarlo.
Verso la fine del mio quinquennio mi ritenevo “di destra”: leggevo frasi di Mussolini e in un’occasione indossai persino uno stemma dell’Opera Nazionale Balilla.

Frequentavo un liceo comunemente definito, e sedicente, “di sinistra”. E la coerenza del mio insegnante strideva con le continue chiacchiere di molti docenti della scuola. Per me, allora, dirmi di destra era il modo per contestare l’omologazione.
Poi ho cambiato idea. Allora mi chiedevo come potessero piacermi le parole e le canzoni di De Gregori. Cercavo di sopportare la contraddizione. Poi, un’illuminazione: non devi essere di destra o di sinistra; devi, puoi, essere te stesso.

L’istinto a non omologarmi forse mi è venuto dall’appartenenza cattolica. A scuola non prendevo posizione durante le ore di religione, ma mi stupivo di come fosse difficile organizzare una messa d’Istituto per chi lo volesse, nelle parrocchie del quartiere. Ma il cattolicesimo non era un buon biglietto da visita: frequentare l’Azione Cattolica era già allora cosa da sfigati. E la sfiga, al liceo, è una variabile essenziale.

Ora penso a questo: ho avuto l’occasione di cambiare idea. Cioè di frequentare persone di destra, di sinistra, cattolici impegnati, preti operai, anche qualche profeta.
Si dà un fatto, innegabile, nell’Italia di oggi, frutto del 25 aprile: la possibilità di confronto con pensieri diversi. Tale fatto valeva – e vale – per me come per tutti quelli della mia generazione, o più giovani, o più anziani.

Penso chi stia qui il nucleo dell’antifascismo: fermarsi a considerare tutte le posizioni che ti si presentano di fronte. Non so se così, anch’io, sto in qualche modo “occupando” questo concetto. Ma mi sembra chiaro questo: se il fascismo è stato un sistema che ha eretto la violenza, l’imposizione, a strumento principale, allora non sono antifascisti quelli che, pur dicendosi tali, impediscono a qualcuno di parlare. Fosse anche uno che si dichiara fascista.

Penso che l’antifascismo debba abbandonare la nostalgia e gli slogan. Deve continuare a ricordare la storia di tante persone che, dal 1922 in poi, formularono una scelta ben precisa: stare dalla parte di chi era disposto a discutere. Resistere contro chi non intendeva discutere, ma usare il manganello. L’antifascismo si fonda sul ricordo, ma di chiunque: deve assumersi il rischio di raccontare e far parlare chi ha fatto la scelta della “parte sbagliata”. Non per dire: qualsiasi scelta è uguale. Ma perché, se si apre una discussione seria, non può non emergere la diversità tra chi ammette il confronto come metodo e chi invece utilizza la violenza, fisica, verbale o psicologica per imporre la propria idea. E gli slogan, frasi fatte strappate da un contesto, nella loro pretesa di riassumere la complessità della verità storica, diventano strumenti violenti, cioè fascisti. Sono buoni per lo stadio, ma non per la storia.

Mi si dirà che il fascismo non è stato solo violenza. Io ribatto che di fatto, dal 1924 in poi, non fu permesso professare in pubblico la propria appartenenza. Questo è un dato di fatto. Se questo è il prezzo da pagare per non avere criminali o mafiosi in giro (posto che fosse davvero così), dico che è un prezzo troppo alto. Se questo è il prezzo per avere case popolari, o altre forme di solidarietà sociale (posto che davvero fosse così), dico che è un prezzo troppo alto. Il limite storico del fascismo non fu tanto l’entrata in guerra sulla scia della follia nazista, ma la fine di ogni dibattito pubblico. E nella rinuncia al dibattito, all’approfondimento, il qualunquismo italiano tornava, torna e tornerà sempre a colorarsi di tinte totalitarie.

Non tutti coloro che si definivano partigiani erano antifascisti. Sembra paradossale, ma non lo è: se la Liberazione divenne occasione per qualcuno di regolare conti personali; se la guerra partigiana fu pretesto per qualcuno di dar sfogo alla propria rabbia animale… Ecco, io non trovo differenza tra questi e tanti loro omologhi di Salò. Dobbiamo fare i conti anche con questa storia, se non vogliamo tradire la memoria di chi ha perso la vita difendendo la libertà. Ricordando che il conflitto è sempre tra individui, mai tra idee, che senza un individuo che le pensa, non esistono.

Ora lo spazio degli slogan non è più tanto la piazza, quanto i social network. Ecco: oggi rimbalzano su Facebook slogan pro e contro la Giornata della Liberazione. Che cosa comunicano? Che ognuna di queste persone cerca come può un senso al proprio desiderio di non omologarsi, o alla propria lillipuziana rabbia personale.
Non hanno a che fare con la storia, con la fatica del pensiero applicata ai fatti degli uomini; ma solo con l’ideologia, cioè con una visione mistificata – perché non condivisa – della realtà.
La spilla dell’ONB che indossai a diciotto anni fu per me allora il mio triste “slogan su Facebook”. La mia coccarda tricolore oggi è il tentativo rinnovato di aprire un dialogo.

3 risposte a “Il mio 25 Aprile”

  1. Grazie,Giovanni ,di avermi ricordato che si “deve,può,essere se stessi”.La cosa più difficile nel marasma sociale,(ma anche familiare),di questi giorni.
    E fortunata la tua bimba di crescere con questi messaggi educativi.
    Quando insegnavo -ero allora alle superiori-mi resi conto di pensare in un dato modo spiegando storia su un testo di Villari…e ai miei allievi non mi stancavo di ripetere che in fondo la vita è racchiusa nella parola “scegliere”:sentimenti,emozioni,affetti,persone…,ma anche “rispettare”.

  2. Cercare di vedere e di capire il punto di vista dell’altro, l’ho imparato da pochi anni, grazie a Matteo e Sara, se provi ad abbassarti (in senso fisico) al loro livello, capisci cosa vedono, come ci vedono, cosa vogliono e possono raggiungere. E ho capito quando sia fondamentale nel mio lavoro, se non lo tenessi da conto non riuscirei neanche minimamente a capire la persona che soffre fisicamente o psicologicamente. E poi dà un senso alla vita quotidiana. Fatta di relazione con l’altro che mi permette di essere me stessa.

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