Giusto sul bordo

Anni fa l’associazione Macondo, quella che mi ha dato patria spirituale e intellettuale, aveva stampato una maglietta. Non ne ricordo esattamente lo slogan; parlava di speranza e di rassegnazione, della facilità di passare dalla prima alla seconda, mentre quella è infinita, questa è finita. Limitata.

Ho avuto modo di conoscere una persona che studia alle serali. Qualcuno che senza alcuna faciloneria possa dire: non ho tempo di studiare. Arrivando a casa dal lavoro un’oretta prima dell’inizio della scuola, di fatto ha a disposizione parte del week-end per concentrarsi sui libri.

Si fa un gran parlare di meritocrazia e di “ritorno al merito”. Tante belle parole. Qualsiasi personda dotata di senno non passerebbe gli sprazzi di tempo libero sui libri. Magari su di un libro. Ma su quelli scolastici, no. E a ragione. Questa persona lo sa e non si nasconde dietro un dito. Eppure – senza alcuna retorica -  è un individuo di merito, un individuo che merita. Che cosa?

Che ciò che lo circonda concorra ad un senso.
Certo, il senso è opera individuale, affidata a noi come singoli: la lenta costruzione di una direzione personale con cui dobbiamo ripempire i nostri occhi, originale bussola, per rimmeterci “in sesto”. Ma la fatica – perché di questo si tratta, checché ne dicano gli “adultoni” già sistemati – si quadruplica quando intorno appare tutto dissestato.

Posso aver intuito una stella che orienti il percorso. Ma si fa gelida e ancor più lontana se i parametri che ieri consideravo fermi, stamattina li trovo in cocci. Un coboldo si aggira per le nostre case e nottetempo spinge a terra le cose a noi care, poi si nasconde nello specchio e osserva la nostra faccia al risveglio.

Sono dissestato se constato che l’asse portante della filosofia, mia disciplina di insegnamento, e cioè la domanda, l’azione del domandare, non viene in classe evitata per superficialità, dabbenaggine o pigrizia (che son le prime cose che quando ci mastrocoliamo amiamo rinvenire nei ragazzi), ma perché si teme che l’insegnante “ritorca” contro qualcuno, interrogandolo, la domanda stessa.
Sono dissestato se constato che, nonostante il continuo quotidiano “aritmetico” sforzo, alcuni studenti non riescano a tener fede a pratiche minime di lealtà. Non a grandiosi proclami di fiducia reciproca. Non a solenni impegni in nome del dovere. A piccoli patti; al “siamo d’accordo che”. Che poi non è un accordo privato, ma un banale calendario concordato con l’intera classe.

Ecco. Il dissesto mi pare stia nella condanna che qualcuno ha deciso per questi ragazzi: dovete cavarvela da soli. Che non è la celebrazione delle capacità di autonomia. E’ il trionfo del “ci si salva da soli”. Non è il dover commerciare con la complessità del mondo; non è nemmeno il fallimento di orientamenti pedagogici varii, dal direttivo-autoritario al permissivo-libertario; non è il saggiare l’acqua della società fluida.
E’ la caduta delle ipocrisie dei nostri nonni, loro malgrado s’intende, che vivevano la dimensione della comunità per sentito dire, un copiaincolla di direttive ideologiche di una chiesa, di un partito, di un insieme di valori considerato talmente ovvio da essere spazzato via in meno di mezzo secolo. Avevano ascoltato un teorema pensadolo come giusto, non l’avevano mai davvero sentito.
I figli di quei nonni – che sono i padri e le madri di chi ho in classe – stanno in tre categorie: chi pensa che nulla sia cambiato, e arranca e si lamenta e insegna la rassegnazione; chi ha capito che nessuno ha mai creduto davvero alla favola del “vivere insieme” (poco importa se qualcheduno vi ha perso la vita o la salute) e quindi addestra i propri cuccioli ad essere animali solitari; chi non ha mai abitato un assoluto e adesso come allora resiste.

L’individuo è rassegnazione, la soddisfazione è rassegnazione, la grettezza è rassegnazione. La relazione è resistenza, la curiosità è resistenza, la passione-con è resistenza. Tra me e te, tra noto e ignoto, tra l’essere posseduto da una musa e il voler cercare insieme il linguaggio migliore: sempre e comunque la vita sta sul bordo.

2 risposte a “Giusto sul bordo”

  1. Hai ragione: anch’io sono un insegnante impegnato in attività di sostegno, per scelta. Spesso mi trovo a dire che il problema è (anche) rappresentato dal fatto che la scuola, la cultura, un tempo non lontano, era un valore (che poi ci sia da discutere sul rapporto scuola/cultura, è tutto un altro discorso). Oggi, no. E, putroppo gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto degli studenti. Quel che conta è il possesso, sono i soldi, il suv. Tutto il resto? No. Non a caso, non tanto tempo fa, un ministro della repubblica diceva, tranquillamente, che con la cultura non si mangia (e, devo ammettere, conosco idraulici ignoranti come capre, ma milionari…).
    A proposito, le tue riflessioni le posto sul mio blog. A presto
    Giuliano

  2. Ciao Giovanni, è sempre un piacere leggerti perchè, da bravo filosofo, sai mettere in moto i pensieri altrui attraverso il tuo.
    Mi piace molto la tua immagine, mi sento spesso, come insegnante e come persona, sul bordo…il che può terrorizzare se guardi in basso, ma è anche
    vero che se non si arriva al bordo è più difficile spiccare il volo…
    Tra rassegnazione e speranza c’è la scelta.
    Sono sempre stata convinta che sperare sia un duro mestiere, e come tutti i
    mestieri, necessiti di fatica giornaliera. Ecco credo che, similmente, la
    nostra professione si scelga ogni giorno, anche di fronte alle manchevolezze
    e alla povertà morale dei nostri pasciuti e abulici alunni… Io tento, a
    volte bene a volte meno, di sceglierla ogni giorno stando sull’orlo della
    speranza, anche quando le sirene della rassegnazione mi sembrano più invitanti, alle volte perfino più sensate…Quasi che l’avvilupparsi tra le spire grigie
    della rassegnazione renda meno pesante il dolore/frustrazione del nostro obiettivo
    fallito; dopotutto, il rassegnarsi non è forse più consolatorio? Nella
    rassegnazione è implicito l’accettare che il “problema” sia insolubile, cosa
    c’è di più piacevolmente assolutorio? Nella speranza , invece, c’è lotta, o
    come meglio hai espresso tu, la resistenza…la resistenza è ciò che mi
    permette di prendere coscienza del mio limite e di quello degli altri e di
    trasformarli in strada da condividere per affrontare i problemi e non in
    muro che ci separi illusoriamente da essi.
    Ecco, questo noi dovremmo cercare di far passare ai nostri ragazzi…l’amore
    per la resistenza in un mondo che, fin da quando erano bambini, ha eliminato
    i problemi dalla loro strada e, se non vi è riuscito, li ha convinti che tali
    problemi siano insormontabili rendendo loro rassegnati e abilissimi nel
    trovare quei metodi eludenti che tanto ci fanno imbestialire a scuola (la domanda
    non fatta, l’interrogazione programmata saltata, la copiatura….)
    Compito difficile, mi dirai, quasi donchisciottesco….eppure noi resistiamo
    Giovanni, lo dimostra il tuo post, la mia risposta e quella che ti daranno i
    colleghi, resistiamo perchè condividiamo, condividiamo perchè abbiamo
    trovato sulla nostra strada chi ce ne ha insegnato il valore perchè era sul bordo
    con noi.

    Ps. Grande il tuo neologismo “mastrocoliamo”!! Verbo a volte un po’ tossico,
    non credi? 🙂
    Elisa

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