bentornati nell’aula “Z”

Ogni generazione, probabilmente, considera se stessa la meglio gioventù e osserva con perplessità modi e scelte di quelle che arrivano. Nessun tentativo di biasimevole nostalgia quindi, se mai un ricordo, evocato da quell’universo di memorie che è il senso del gusto. E precisamente – dato il periodo – la memoria di una salsa di radicchio. Sì, un impasto denso di radicchio e maionese e chi sa quale altro condimento. La scena era sempre la medesima: al termine dell’orario mattutino delle lezioni accademiche, grosso modo verso la mezza, ci si avviava in gruppo dal palazzo del Liviano in via dei Fabbri. La mente situa la passeggiata in quelle giornate terse di inizio marzo, quando l’inverno cedeva il passo e le piazze brulicavano di vita operosa felice di muoversi al sole rinnovato. Arrivati da Zanellato – ribattezzato, in assonanza con i severi locali di filosofia, l’aula “Z”- la prima cosa che ci s’aspettava era una coda svizzera che dalla porta di sinistra arrivava sino al banco dei panini. Ora, non conosco la disposizione dell’attuale Lounge bar, ma questo tabernacolo della sazietà era situato in fondo al bancone, dopo una piccola apertura vicino alla cassa e adiacente ad una porticina. Per quanto ci sforzassimo di tirare il collo, nessuno di noi teoreti ha mai compreso l’esatta dimensione del cucinino. Si sapeva, per fede, che lì dentro avvenivano alchimie meravigliose.

L’attesa era paziene e umida d’acquolina. Si parlava di quanto ascoltato durante le lezioni, o di quello che ci avrebbe atteso nel pomeriggio. Naturalmente, di ragazze. Anzi, di studentesse, che è cosa diversa. E poi il fatidico momento della verità, l’ardua operazione di quadratura del cerchio, di misurazione dell’infinito: la domanda, una e una sola, capace di tenere insieme l’esigenza pragmatica di andare al sodo (uovo compreso) e insieme un intero bagaglio di ammiccamenti goliardici. «Amico, quanto grande lo vuoi?». Il tono era sempre il medesimo, flesso verso il rigido se di fronte il nostro aveva un novello o una ragazza priva di ironia (perché si riconoscono da fuori) ovvero languido e civettuolo se il turno toccava ad un vecchio studente del terzo o quarto anno. Il gesto, poi: millimetrica la lama seghettata indicava un tratto del filone di pane. Tanto lungo, tante mille lire. Infine la farcitura misteriosa. Per nulla facile, perché se ci si abbandonava ad una cinica mortadella solitaria, il nostro iniziava ad elencare decine di salse le più varie, dal regionale all’esotico. Tre gli ingredienti delle possibili innumeri composizioni. Spesso questa fase era affidata al silenzioso fratello, probabile inventore delle cuccagnerie. Quindi, dopo la seconda e definitiva domanda («lo mangi qua o lo porti via, ragazzo?»), alla cassa. Qui la matrona, colei che invero aveva le redini della biga alata, chiedeva il beveraggio e faceva di conto, non senza commentare l’acquisizione dei chili in sovrappiù o il taglio dei capelli del veterano di turno.

La triade di gestori aveva compiti ben precisi, dall’inspessimento dei panini all’atletico movimento della spemuta d’arancio. Ma chi sa come mai, vigeva un’alternanza gioconda, una tattica di gioco centrata sugli spazi vuoti da riempire, un accordo non detto che raramente emergeva in brevi e acidi scambi di ordini o appunti. Non c’erano remore biologiche, né vegetariane, o per lo meno, noi non ne avevamo. Lo spritz c’era ma il leone vigilava sul mostro policefalo, almeno in vista delle ore di Teoretica. L’unico cruccio, passettando verso piazza Duomo ciascuno con il suo saccoccio bianco, era che non ci fossero troppi maledetti piccioni, a condividere la sola vera dimostrazione dell’esistenza di Dio che mai ci sia rimasta sullo stomaco. A. M. D. G.

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